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Daniele Manusia

La battaglia contro il razzismo non finisce qui, intervista ad Allyson Swaby

Abbiamo parlato con la giocatrice giamaicana della Roma.

Questa appena conclusa era la seconda stagione di Allyson Swaby con la maglia della Roma. Gioca al centro della difesa, è forte fisicamente e aggressiva, abile in anticipo come in recupero, precisa tecnicamente. Ha ventitré anni, è nata negli Stati Uniti ma gioca per la nazionale giamaicana, il Paese originario di entrambi i suoi genitori. Quando qualche settimana fa George Floyd è stato ucciso da un poliziotto a Minneapolis, e in piena pandemia milioni di persone sono scese in strada per protestare contro la violenza e il razzismo delle forze dell’ordine, Swaby ha condiviso sui social la propria esperienza personale, fatta di micro-aggressioni e discriminazioni, diciamo così, “scherzose”. La Roma ha condiviso le sue parole e ha deciso di aggiungere un patch in sostegno del movimento Black Lives Matters sulla maglia della squadra maschile (che venderà all’asta, devolvendo il ricavato ad associazioni che lottano contro il razzismo e Roma Cares).

 

Con lei abbiamo parlato di questi temi, del suo percorso per diventare professionista e delle difficoltà che ancora oggi incontrano le donne che vogliono giocare a calcio per vivere. Dopo la sospensione dovuta all’emergenza coronavirus il consiglio federale della FIGC ha deciso di interrompere definitivamente la stagione e assegnare anticipatamente lo Scudetto alla Juventus, senza sentire il parere dei club che avrebbero preferito ripartire (si ricomincerà il prossimo 22 agosto – stranamente in contemporanea, e quindi in competizione, con le fasi finali della Champions League femminile).

 

Perché le calciatrici in Italia siano considerate professioniste bisogna invece aspettare la stagione 2022-23, quella che precede il prossimo Mondiale, e intanto si continuano a sentire gli stessi pregiudizi e luoghi comuni su un tema che oltre a interessare un pubblico in crescita (a novembre Fiorentina-Juventus è stata guardata da più di un milione di telespettatori, per non parlare del grande successo del Mondiale) riguarda soprattutto quelle giovani atlete che vorrebbero potersi allenare e giocare in un contesto il più competitivo possibile.

 

Cosa ti ha spinto a raccontare pubblicamente la discriminazioni che hai subito ai tempi in cui frequentavi il Boston College?

Con quello che è successo qui negli Stati Uniti, in seguito all’uccisione di George Floyd, molte storie hanno iniziato a circolare nei media e anche io ho iniziato a ripensare alla mia esperienza personale. All’inizio scrivevo le cose che mi venivano in mente come fosse un diario, ma scrivendo mi sono accorta della direzione che stavano prendendo le mie parole e ho pensato che potesse aver senso condividerle. Almeno con le persone che mi “seguono”, sperando che qualcuno di loro leggendole potesse imparare qualcosa di nuovo.

 

 

Dove eri quando ha iniziato a circolare il video dell’omicidio di George Floyd, in Italia o negli Stati Uniti?

 Ero già tornata negli Stati Uniti. Quando ho saputo quello che era successo ero appena tornata dalla spiaggia, stavo passando una giornata piuttosto normale e d’un colpo è diventata terribile.

 

Per una donna nera e americana cosa significa vedere immagini di quel tipo?

Be’, avevamo visto cose simili già prima, non è stata la prima volta. Stavolta però, anche per via dell’emergenza coronavirus, per il fatto che molte persone hanno più tempo libero, che anche io ho più tempo libero, ecco abbiamo potuto pensarci più a lungo. Stavolta non potevo dirmi: “Ok, questa è una cosa sbagliata”, e andare avanti con la mia vita. Mi sono sentita obbligata a sedermi e riflettere. Ovviamente è traumatizzante pensare che sia successa una cosa del genere a qualcuno perché aveva il tuo stesso colore della pelle.

 

Come hai reagito, sei scesa in strada?

Sì, ho partecipato a qualche protesta nella mia città in Connecticut, West Hartford, e nella città vicina, Hartford, che è la capitale dello Stato. Avrò partecipato a tre o quattro proteste, alcune erano delle marce, in altre mi sono limitata ad ascoltare dei discorsi. Sono state tutte super-pacifiche ed è stato bello vedere la comunità farsi avanti anche per qualcosa che non era successo nella nostra area.

 

Pensi che questo tipo di reazione possa cambiare le cose in meglio?

Quando torni a casa ti senti ottimista, perché hai visto che le persone si sono fatte avanti, e lo hanno fatto per sostenere la causa Black Lives Matter. E poi ti fa sentire bene sentire tutta quella gente intorno. Al tempo stesso ci sarà un’elezione importantissima a novembre, solo allora capiremo quanta speranza possiamo avere e quanto il messaggio di questi giorni sia stato efficace. Io penso che le cose stiano andando nella direzione giusta, ma solo il voto ci dirà se le proteste e quanto stanno facendo gli attivisti hanno fatto la differenza.

 

In un’intervista hai detto che le diverse reazioni dei club calcistici mostrerà quali sono le loro vere idee a proposito del razzismo. Sei orgogliosa di come ha reagito la Roma?

Prima di tutto sono stata molto felice che la Roma abbia condiviso i miei post, facendoli arrivare a tutti i loro tifosi. Mettere il patch sulla maglia equivale a inginocchiarsi, è un modo per cominciare a mostrare solidarietà, ma decidendo di mettere all’asta le maglie e donando i guadagni a delle associazioni sono andati più lontano. Questo per me è il prossimo passo, significa chiedersi: come facciamo ad andare più in profondità? Penso che la Roma abbia dato una risposta eccezionale. Questa non è una battaglia che finisce qui, si parlerà di questi temi per un po’ e spero che continueranno a farsi trovare pronti anche in futuro, restando vigili e continuando ad usare la loro influenza in casi di questo tipo.

 

Tu sei nata e cresciuta negli USA, che rapporto hai con le tue origini giamaicane?

Entrambi i miei genitori sono immigrati. Mio padre è venuto in Connecticut quando aveva diciassette anni, era nato e cresciuto in Jamaica, mentre mia madre è nata a Londra da genitori giamaicani. Quindi è sempre stata parte della mia cultura, con dei genitori immigrati di prima generazione è stato quasi come crescere in Jamaica. Ci sono molte cose che sono radicate in me.

 

Sei stata in Jamaica, anche prima di giocare per la Nazionale?

Sì, quando eravamo più giovani (Swaby ha una sorella, anche lei calciatrice ndr) prima che il calcio diventasse una cosa seria tornavamo in Jamaica tutti gli anni, in vacanza, per vedere il resto della nostra famiglia. Ovviamente quando la nostra vita calcistica si è fatta più competitiva è diventato più difficile.

 

Avevi un calciatore o una calciatrice che ti faceva da modello?

In realtà da giovane, anche quando già giocavo a calcio, il mio sport preferito da guardare era il basket. Quindi sono cresciuta idealizzando delle giocatrici, tipo Maya Moore, Renee Montgomery. Loro sono le mie eroine tra gli atleti. Da piccola non guardavo calcio come forse avrei dovuto, dopo ho apprezzato giocatrici come Wendie Renard (centrale di difesa della nazionale francese di cui abbiamo scritto qui) o Laura Georges (calciatrice del Bayern Monaco e della nazionale francese, anche lei gioca al centro della difesa come Swaby) che ha frequentato il Boston College come me.

 

 

Hai parlato di Maya Moore, che proprio in questi giorni ha scelto di mettere in pausa la propria carriera nel basket per concentrarsi su una battaglia civile (per seguire il caso giudiziario di un afroamericano accusato ingiustamente di omicidio: potete leggere la sua storia qui): quanto pensi che conti il coinvolgimento di figure di spicco del mondo dello sport, nella discussione pubblica?

Che lo si voglia o meno ammettere, la voce degli atleti è molto influente. Penso che Maya Moore stia facendo un sacrificio che molte persone non sarebbero disposte a fare, rinunciando alla propria carriera di successo per dedicarsi a qualcosa di più grande di sé stessa. Non è solo una grande giocatrice, ma una grande persona, un grande essere umano. Penso che serva anche a testimoniare che tipo di persone siano gli atleti: ovviamente è una scelta estrema, la sua, ma dimostra che gli atleti non sono ignoranti o distaccati da ciò che gli succede intorno e non hanno voce in capitolo in questo tipo di conversazioni.

 

Con la splendida maglia della Jamaica hai partecipato all’ultimo Mondiale, quale è stata l’attaccante più difficile da marcare?

Be’, al Mondiale è stato molto difficile giocare contro l’Italia… Cristiana Girelli (attaccante della Juventus) ci ha messo molto in difficoltà. Sam Kerr, la capitana dell’Australia, anche, è stata complicata da gestire. Nelle qualificazioni poi abbiamo giocato contro gli Usa e Megan Rapinoe… diciamo che ho già incontrato qualche attaccante che mi ha riportato all’umiltà, per usare un eufemismo.

 

Prima di venire in Italia sei passata per sei mesi in Islanda. Come hai scelto una destinazione del genere?

Mentre stavo ancora studiando al Boston College, era aprile, non ero sicura di voler continuare a giocare. Pensavo piuttosto di laurearmi e cercare un lavoro, ma in quel periodo mi hanno chiamato dalla nazionale giamaicana e mi hanno chiesto, praticamente con due settimane e mezzo di preavviso, di partecipare a un torneo che valeva come prima fase di qualificazione alla Coppa del Mondo. Dovevamo andare ad Haiti, giocare quattro o cinque partite e avanzare alla fase successiva. Mi sono detta: “Ok, non ho niente di meglio da fare, ci vado”. Ma quando sono tornata, dopo che avevamo passato il turno, ho pensato che non potevo far parte della squadra nazionale senza allenarmi in un ambiente competitivo. Mi ero ridotta all’ultimo, però, e ho faticato a cercare una destinazione qualsiasi, così mi sono ritrovata in Islanda. Fondamentalmente è quello che ho trovato in poco tempo.

 

È interessante perché quando si parla di calcio femminile non si considera quanto sia difficile anche solo iniziare una carriera. Dopo poco, però, nel novembre 2018, a quasi un anno dal Mondiale quindi, hai ricevuto l’offerta della Roma.

Subito dopo che la Jamaica si è qualificata, ci sono arrivata tramite un amico agente che in Svezia gestisce per lo più calciatori uomini: mi ha mandato un messaggio e mi ha chiesto se ero interessata a venire in Italia. Io in quel momento non avevo più una squadra e mi serviva anche in vista della Coppa del Mondo. Quindi, un po’ come per l’Islanda, anche questa opportunità mi è piovuta dal cielo. Penso che nel giro di una settimana sono tornata a Boston e poi subito ripartita per Roma.

 

Come sei cambiata in questo anno e mezzo in Italia?

Lo stile di gioco è molto più tattico e tecnico, credo che questo valga anche per il calcio maschile. Per quella che è stata la mia esperienza, negli Usa e con la Jamaica l’approccio è più fisico, le calciatrici dovevano essere in forma per poter giocare per novanta minuti senza pause, quello era lo scopo. Dovevamo durare di più ed essere più forti delle nostre avversarie, e magari non era necessario sapere come disorganizzarle dal punto di vista tattico. Da quando sto in Italia devo pensare molto di più, anche perché in realtà qui le giocatrici sono talentuose e intelligenti, non importa se magari sono dieci centimetri più basse di me. Sono diventata una calciatrice migliore dal punto di vista tattico e tecnico e ho dovuto abbandonare la mia comfort zone, che era appoggiarmi sulle mie capacità atletiche. Quando parlo di una calciatrice che non importa se è più bassa di dieci centimetri di me penso a Manuela Giugliano (sua compagna di squadra nella Roma): è incredibile, non importa quello che provi a fare, non la fermi.

 

Lo scorso novembre Eni Aluko, ex giocatrice della Juventus (adesso Direttore Sportivo dell’Aston Villa), ha scritto sul Guardian del razzismo quotidiano che ha dovuto sopportare in Italia, a Torino. A te come è andata a Roma in questi mesi?

Personalmente non ho vissuto esperienze che definirei esplicitamente razziste, ma non sono nuova al tipo di sguardi che riceve una ragazza nera quando entra in una stanza, ad esempio. Per me è stato un bel periodo, ma non significa che non esista un profondo razzismo nel campionato maschile o che le esperienze di Aluko non siano esistite. Solo perché io non ho vissuto direttamente quel livello di razzismo non mi porta a pensare che non ci sia o che io sia immune. Mano a mano che cresco sapermi confrontare su questo genere di argomenti con le persone, non tollerando questo genere di cose, è sempre più importante. Ovviamente è una sfida, ma è qualcosa su cui lavoro molto per migliorarmi.

 

Rispetto agli Stati Uniti hai notato qualche differenza in questo tipo di conflitti, diciamo, “soft”?

È la stessa cosa, certo gli Usa sono una nazione molto più eterogenea dell’Italia, ad esempio, ma il razzismo esiste esattamente con le stesse modalità e magari viene da persone che se glielo chiedi direttamente: “Sei razzista?”, direbbero di no. Però il loro linguaggio corporeo e la loro faccia dicono il contrario. È qualcosa di sepolto molto a fondo nelle persone e che per essere estirpato richiede grande lavoro, perché è altrettanto potente e durevole del razzismo più esplicito.

 

In Italia qualcuno ha sminuito il tipo di esempi fatti da Aluko, che raccontava di come in un negozio le venisse chiesto di lasciare la borsa e fosse stata seguita perché considerata potenzialmente come una “ladra”, sostenendo che non fossero cose poi così gravi. Che il “vero” razzismo è un altro. Ma per chi subisce un attacco così profondo e ripetuto alla propria identità c’è davvero differenza tra episodi di questo tipo e altre offese più chiaramente razziste?

Magari lo sguardo di una singola persona non ti rovina la giornata, ma è la somma di tutti gli sguardi che a un certo punto diventa troppo. Io credo che il razzismo più “soft” sia altrettanto pericoloso di quello più aperto.

 

E invece con qualcuno che sminuisse il calcio femminile ti è capitato di parlare qui in Italia?

Spessissimo i giudizi negativi arrivano da persone che non si sono neanche prese il tempo di guardare le nostre partite. Ed è comico perché non capisco come puoi pensare di esprimere opinioni su qualcosa che non hai mai guardato con attenzione. Ma è solo una delle difficoltà che le atlete devono affrontare da sempre, anche questa non è una cosa nuova. Però c’è stato il grande successo del Mondiale e le squadre hanno ricevuto grande rispetto dappertutto, a livello internazionale il calcio femminile è in ascesa e in fin dei conti è una scelta dell’Italia, come di qualsiasi altro posto, se prendere questo treno o restare indietro. E se scegli di restare indietro secondo me ti perdi qualcosa che diventerà fantastico.

 

Gli italiani che hai conosciuto, a cui hai detto che sei una calciatrice, come hanno accolto la notizia?

Ho notato un po’ di confusione a volte, come se non capissero che giocare a calcio è la sola cosa che faccio, che sono qui per questo. È difficile per me da dire, perché ogni tanto non capisco proprio benissimo, ma mi sembra che ci sia qualcosa di scioccante, come se alcune persone non riescano ad afferrarlo.

 

Come hai vissuto il periodo di lockdown, sei riuscita ad allenarti?

Ero in Connecticut, ero partita poco prima. Adesso siamo nella “fase 2” ma qui non siamo mai stati confinati in casa. Ho potuto allenarmi all’aperto e andare in un centro sportivo. Le uniche difficoltà le ho avuto nell’allenamento ai pesi.

 

 

Che ne pensi della decisione della Serie A di interrompere il campionato femminile?

Ovviamente è stata una delusione. Le mie compagne si stavano preparando a finire la stagione e subito prima dell’interruzione stavamo vivendo un bel momento, io personalmente e noi come squadra. Il punto è che ci hanno messo troppo a prendere una decisione e alla fine non avrebbe avuto senso decidere di ricominciare, per il tempo che ci sarebbe voluto a fare una nuova preparazione e poi finire il campionato. A questo punto pensiamo solo ad essere pronte per la nuova stagione, sperando di ricominciare da dove avevamo lasciato.

 

Con la Jamaica com’è la situazione, fino a qualche tempo fa se non sbaglio avevate problemi a farvi pagare.

In realtà era alla fine del Mondiale che non avevamo ricevuto alcuni stipendi, così abbiamo detto chiaramente che non avremmo giocato le qualificazioni olimpiche se la situazione non fosse cambiata. In quel caso, poi, abbiamo ricevuto qualche pagamento. Ed è stata una piccola vittoria. Ora come ora il problema  è il covid-19 e la mancanza di tornei internazionali a cui potremmo partecipare. Penso che avremo molta difficoltà a rimettere insieme la squadra, da un punto di vista puramente finanziario. È dura, perché avevamo l’impressione di aver fatto progressi con la Coppa del Mondo ma poi sono successe molte cose che ci hanno fatto tornare indietro. Spero che riusciremo a ricreare quello che avevamo creato prima.

 

A molte persone sfugge che quando si parla di “equal pay”, in realtà, si sta parlando anche di realtà molto diverse da quella americana. Come questa.

Sì, la nostra è una situazione limite, la nostra battaglia è a un livello diverso. Ma quando si alza l’asticella è utile anche per chi non è già in alto. È un segnale anche per federazioni come la nostra, significa che le cose stanno andando in una certa direzione. Per questo penso che la battaglia della nazionale americana sia cruciale anche per noi.

 

Cosa serve al movimento del calcio femminile?

Intanto che sempre più squadre professionistiche abbiano anche la squadra femminile. Quello per me è il minimo, se non hai la squadra femminile sei indietro. Quindi assicurarsi che tutte le squadre che hanno una squadra maschile di alto livello abbiano anche quella femminile, è fondamentale per permettere a molte ragazze di cominciare. Poi c’è la battaglia sui salari o sui diritti basilari. Quanto meno per permettere a una calciatrice di pensare che si tratti di una carriera, che è quello che la maggior parte di noi vuole. Poter giocare a calcio tutto l’anno come i nostri colleghi maschi e non dover pensare a cose tipo: “Dove andrò a vivere nei tre mesi di pausa? Potrò permettermi questo o quest’altro in quel periodo in cui non giochiamo e non siamo pagate?”. Giocare a calcio senza dover fare altri sacrifici, insomma, oltre a quelli già necessari per essere un’atleta di alto livello.

 

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).