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Marco D'Ottavi

Sudare la maglia

Alcuni atleti sudano tantissimo, altri per nulla.

Il 3 aprile 2005 deve fare molto caldo sul centrale del Crandon Park di Miami, almeno a vedere gli spettatori sbracciati sugli spalti, arrossati dal sole del tennis. In campo Roger Federer e Rafael Nadal si affrontano nella prima finale di una delle più grandi rivalità della storia dello sport. Finisce in cinque set tirati che premiano Federer, in grado di recuperare da due set di svantaggio in una partita ancora al meglio dei cinque durata tre ore e quarantatré minuti. Al momento dei saluti lo svizzero si avvicina alla rete elegante e fresco come un fiore di campo, la maglietta bordeaux e nera griffata Nike ancora immacolata. Capello lungo e bandana, viso leggermente paffuto da adolescente che terrà ancora per qualche anno, Federer non ha versato una goccia di sudore nel suo sforzo verso la rimonta, anzi sembra pronto a iniziare la finale in quel momento. Dall’altra parte, invece, Nadal è trasfigurato, il corpo scolpito grondante di sudore, l’iconica canotta arancio fluo praticamente da buttare, i lunghi capelli zuppi.

 

 

Fra tutte le piccole e grandi differenze tra i due, quella di sudorazione è la più irrilevante ma al tempo stesso rivelatoria. Sudare non dipende necessariamente dallo stile di gioco, eppure è quasi scontato, per le persone che sono e il modo in cui giocano, che Nadal dovesse essere quello a sudare e Federer no. Mi sembra non sia neanche una questione di sforzo, di scatti fatti, di comandare lo scambio o fare il tergicristallo: Federer non suderebbe dopo una maratona, dentro una sauna; Nadal invece potrebbe sudare durante l’aperitivo, in un fresco pomeriggio maiorchino, solo per aver gesticolato un po’ troppo.  

 

Ci sono dei processi biologici dietro la sudorazione certo, questioni di genetica, struttura fisica, carattere, stati d’animo – chiamiamoli così – tuttavia come società a un certo punto abbiamo deciso di trattare il sudore come uno strumento della retorica. Si suda per il pane, si sudano sette camicie, soldi uguale sudore, un’equazione che è tanto più vera per gli atleti, persone che per mestiere devono sudare. Se infatti per noi il sudore è un mezzo più metaforico che pratico (anzi, quello vero facciamo di tutto per nasconderlo), nello sport assume prestigio quando è reale, che lo possiamo vedere. I tifosi chiedono di sudare la maglia (il Corinthians fece una maglia dove lo sponsor si vedeva solo a contatto con il sudore), gli sportivi dicono che si sono sudati la vittoria, se perdi ma hai sudato ogni goccia di sudore del tuo corpo la sconfitta diventa onorevole. 

 

Nadal, con merito, sul sudore ci ha costruito un’epica, fa parte della sua immagine, motore dei suoi tic: si toglie le mutande sudate dalle natiche prima di servire, si sposta dietro ai capelli la ciocca fradicia, quando lo inquadrano vediamo la sua fatica nelle gocce di sudore che gli scivolano lungo la punta del naso. L’assenza di sudore di Federer, invece, proprio per la sua assenza, ci fa dubitare: se avesse sudato di più avrebbe vinto più partite contro Nadal? 

 

JOHANNES EISELE/AFP via Getty Images

 

Questa però non vuole essere una disamina sulla dicotomia tra i due tennisti e le diverse chiazzature delle loro magliette, vuole essere più che altro un’indagine sul sudore, un’analisi sulle sue differenze. Perché alcuni sportivi sudano tanto e altri no (o almeno molto meno)? E perché ci sono diversi modi di sudare? La risposta risiede nel corpo, nella sua necessità di rilasciare liquidi e regolare la sua temperatura interna, ma limitarsi alle nettezze della scienza sarebbe uno schema rigido, elimina le sfumature: non è divertente. Ovviamente si suda di più d’estate che d’inverno, suda più un maratoneta di uno sciatore, più una mezzala di un portiere, ma – ripeto – non è una questione di risposte, piuttosto di percezione, il sudore come un quadro, come una storia. 

 

Prendete Zinedine Zidane. Il francese è stato l’eleganza, la perfezione, in campo e fuori ha rappresentato un’idea di sportivo eterea, quasi ectoplasmica, non-materica, eppure sudava – e come sudava – più dei compagni, più del possibile. E più passavano gli anni, più sudava: con la maglia della Juventus, i capelli sempre più radi nella chierica appiccicati al cranio dal sudore; con quella del Real Madrid, con la testa ormai intonsa e il fisico che si asciugava per reggere il peso dell’età (cercatevi il documentario Zidane, A 21st Century Portrait dove 17 telecamere lo seguono dettagliatamente durante una partita contro il Villarreal e vedrete quanto il sudore è al centro della scena). Soprattutto però Zidane sudava con la maglia della Francia, nelle calde estati dei grandi tornei che lo vedevano protagonista. Contro il Brasile nel 2006, una partita leggendaria, Zidane suda più di tutti. Quando va a contrasto con Kakà o Ronaldinho sembra appena uscito da una piscina, mentre chi sta intorno a lui al massimo ha fatto una corsetta. Se fate attenzione si vedono goccioline di sudore volare tutto intorno anche mentre colpisce nel petto Materazzi qualche giorno dopo.

 

OLIVIER MORIN/AFP via Getty Images

 

Sembra quasi che tramite la sudorazione il corpo di Zidane volesse ricordarci che quello che vedevamo aveva un prezzo. Ernest Hemingway (o Thomas Edison, con le citazioni va così) diceva che il genio è “1% ispirazione e 99% traspirazione”. Con la sua scrittura dovevamo accontentarci di vedere quell’1%, una prosa asciutta e precisa che sembrava sgorgare come uno zampillo d’acqua tra due rocce, senza poter risalire a quello che c’era dietro. Il sudore del francese invece ci dimostra che l’arte non è solo grazia, ma contiene un processo creativo che è faticoso, che spesso fa schifo, che non vorremmo guardare, ma che è tanto importante quando il gesto finale. 

 

È un giochino che si può fare con tutti i più grandi, quello di mettere la lente d’ingrandimento sul sudore. Usain Bolt ha costruito una leggenda intorno ad apparizioni della durata di pochi secondi, e meno erano meglio era: 9’58’’, 19’19’’ tempi così, brevi, verrebbe da dire neanche sufficienti al pensiero del sudore. E invece il sudore era più veloce di Bolt: alla fine delle sue gare era sempre sudato, più sudato che stanco, visto che non appariva mai stanco. Leggero anche se grosso, volava sulla pista come se la corsa non fosse sforzo. Su di lui il sudore appariva più come un compagno che non come il segno tangibile della fatica. Bolt se lo teneva su nelle interviste, nelle foto di rito con i cronometri di tutto il mondo. Ho vinto, ho sudato. 

 

Ian Walton/Getty Images

 

Al contrario Michael Phelps è diventato uno dei più grandi atleti di sempre senza mai sudare, o almeno senza dare l’impressione di sudare, visto che nel nuoto tutto si mischia con l’acqua figurati il sudore che è acqua già di suo. Under Armor ne ha fatto anche una forma di marketing, in una delle pubblicità più riuscite sulla retorica del rapporto tra impegno e grandezza. C’è Phelps che gronda di sudore in palestra, che entra in una vasca di ghiaccio, che suda ancora, che dorme, suda di nuovo come un pazzo mentre alza dei pesi, fa milioni di vasche, suda davvero tanto in un montaggio sempre più frenetico, trema dal sudore. Poi la musica – The Last Goodbye dei The Kills – sfuma verso una folla che celebra Phelps che esce dall’acqua. “È quello che fai nell’oscurità che ti porta alla luce” è il messaggio in chiusura, ovvero: per stare lì in cima, suda anche chi non sembra sudare.   

 

 

Insomma sudare tanto o non sudare come due diversi modi di comunicare la propria grandezza, non per forza uno giusto e uno sbagliato, perché l’impegno è implicito: non esiste ricompensa senza impegno nello sport. C’è qualcosa nel sudore che rimane appiccicato non solo sulle maglie degli atleti, ma anche nel ricordo di chi guarda. Avrei voluto lanciarmi in un racconto di Serena e Venus Williams come di perfetta divisione familiare tra una che suda e una che non suda, stesso sangue diverso sudore. Nella mia mente c’erano immagini di Serena, tennista dal tennis potente e soverchiatore, sempre sudata; mentre Venus, col suo tennis elegante e ricamato, come una tennista mai sudata, sempre composta. Invece ricercando foto e video mi sono accorto che sudano tutte e due in maniera del tutto normale, dopotutto praticano uno sport che insegue in maniera luciferina l’estate. A ingannarmi è stata appunto la percezione delle due, il loro stile di gioco, la rappresentazione ideale del personaggio, che però non è mai il corpo. 

 

Visti da qui – ovvero dalla televisione, dalle foto, dai video – si può avere una visione distorta del corpo degli atleti e quindi anche del loro sudore. «Tutti sono sudati dopo la partita» disse una volta Cristiano Ronaldo «ma David Beckham odorava di profumo quando abbiamo scambiato la maglia». Forse anche lui si era fatto ingannare dalla percezione, dal fatto che Beckham fosse, anche prima che calciatore, un’icona di stile glamour. È difficile pensare, oggettivamente, che la sua maglia potesse profumare dopo una partita, ma la percezione soggettiva è tutta un’altra cosa. Beckham era uno che sudava, ma di un sudore che pareva neutro, scenico, messo lì da qualche esperto di stile per accentuare il lato virile della sua bellezza. 

 

Ira L. Black/Corbis via Getty Images

 

Se Beckham è stato in grado di ribaltare un assunto del sudore, ovvero il suo essere un fastidio, appiccicoso e antiestetico, uno come Virgil van Dijk riesce a mostrare una superiorità tale da non riuscire a sudare. Vederlo giocare fa sembrare il suo compito molto semplice e la semplicità è il contrario del sudore. Van Dijk suda? Magari sì, è difficile controllare da così lontano, certo a Liverpool fa abbastanza freddo abbastanza a lungo da aiutarlo, ma il fatto è che non da assolutamente la sensazione di poter sudare come una persona che si sta impegnando davvero. Lo ha detto anche lui in un’intervista, citando il re dei non sudati: «Quando vedi Roger Federer giocare, pensi che non stia sudando. È mentalmente difficile per il suo avversario. Pensa di essere bravo, ma non ci prova nemmeno. Anche il mio avversario deve pensare che per me è facile, anche se io non la penso mai così».

 

Sembra che solo uno dei due abbia giocato una partita (ANP via Getty Images). 

 

Ma il sudore è anche un segno di benessere collettivo: quanto si sudava nel calcio italiano di fine anni 90’, primi anni del 2000? Quegli anni sono stati il picco estetico del sudore, che impregnava i capelli rigorosamente lunghi dei centravanti, si mischiava ai quintali di gel, chiazzava le prime maglie Kappa attillate al corpo. Sudava Batigol, sudava Pippo Inzaghi, sudava addirittura il primo Buffon, quello del Parma col mullet e gli occhi azzurri. Il sudore come simbolo di edonismo, calciatori che ogni domenica ci restituivano l’amore che provavamo per loro sotto forma di goccioline. Forse però quello che sudava più di tutti era Gattuso. Gattuso sudava come un dannato, in ogni foto sembra stare sotto la pioggia. Chi, se non lui, doveva sudare?

 

Eddy LEMAISTRE/Corbis via Getty Images

 

Un altro che sudava come dio comanda, per non parlare solo di calcio, era Kevin Garnett: testa completamente calva, etica del lavoro protestante, energia di un piccolo reattore nucleare, sarebbe stato impossibile il contrario. In generale nel basket il sudore è una componente ancora più presente – si gioca al chiuso, è un perenne scattare, saltare, ripartire – eppure vi sfido a trovare una foto in cui Kevin Durant appare come molto sudato (l’unica volta che l’ho visto sudare è in questo talk show in cui bisogna mangiare alette di pollo sempre più piccanti). 210 centimetri, la capacità di levitare un paio di centimetri sopra il parquet mentre palleggia, sarebbe anche assurdo pensare che possa sudare mentre distrugge le difese avversarie. 

 

 

Leggendo, qui e lì, si può risalire ad alcune convinzioni, oggi spero sepolte, per cui le persone di colore sudavano più dei bianchi per via della loro maggiore fisicità, affermazioni senza nessun tipo di riscontro scientifico per persone che, rimanendo al mondo NBA, non devono aver mai visto giocare (o vivere) Vlade Divac, uno che respirava e sudava insieme, che aveva quella presenza scenica che fa uscire alcune persone da un romanzo. Sigaretta, barba incolta, fisico importante e sguardo triste, Divac sembra – è – sudato anche nella sua foto su Wikipedia mentre è in giacca e camicia chissà dove.

 

Un altro che sudava parecchio, e sudava perché faceva parte del personaggio, era Antonio Cassano. Anche lui gonfio di talento, il suo sudore non serviva a mostrarci cosa c’era dietro, come per Zidane, ma era più il simbolo della sua sfrontatezza: non mi vergogno di nulla, figurati del mio sudore. Il capello frezzato di biondo, la pelle butterata e olivastra, il corpo tozzo e il petto villoso, la catenina d’oro, Cassano come lo stereotipo del gangster: sgargiante, sudato, eccessivo.

 

 

Sudano i pugili dentro palazzetti umidi, mentre si scambiano pugni che innaffiano di sudore le prime file; sudano i giocatori di squash nei loro cubicoli. Si suda al campetto, in spiaggia coi racchettoni. Sudano uomini e donne, sudano gli atleti di sumo, i golfisti, forse, o forse loro non sudano, ma non è importante davvero. Sudano tantissimo i piloti di Formula 1, fasciati in tute ignifughe, infilati dentro gabbie di carbonio e benzina; sudano meno quelli delle moto, liberi nel vento, ma non per questo faticano meno. Maradona non sudava da giovane, poi ha iniziato a sudare tantissimo, Messi al contrario sudava molto da giovane coi capelli lunghi e il nasone, poi ha smesso coi capelli corti e la barba, chissà perché. Una volta per tergere il sudore andava di moda il polsino, oggi se ne vedono molti meno. I tennisti usano gli asciugamani, che hanno anche il potere mistico di farti guadagnare tempo, nasconderti dalla folla, aiutare la riflessione. Li usano anche i giocatori di basket, con le squadre che hanno proprio delle figure addette agli asciugamani talmente tanti ne servono. I calciatori possono provare a risolvere cambiando maglia all’intervallo, altri atleti – come i maratoneti – sono costretti a conviverci senza speranza di sollievo, usando al massimo le mani per togliere quelle fastidiose gocce che ti scendono negli occhi.  

 

JOSE LUIS ROCA/AFP via Getty Images

 

La più grande sudata di un atleta, tuttavia, è avvenuta davanti a un microfono. A Walter Pandiani bastarono otto minuti di conferenza stampa post partita (e quindi post doccia) per diventare così madido di sudore che la camicia azzurrina con colletto bianco che indossava divenne grigia e sciolta come un giornale immerso nell’acqua. Pandiani, mostrando sangue freddo da centravanti di razza, continuò a parlare come se nulla fosse, come se – appunto – fosse ancora in campo, dove il sudore è motivo di vanto e nessuno ti chiede di nasconderlo. 

 

Burdisso diceva che si gioca come si vive e forse è vero pure per il sudore, o forse no (a volte non è vero nemmeno quando si riferisce solo al gioco). Sudare come forma d’espressione, come rivendicazione del proprio corpo in tutte le sue estensioni, che siano il piede al velcro di Zidane ma anche le gocce che imperlavano la sua fronte. Sudore anche come livellatore: suda Bolt, ma sudo anche io in meno di nove secondi se devo fare uno scatto all’improvviso. Non suda Federer, ma non sudava neanche il mio compagno del liceo Mattia, e chissà come fanno. Ai tempi del liceo, con un’ora di educazione fisica in mezzo alla giornata, invidiavo con livore chi riusciva a non sudare, oggi invece più riesco a farlo mentre faccio sport più sono contento: il sudore mi dimostra che non sto sprecando il mio tempo e di tempo ne ho sempre meno. Il sudore, insomma, come materia non di come sono fatti i sogni, ma di come siamo fatti noi, atleti o meno.

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.