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Steph Curry è entrato nella leggenda
15 dic 2021
15 dic 2021
Contro i Knicks al Madison Square Garden ha superato il record di triple di Ray Allen.
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Doveva succedere ed è successo: Steph Curry ha stabilito il record di triple segnate nella storia della NBA. Il primo errore che si rischia di commettere nel parlare di questo traguardo, e più in generale di Curry, è quello di dare tutto per scontato, catalogando frettolosamente ogni impresa alla voce "Steph che fa cose alla Steph". Perché il canestro arrivato dopo poco più di 4 minuti della gara contro i New York Knicks al Madison Square Garden, come d’abitudine per la guardia degli Warriors, può sembrare un gesto semplice, meccanico, quasi automatico. La palla che circola e viene toccata da ogni compagno in campo, il movimento di Curry per liberarsi, i piedi posizionati dietro la linea dei tre punti, la ricezione del passaggio e il rilascio della palla in un unico movimento, l’intervento dell’avversario che si rivela futile, la parabola del tiro che viaggia soffice verso il canestro: tutto come da copione.

Di certo la predisposizione genetica e un talento lampante contribuiscono ad alimentare questa percezione, ma ciò non toglie che per ogni tiro dei 2977 segnati da dietro la linea dei tre punti – spesso molto dietro la linea dei tre punti – ce ne siano almeno cento, se non molti di più, provati e riprovati in allenamento. Il percorso di Steph Curry è infatti allo stesso tempo quello di un predestinato, figlio di uno dei primi specialisti NBA nel tiro dalla lunga distanza, e di un ragazzo all’apparenza sprovvisto dei requisiti fisici per ambire a diventare una stella di prim’ordine.

La continua ricerca della perfezione nei fondamentali, non solo per quanto riguarda la tecnica di tiro, ha condotto Steph Curry a questo traguardo storico, arrivato a 33 anni e alla 13° stagione tra i professionisti, annata che peraltro l’ha già visto protagonista di partite da 40, 45 e 50 punti (e in cui sta correndo per 4 chilometri di media a partita, più di quanto correva nelle due annate da MVP tra il 2014 e il 2016). Guardando all’anagrafe, insomma, il picco di carriera dovrebbe essere alle spalle, eppure i numeri dicono altro. E proprio i numeri strabilianti di questo primo scampolo di regular season hanno permesso a Steph di mettere la firma al record ogni tempo di triple segnate. Un record che ne contiene molti altri.

La forza dei numeri

Per evidenti motivi, riconducibili tanto al talento per il basket di Steph quanto alle fredde e implacabili leggi della matematica, il sorpasso di Curry ai danni di Ray Allen era ampiamente annunciato. Il fatto che fosse inevitabile, però, nulla toglie all’eccezionalità dell’impresa. E se il fatto che a Curry sia servita poco più della metà delle partite dell’ex-Celtics e Heat (789 contro 1.300) è in buona parte giustificabile con i tentativi di media a partita (5.7 per Allen, 8.7 per Steph), logica conseguenza dell’evoluzione subita dal gioco negli ultimi 15 anni; a delineare la portata storica del record appena maturato sono gli altri che lo accompagnano.

In effetti, quando si tratta di efficacia e continuità nel tiro da tre, sarebbe più semplice riepilogare i primati che non appartengono a Curry, a patto di scovarne qualcuno. Si rende quindi necessaria una cernita significativa: totale triple segnate in una stagione (402 nel 2015-16, ma il passo attuale potrebbe portarlo oltre al termine di quella in corso); triple segnate in un mese di calendario (96 lo scorso aprile); triple segnate in un anno solare (480 in questo 2021 non ancora concluso), triple segnate ai playoff (470, inseguito da LeBron James, che però ha 154 presenze in più, con 432); triple segnate nelle Finals (121 in 28 partite, sempre davanti a James con 101 in 55 partite); triple di media a partita in carriera (3.8). E, infine, ultimo ma non certo per importanza, il record che forse rende meglio l’idea della distanza che intercorre tra Steph e il resto della NBA, quello delle partite con 10 o più triple mandate a segno. Curry è attualmente a quota 22 e a inseguirlo in questa specialità non è James bensì l’altro Splash Brother Klay Thompson, anche lui tiratore eccezionale che però è riuscito solo cinque volte ad andare in doppia cifra per triple segnate in singola gara.

Sono primati che in qualche modo richiamano il motto "strength in numbers", coniato per suggellare l’oggettiva superiorità dei Golden State Warriors tornati in cima alla NBA a metà degli anni ’10, e che confermano una verità ormai acclarata: Curry è il miglior tiratore nella storia del gioco. E lo è soprattutto perché quel gioco Steph l’ha cambiato, forse per sempre.

Mai visto prima

La miglior definizione dell’importanza di Curry per Golden State e del suo impatto sul gioco nel suo complesso è arrivata qualche settimana fa da una fonte diretta e piuttosto autorevole. Dopo la vittoria in trasferta sui Brooklyn Nets, a Steve Kerr è stato chiesto quale fosse il segreto che permette al sistema offensivo degli Warriors di essere ancora così efficace dopo tanti anni, la risposta è arrivata, laconica e sincera: Steph Curry.

Ma Kerr non si è fermato qui e ha argomentato con la consueta incisività quella che poteva sembrare una battuta o una forzatura studiata per elargire ai cronisti presenti un titolo a effetto: «Non sto scherzando, non è mai esistito nessuno come lui. Lui da solo è il nostro attacco perché attira i difensori a 10 metri dal canestro».

Breve esemplificazione della teoria esposta da Kerr circa l’efficacia di Curry con e senza la palla.

Le parole dell’allenatore che l’ha liberato da inutili costrizioni tattiche permettendogli di spiccare il volo riassumono alla perfezione l’importanza di Steph. Un’importanza che va oltre il suo essere il miglior tiratore di sempre, perché l’unicità di Curry sta nell’aver trasformato la straordinaria capacità di colpire dalla lunga distanza nella chiave d’innesco della più micidiale macchina da canestri nella storia contemporanea del gioco. Grazie all’utilizzo non convenzionale del tiro da tre punti, Curry è diventato non solo l’architrave di una delle squadre più vincenti di sempre, ma ancor di più il glitch che ha mandato in tilt un sistema costruito su concezioni e abitudini tattiche consolidate da decenni.

Tutti quanti, dai ragazzini che al campetto ora tirano non appena sorpassata la metà campo ai coaching staff su entrambe le sponde dell’oceano fino ai campioni già affermati, si sono dovuti adeguare. Descrivere la profondità della rivoluzione portata da Curry è una faccenda complicata e che va ben oltre i titoli e i premi vinti, ma anche in questo caso i numeri possono venirci in soccorso. Prendendo LeBron James, per distacco il miglior giocatore degli ultimi vent’anni, come metro di paragone e analizzando la sua selezione di tiro un dato balza all’occhio: nella stagione 2013-14, l’ultima prima dell’esplosione di Curry e degli Warriors del "strength in numbers" pre-Durant, il 14.7% delle conclusioni prese da James arrivavano da oltre 7.5 metri di distanza dal canestro, percentuale quasi raddoppiata (29.4%) durante la scorsa stagione.

Per quanto sia ovvio si tratti di una tendenza influenzata da necessità di carattere fisico – perché l’incedere del tempo non risparmia nemmeno una semi-divinità come James – è anche lo specchio fedele del cambiamento radicale imposto dallo stile di gioco di Curry. Un cambiamento che arriva da molto lontano, un cambiamento destinato a segnare la pallacanestro in maniera inevitabile, ma che Steph ha reso più rapido e più drastico.

Cambio d’epoca

La storia del tiro da tre punti in NBA vanta ormai più di quarant’anni di pratica. Introdotto dalla stagione 1979-80, a tre anni dalla fusione con la ABA (che ne prevedeva l’uso già dal 1967), le origini del tiro dalla lunga distanza sono intrinsecamente legate ai Boston Celtics. È infatti Chris Ford, guardia dal curriculum non proprio eccelso, a mandare a segno la prima tripla nella storia della lega, con 3:48 sul cronometro del primo quarto della gara inaugurale della stagione tra i padroni di casa e gli Houston Rockets. E sempre biancoverde è il protagonista di un altro traguardo storico, quello delle 100 triple segnate in stagione, maturato durante la regular season 1987-88 e firmato Danny Ainge. Giusto per comprendere i passi compiuti dell’evoluzione del gioco: le 148 triple mandate a referto da Ainge in quella stagione, primo in tutta la NBA, nel 2020-21 gli sarebbero valse il 37° posto - al pari con Jae Crowder – mentre a Steph Curry ci sono volute solo 19 gare di questa regular season per sfondare il muro delle 100 triple segnate (record assoluto che prima apparteneva a… Steph Curry con 20 partite nelle stagioni 2015-16 e 2018-19).

Mettetevi comodi e godetevi tutte le triple della stagione che è valsa a Curry il secondo premio di MVP.

La forza dei numeri, anche in questo caso, è eloquente, ma sgomberiamo il campo dagli equivoci: l’evoluzione del gioco era già cominciata e sarebbe proceduta comunque nella stessa direzione, Steph Curry non è certo il primo giocatore a fare del tiro da tre il proprio marchio di fabbrica e non sarà certo l’ultimo. Detto questo, risulta evidente come Curry abbia accelerato un processo in corso portandolo all’estremo, a quello che con ogni probabilità è un punto di non ritorno.

E, ancor di più, è chiaro come Curry abbia fatto per il tiro da tre ciò che Kareem Abdul-Jabbar aveva fatto per il gancio cielo e Michael Jordan per la schiacciata: trasformare un’azione di gioco in un gesto iconico, facendola uscire dal recinto dello sport e trasportandola nella cultura pop. Curry, lanciando le sue triple da dove nessuno aveva osato in precedenza, non ha solamente cambiato il gioco, ne ha modificato anche la percezione e i canoni estetici. E in questo senso non appare azzardato affermare che la storia della pallacanestro sia destinata a dividersi in due epoche: pre-Steph Curry e post-Steph Curry.

La vera grandezza

Ancor più interessante del confronto con il passato e con chi l’ha preceduto, è quello con il futuro, ovvero con ciò che Curry rappresenta e rappresenterà per chi verrà dopo di lui. Perché Steph, nel riscrivere le regole del gioco, ha stabilito standard di eccellenza assoluta con cui i suoi eventuali eredi, da Trae Young in giù, dovranno per forza confrontarsi. E il confronto non verterà necessariamente sui record o sulle statistiche individuali, quanto sull’incidenza che l’abilità nel segnare da distanze impossibili avrà sul gioco nel suo complesso e sui risultati di squadra.

Considerando la sempre crescente frequenza del tiro da tre nelle scelte offensive delle stelle NBA non è escluso che qualcuno, prima o poi, riesca a infrangere il record appena conquistato da Curry. La vera sfida sarà però riuscire a farlo lasciando un segno nei risultati, nell’influenza sull’impostazione tattica e sull’immaginario collettivo. Da questo punto di vista l’asticella è stata spostata parecchio in alto da Curry, che è diventato il più grande tiratore di sempre proprio perché non è solo un tiratore, ma ha utilizzato la minaccia del suo tiro da fuori come grimaldello per scardinare ogni difesa, continuando a muoversi incessantemente in giro per il campo portando blocchi fenomenali e aprendo spazi di cui i suoi compagni nemmeno pensavano che avrebbero mai potuto godere in vita loro. Steph Curry ammalia quando ha il pallone in mano, ma vince le partite e i titoli quando non lo ha.

Infine c’è un ultimo aspetto, non secondario, con cui gli epigoni dovranno confrontarsi. Un aspetto che va oltre il dato tecnico e che ha molto più a che fare con il puro piacere di giocare a pallacanestro. Perché l’elemento che distingue davvero Steph da predecessori e contemporanei sta in come abbia costantemente dato l’impressione di fare ciò che ha fatto, riscrivendo le regole del gioco e vincendo tutto il vincibile, divertendosi e di sicuro divertendoci.

Ancora oggi, a più di 10 anni dal suo esordio, veder giocare Steph Curry rimane un’esperienza elettrizzante. Con il suo modo unico di stare in campo Curry è in grado di ammaliare lo spettatore casuale così come l’appassionato più esigente, facendo saltare sulla sedia – o sul divano – bambini, adulti, tifosi e addetti ai lavori. Ogni tiro lanciato da Steph lascia col fiato sospeso perché, a prescindere dal coefficiente di difficoltà, è possibile, anzi è probabile che vada a bersaglio. Ogni partita dei Golden State Warriors vale la pena di essere vista anche solo per la sua presenza, nella certezza che prima o poi combinerà qualcosa, anche una sola cosa, che ci lascerà a bocca aperta.

Forse, parafrasando la nota poesia di Maya Angelou, un giorno ci dimenticheremo del numero di triple segnate o dei titoli vinti, ma di certo ci ricorderemo sempre come Steph Curry ci ha fatto sentire. E questo, che la palla entri o esca dal canestro, ben più degli anelli vinti e dei premi individuali accumulati, è il marchio della vera grandezza.

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