
LA CITTA'
L’ultima volta era stata Udine: un anonimo giovedì di inizio maggio i tifosi del Napoli si erano riversati lungo due città, a 800 chilometri di distanza l’una dall’altra, per dare sfogo alla gioia. Allo Stadio Friuli, con i calciatori a un palmo della mano, così come al Maradona, con i maxischermi ridotti a scatole invisibili dagli spalti, per un paradosso nessuno sembrava pensare al campo. La liturgia era cominciata ben prima del novantesimo: «Sarò con te / e tu non devi mollare / abbiamo un sogno nel cuore / Napoli torna campione» cantavano alcuni, mentre i più emozionati si abbracciavano, e altri a malapena trattenevano i singhiozzi. Era così bello che non sembrava vero: il Napoli si apprestava a vincere lo Scudetto con cinque giornate d’anticipo, e ai tifosi ormai importava solo stare insieme, perdere la voce ricalcando i cori.
I festeggiamenti erano durati così a lungo da sembrare un’eternità. Da febbraio a giugno, la città era stata tappezzata con i nastri bianchi e azzurri, alla faccia della scaramanzia che dovrebbe contraddistinguerla: sulle facciate sgangherate della provincia si stagliava il numero 3, e nel centro storico si riversavano gli street artist più disparati, pronti a dipingere l’ennesimo murales dedicato a Osimhen e Kvaratskhelia. I napoletani, tifosi o meno, avevano messo in scena un carnevale infinito, e come per contrappasso il pensiero era andato anche a chi non poteva essere testimone di quell’oceano di felicità.
Quello del 2023 è stato lo Scudetto dei 90 punti, della bellezza, e allo stesso tempo lo Scudetto di chi non c’era più, di chi non ha fatto in tempo a essere testimone di una squadra così meravigliosa.
Ieri, invece, è stata Napoli: non si contano le persone ammassate nell’area di Fuorigrotta, tra quei (pochi) fortunati che sono riusciti a trovare un biglietto per Napoli-Cagliari e tutti gli altri che sono rimasti fuori, a smaltire l’angoscia un bicchiere per volta, ad aggiornarsi clandestinamente sul risultato dell’Inter a Como. Friggevano tutti all’idea di essere protagonisti dell’ultimo, soffertissimo, passo che il Napoli avrebbe dovuto compiere. Le donne e gli uomini più disparati si aggiravano nei dintorni del Maradona come per evocare un santo, come se servisse a trasferire la propria energia vitale alla squadra. Mi perdonerete il cliché: Napoli è stata il dodicesimo uomo in campo come non accadeva da anni, come forse non avevamo mai visto.
Antonio Conte aveva chiesto di non festeggiare in partenza, ma anche questa volta non ci si è riusciti del tutto. A Napoli si dice che: essere scaramantici è da ignoranti, ma non esserlo porta male, ma questa volta deve esserci stata qualcosa di diverso nell'aria. Napoli si è stretta intorno alla squadra in un abbraccio a tratti soffocante, ma pieno di energia. Ammassati fuori e dentro lo stadio, i tifosi usavano il canto per scacciare la paura: «Il Maradona vuole vincere».
Ieri, nei primi minuti della partita, gli azzurri hanno aggredito il Cagliari, ma, arrivati alla fine del primo tempo, c'era il brivido che la palla non volesse entrare. Che fosse Gilmour o Spinazzola, Raspadori o Lukaku: non sembrava la volta giusta, e intanto l’Inter aveva già trovato il gol del vantaggio con de Vrij.
C’era anche dell’altro, dietro l’ansia e i moniti di Conte. Da mesi la marcia del Napoli si era fatta instabile: alternava prestazioni brillanti e depresse ad altre semplicemente mediocri. La benzina nel serbatoio non faceva altro che diminuire, i giocatori titolari uno ad uno cadevano sotto la scure degli infortuni muscolari.
A Parma la squadra aveva retto a malapena la battaglia psicologica, facendosi condizionare dall’evoluzione del risultato di Inter-Lazio, nella buona e nella cattiva sorte. Ne era venuto fuori uno 0-0 scialbo e nel post-partita Antonio Conte non aveva perso l’occasione per elencare tutte le asperità della stagione. Poi aveva sbottato: «Cazzo, e non volete manco soffrire? Se non volete neanche soffrire io mi arrendo».
Nonostante sia stato a lungo in vetta, il campionato del Napoli è stato una logorante via Crucis. In estate la rosa è stata completata solamente l’ultimo giorno di mercato, dopo che a Verona, alla prima giornata, era andato in scena un umiliante remake della stagione precedente: il Napoli aveva perso 3-0 e i tifosi si chiedevano quando sarebbero venuti fuori da quel pantano inestricabile. Poi, durante l’onda delle sette vittorie consecutive, è partita l’ecatombe: Alessandro Buongiorno ha chiuso la stagione giocando poco più di metà delle partite, a causa di un problema alla schiena; David Neres è partito titolare solo otto volte nel girone di ritorno; Khvicha Kvaratskhelia, come un fulmine a ciel sereno, ha salutato Napoli a gennaio, nel bel mezzo della stagione e della lotta per il primato. Infine, c’erano le voci velenose sul futuro di Conte, i suoi dissapori con la società: tutto così perennemente incerto, così grigio.
D’un tratto il Napoli aveva cominciato a perdere punti, e ogni giornata che passava metteva sale sulle ferite. Dal gol del pareggio di Angeliño all’Olimpico, a febbraio, il Napoli ha raccolto 5 pareggi nelle successive 7 giornate, trovando il tempo di perdere a Como, con l’aiuto di una prodezza tragicomica di Rrahmani. Come ogni squadra di Conte in un periodo in cui non racimola punti, il Napoli sembrava una squadra eccessivamente meccanica, costruita dal proprio allenatore in un laboratorio. Chiusa la linea di passaggio per Romelu Lukaku, agli azzurri rimanevano troppe poche alternative. Quale calciatore poteva fare la differenza, caricarsi la squadra sulle spalle?
Il Napoli è uscito dalla crisi mettendo una toppa dietro l’altra, arrancando in un campionato in cui tutte le altre big hanno zoppicato in maniera ancora più vistosa. A Lecce, dopo la punizione vincente di Raspadori era seguito un secondo tempo che sembrava non avere mai fine; a Bologna, dopo una prima frazione positiva, i buoni propositi erano rimasti nello spogliatoio. Infine, in casa contro il Genoa, i fantasmi erano apparsi al colpo di testa finale di Johan Vasquez.
Quante speranze potevano esserci, ancora? Quanti punti potevamo sperare che l’Inter perdesse ancora? Quanto avremmo dovuto ancora patire per vincere contro un Cagliari già salvo? A Napoli, certe volte, il calcio sembra una cicuta da ingerire per forza.
Forse ci ha pensato, a tutte queste cose, Scott McTominay. Alle altre sette partite che aveva sbloccato lui, e non un attaccante o un esterno offensivo. Lui che aveva passato a fare da scudiero alle stelle di un Manchester United ormai decadente. Al 42esimo del primo tempo Scott, contro il Cagliari, lo scozzese ha riempito l’area: Zappa lo teneva d’occhio, gli è rimasto fisicamente incollato alla maglietta, l’ha trattenuto. Eppure McTominay non ha fatto una piega: si è liberato in volo con una leggerezza sorprendente per il suo fisico.
È la sforbiciata con il sapore più dolce della storia del Napoli. Il gesto tecnico più bello a essere direttamente collegato a una vittoria dello Scudetto azzurro. A fine partita, le telecamere hanno indugiato su di lui, "Scott McFratm", lo scozzese più napoletano che esista. I tifosi del Napoli lo hanno sentito più vicino che mai: steso a terra, con l’incredulità che si trasformava in un pianto, finalmente liberatorio. Eravamo tutti McTominay, siamo tutti McTominay.
I napoletani lo avevano accolto come non succedeva a nessun calciatore dai tempi di Gonzalo Higuain: invadendo l’aeroporto solo per vederlo, per dargli il benvenuto, stringergli una mano.
Durante la realizzazione del videoclip in cui veniva presentato il suo arrivo sui canali social del club, McTominay indossa la maglietta del Napoli per la prima volta. Ha la felicità stampata in faccia, come un bambino al luna park: «Questa maglia è bellissima, la adoro. Papà, mamma, cosa ne pensate?». È un video breve, che però cattura l’anima di Scott McTominay, la sua mentalità militare per certi aspetti. Quando lo portano a realizzare uno shooting, lo scozzese punge con ironia: «Siamo qui per vincere, non per scattare le foto».
Con le sue corse su e giù, al centro e poi sulla fascia sinistra, McTominay ha riempito di salute una squadra monotona dal punto di vista atletico. I suoi strappi palla al piede erano l’unica fonte di imprevedibilità.
Il campionato del Napoli è stato una lunga fatica di Ercole, un percorso di espiazione verso la felicità. Dal Verona al Cagliari, nessuna partita è stata giocata – né tantomeno vinta – con rilassatezza. Il Napoli ha vinto 13 partite “di misura”, segnando cioè un solo gol in più degli avversari. In 19 occasioni su 38 gli azzurri hanno segnato uno o zero gol. Non sono mai stati una squadra dominante o divertente da guardare. E i tifosi, dal canto loro, hanno talvolta lamentato l’assenza di coraggio della squadra.
Vedevano un Napoli costantemente diviso a metà, Dr. Jekyll e Mr. Hyde: come se non avesse le energie fisiche e mentali per giocare tutti i novanta minuti, ma a un certo punto fosse moralmente doveroso rintanarsi nella propria area. Il Napoli “marziale” di Conte ci è infine riuscito: ha dimostrato come in Italia vinca ancora, soprattutto, puntando su rigore tattico e organizzazione difensiva. Trasformando le partite in un esercizio di allenamento: attacco contro difesa.
Quello del 2025 è stato lo Scudetto di chi c’era, lo Scudetto di chi, malgrado tutto, ha sostenuto questo Napoli prudente fino all’ossessione, che anche nelle giornate migliori basava la propria efficienza sull’annullamento degli eventi della partita. Una squadra così mutilata in fase offensiva che ha dovuto sopperire alla sterilità con gli inserimenti di McTominay e Anguissa – forse i veri MVP della stagione azzurra.
È stato emozionante assistere a una lotta Scudetto così spietata. Il Napoli ha giocato con l’Inter una battaglia di nervi logorante, che ha portato entrambe le squadre a spendere più energie mentali del previsto. Nelle ultime giornate sulle panchine delle due squadre si è scatenato un pandemonio di emozioni: dal panico alla gioia, dalla rabbia alla delusione. È stato come guardare una interminabile seduta psicanalitica: Napoli e Inter davano vita alle loro paure e le affrontavano domenica dopo domenica. Gli azzurri ne sono usciti vincitori perché hanno sfruttato meglio gli errori altrui.
A pensarci bene, quello del 2025 è stato lo Scudetto della sofferenza, della passione. Lo Scudetto di un Napoli solido, forse più povero tecnicamente dell'Inter ma con una forza mentale prodigiosa. Le due vittorie azzurre, anche se concentrate in tre anni, sono agli estremi di uno spettro. Da una parte la gioia che può veicolare un calcio offensivo, pieno di giocatori tecnici e belli, come ha fatto il Napoli di Spalletti; e dall’altra la purificazione spirituale della lotta all’ultimo sangue del Napoli di Conte. Il Napoli ha vinto di estetica, due anni fa, e di pathos, oggi: un cerchio s'è chiuso.
L'ALLENATORE
«C’è un filo di emozione». Antonio Conte ha provato a vestirsi bene, la giacca blu navy e la cravatta a pois lo fanno apparire un uomo che ha cercato con cura il vestito da indossare, e infine ha rispolverato dall’armadio il suo pezzo forte. È una grande occasione: è il 26 giugno 2024, quando Conte si svela ai tifosi del Napoli dopo una trattativa lunga ed estenuante, durata quasi un anno intero.
Conte è innanzitutto l’uomo che Aurelio De Laurentiis ha scelto per scacciare gli incubi della stagione successiva al terzo Scudetto, con il club che si è avvitato in un annus horribilis assumendo tre allenatori: Garcia, Mazzarri, Calzona. L’aura che circonda il tecnico salentino non è nuova: secondo i giornali Conte è l'allenatore della rinascita; Conte il demiurgo a cui è chiesto di plasmare un Napoli vincente; Conte il sergente di ferro che decide chi rimane e chi va via.
A Palazzo Reale il pubblico italiano aveva ritrovato Conte dopo l’esperienza al Tottenham, da cui era uscito malconcio soprattutto dal punto di vista mentale. Sono bastate poche battute, però, per capire che l’esonero non lo aveva minimamente cambiato.
«Di solito prima di ricevere dò qualcosa, qui è successo il contrario», prosegue Conte, con la voce effettivamente scossa, come se l’onda di amore della città lo avesse già travolto. «Ho ricevuto veramente tanto entusiasmo e affetto, adesso non mi resta che dare». Poi, attraverso la sua abituale grammatica del sacrificio, bada al sodo: «Quello che posso promettere è la serietà».
D’altronde, la sua carriera da sportivo di alto livello è stata segnata dall’etica della sofferenza, quella catarsi che si lega in modo indissolubile alla vittoria tortuosa. Per Conte non sembra esserci successo più grande di un successo lottato, guadagnato con i nervi e il sangue. Qualcuno ancora ricorda il discorso di Conte alla squadra, quando nel 2012 caricò i giocatori della Juventus in vista della lotta Scudetto con il Milan. C’è una frase in particolare che può essere presa come compendio della sua visione del calcio, e forse del mondo: «La realtà è il campo, la realtà è il sudore, la realtà è il sacrificio».
Ancora una volta i giocatori accettano la pressione del lavoro quotidiano, forse gli infonde loro anche tranquillità, forse diventa una consapevolezza profonda che gli permette di giustificare 90 minuti in trincea.
Non si può ridurre il lavoro di Conte a una mera presa mentale sui calciatori, però. A Napoli il primo nodo da districare è quello relativo ai leader. Nei giorni in cui viene presentato Conte in città si sentono parlare solo i procuratori sportivi. Sono quelli di Giovanni Di Lorenzo, capitano da due stagioni, e Khvicha Kvaratskhelia, il migliore giocatore della rosa. Entrambi hanno fatto sapere di voler essere ceduti. Alla lista dei partenti si aggiunge anche Piotr Zielinski, che aveva già firmato con l’Inter. E infine c’è il capitolo Victor Osimhen, sul mercato già da tempo per via della clausola rescissoria. Se ci aggiungiamo Elijf Elmas e Kim Min-jae, che si erano già diretti verso altri lidi per tempo, cosa rimane del Napoli dello Scudetto?
Conte però è arrivato a Napoli per risolvere problemi, come Mr. Wolf in Pulp Fiction. È la spietata visione a breve termine la strada che lo ha portato a vincere con la Juventus e con l’Inter, con il Chelsea e con il Napoli. Con la cieca fiducia nei suoi mezzi tattici e gestionali, Conte impiega pochi giorni a rivoltare come un calzino le prospettive della società per cui lavora. La sua manipolazione della realtà è tale da convincere l’ambiente a inseguire un obiettivo, a volte finendo pure per costruire nemici immaginari.
Le sue scelte radicali in sede di costruzione della squadra, e quindi di calciomercato, sono certamente onerose da sostenere. A maggior ragione, lo sono per un club dalla gestione parsimoniosa come è sempre stato il Napoli di De Laurentiis. Sarà pure con ogni probabilità una breve parentesi all’interno di venti anni di presidenza, ma il rischio che De Laurentiis ha corso fidandosi ciecamente di Conte non era scontato.
Conte ha ripetuto spesso che il Napoli 2024/25 dovesse essere il primo prototipo di un nuovo ciclo, ma ben presto è stato chiaro a tutti che si trattasse di un "instant team". Nonostante le difficoltà legate alla cessione di Osimhen, arrivano giocatori di spessore e nel pieno della maturità: Romelu Lukaku (31 anni), Scott McTominay (28), David Neres (27) e Alessandro Buongiorno (25), per un totale di circa 120 milioni di euro. A questi vanno poi aggiunti anche gli investimenti per due "giovani", almeno per gli standard della Serie A, come Billy Gilmour (23) e Rafa Marin (22).
Dopo pochi giorni di allenamento, Conte butta subito nella mischia Lukaku e McTominay, cambiando radicalmente la struttura della squadra pensata durante il ritiro. Dal 3-4-2-1 visto a Verona e nelle prime, incerte, giornate di campionato, il Napoli passa alla difesa a 4 per valorizzare al meglio gli inserimenti di McTominay, e a mano a mano lo scozzese si lascia trascinare da questo nuovo ruolo. Al debutto da titolare, in casa della Juventus, McTominay mette in mostra il suo atletismo fuori scala, portando a spasso il centrocampo bianconero. Sembra un padre che gioca con i figli nel giardinetto sotto casa, McTominay: ha i capelli biondi sempre ordinati, le gote rosse, lo sguardo torvo anche nella felicità. È concentrato ed entusiasta insieme, è di fatto la personificazione del nuovo Napoli di Conte.
Conte intanto inizia il suo viaggio nel cuore della città: colleziona tour di pizzerie e ristoranti, si fa fotografare a Chiaia e a Piazza del Plebiscito. Va a Scampia e alla Reggia di Caserta, indossando sneakers e cappellino per provare a passare inosservato. La sua ambizione è vivere Napoli nascondendosi in piena vista. Qualcuno finisce sempre per riconoscerlo. Di fronte ai tifosi che di volta in volta gli chiedono una foto, Conte abbassa la guardia, ma quelli lo incalzano: «Allora, mister, lo vinciamo?».
«Mentre entravamo allo stadio mi è balenato un pensiero: e se li rimandiamo a casa senza Scudetto?», ha raccontato Conte nel post partita di Napoli-Cagliari. «Mi ci sarebbe voluto tanto tempo per riprendermi». Il clima intorno alla squadra è un misto di gratitudine e pretesa. Il tutto è riassunto da un’altra frase di Conte: «Il tifoso napoletano se non vince sa diventare cattivo». Essere contestati è una parentesi quasi obbligatoria nella carriera di un allenatore del Napoli: la città insorse nei confronti di Spalletti, alla fine della sua prima stagione sotto il Vesuvio. "Spalletti, la panda te la ridiamo, bast’ che te ne vaje" recitava il celebre striscione che ha fatto da incipit al terzo Scudetto.
Antonio Conte sembra nato per affrontare e gestire situazioni così delicate. Ha vinto con il Chelsea dopo un decimo posto e alla Juventus dopo un settimo. Nessuno meglio di lui sa portare la nave in porto nella burrasca. Calarsi nel contesto e modificarlo profondamente. A Napoli ha alternato diversi sistemi di gioco senza rinunciare alla militaresca organizzazione in fase difensiva – e infatti è la migliore difesa della Serie A, con 27 gol subiti. Conte ha puntato, ancora una volta, su una visione cinica del calcio: il Napoli non ha mai incantato i suoi tifosi, ma li ha fatti sentire vivi nella sofferenza comune, nel bisogno di esserci.
Forse ha contato anche l'ambizione, da allenatore del Sud, di vincere con una squadra del Sud – cosa mai successa, fino a quest’anno. Conte voleva immergersi in una realtà che lo facesse sentire ancora desiderato, dopo anni difficili e magri: «È un’esperienza di cui avevo bisogno».
Per uno scherzo del destino, è diventato lui, simbolo della Juventus, l’anima e la voce del popolo napoletano. I tifosi lo hanno temuto e odiato come avversario negli scorsi anni, ma oggi hanno imparato a volergli bene. In Italia un allenatore come Conte serve come termometro per misurare le ambizioni di un club. E una squadra che punta su di lui dichiara inequivocabilmente qual è il prossimo passo da fare. È un amore adulto: Napoli e Conte conoscono i pregi e soprattutto i difetti dell’altro, ma si sono comunque scelti per il bene di entrambi.
LA SOCIETA'
Romelu Lukaku non ha avuto una stagione brillante nelle prestazioni: il suo passo ormai elefantiaco e le sue imprecisioni tecniche spesso hanno svuotato l’attacco del Napoli più che riempirlo. Eppure, ad esclusione di McTominay, sarebbe complicato trovare un giocatore con il suo contributo in termini di gol e assist: rispettivamente 14 e 10 in campionato.
Il suo fisico ormai logoro ci ha fatto apparire come ancora più eccezionali quei rari “momenti Lukaku”. Uno di questi è, ovviamente, il gol che ha chiuso la partita contro il Cagliari. Lukaku riceve un lancio lungo che Rrahmani ha fatto partire direttamente dalla linea di fondo. Il belga è isolato, come sempre, nell’uno contro uno con il centrale che lo marca a uomo – questa volta è Yerry Mina – e con la pura forza di volontà resiste alle strattonate. Mette giù il pallone, ma senza alcuna grazia nel controllo, come se i suoi piedi non rispondessero.
Poi parte in progressione ed è inevitabile rivedere in quel dribbling effettuato solo con la potenza il Lukaku dell’Inter, il Lukaku giovane e tonico che spostava le montagne. Al belga basta spostare la palla di mezzo metro: Mina buca l’intervento. Poi, proteggendosi dal ritorno di Adopo, Lukaku rallenta e prende la mira. Lo aveva già fatto altre volte durante la partita, sparando però addosso a Sherri.
Eppure stavolta Lukaku ha la lucidità per non perdersi. Tira rasoterra sul palo destro della porta, poi si toglie la maglietta e con la faccia provocatoria cerca la telecamera. Il Maradona è in visibilio: nessuno può crederci: abbiamo visto Lukaku «dei tempi d’oro», per la prima volta in stagione, nel momento più importante?
A fine partita Lukaku tiene ancora il premio di MVP in mano quando cerca Conte per abbracciarlo, stringerlo a sé con violenza. Si sono riuniti dopo 3 anni, ed è stato un viaggio incredibile. «Io e Conte siamo i Phil Jackson e Shaquille O’Neal del calcio», aveva detto il belga qualche settimana fa. «Credo che ci rendiamo migliori a vicenda».
Lukaku è arrivato a Napoli per oltre 30 milioni di euro, un affare semplicemente folle per i parametri storici del club, da sempre avvezzo a puntare su giocatori in rampa di calcio o dal potenziale non del tutto espresso.
Il suo acquisto funziona se lo pensiamo come un vero e proprio cambio di paradigma. Non a caso, nelle ultime ore si parla intensamente del possibile arrivo a parametro zero di Kevin De Bruyne (34 anni). Il Napoli ha vinto lo Scudetto unendo giocatori più futuribili – come Gilmour e Buongiorno – ad altri con grande esperienza. È stato lo Scudetto del sacrificio, come dicevamo, ma anche di alcuni giocatori dall’usato sicuro.
Giovanni Di Lorenzo, Amir Rrahmani e Mathias Olivera facevano parte del quartetto difensivo titolare anche due anni fa, e dietro di loro Alex Meret. Zambo Anguissa e Stanislav Lobotka sono stati gli architetti del centrocampo, il vero segreto del Napoli di Conte. Con il loro rendimento concreto, anche se poco appariscente, hanno collezionato il secondo Scudetto in tre anni. Per non parlare del sacrificio difensivo di Matteo Politano, dei gol decisivi di Giacomo Raspadori.
Napoli si è affezionata a questo gruppo di calciatori più di quanto non pensasse. La città riconosce la serietà e l’attaccamento più di ogni altra cosa, e perciò va ancora più fiera di questo Scudetto. «Un capitano / c’è solo un capitano» cantavano senza sosta all’esterno, mentre in campo Di Lorenzo veniva chiamato sul palco per alzare la coppa. Il Napoli è andato oltre i propri limiti tecnici, e ha insegnato a farlo anche ai suoi tifosi.
È stato un Napoli, come si dice in questi casi, operaio. La Gazzetta dello Sport ha definito gli azzurri di quest’anno una squadra che ha avuto «l’umiltà e la laboriosità delle formiche». La retorica del duro lavoro, della maniacalità tattica e della durezza mentale ha sicuramente effetto, e in parte rispecchia la realtà.
Il Napoli è rimasto attaccato al campionato grazie al gol di Philip Billing contro l’Inter, il primo marzo. Fino al goffo tap in del danese i nerazzurri avevano quattro punti di vantaggio e vederli allungare sarebbe stato troppo per una squadra rimasta precariamente sul pezzo dopo il mercato di gennaio. Eppure è stato anche un Napoli brillante dal punto di vista tattico e atletico: basti pensare alle vittorie con Juventus e Atalanta in pieno inverno, con la squadra che nel secondo tempo tira fuori tutto ciò che ha per portare a casa il risultato.
Nei mesi anche l’atteggiamento di Conte nei confronti dei senatori del Napoli è cambiato radicalmente. Se a inizio anno diceva di aspettarsi «una situazione migliore, invece siamo molto vicini all’anno zero» è arrivato lentamente a spendere parole al miele per i calciatori: «Io questi ragazzi me li bacio a uno a uno».
Dove non è riuscito ad arrivare con le conoscenze calcistiche, il Napoli ha vinto con i nervi. A Parma, mentre Conte perdeva la testa e veniva espulso, i giocatori chiedevano calma. Non sono stati dominanti, ma hanno gestito bene lo stress. È stato impressionante guardare la sicurezza di alcuni comprimari fino a qualche anno fa come Politano e Rrahmani: attraverso la solidità delle loro prestazioni, il Napoli è rimasto al primo posto per 20 giornate di campionato.
Deve esserci dell’altro, dietro la narrazione della vittoria da underdog che accompagna il Napoli da sempre. Il Napoli ha vinto due degli ultimi tre Scudetti, ma negli ultimi dieci anni è arrivato anche due volte secondo e tre volte terzo.
L’apparente miracolo è anche il coronamento di un progetto ventennale. Ormai anche i critici più livorosi hanno cambiato idea, o la stanno cambiando in questi giorni, sulla portata di Aurelio De Laurentiis: il presidente del Napoli ha raggiunto ieri gli Scudetti vinti dal suo “rivale” Corrado Ferlaino. E lo ha fatto senza poter permettersi il più forte giocatore del mondo, puntando sulla gestione oculata del patrimonio finanziario. Ha investito in una squadra che ha retto a urti flagranti, capace di vincere senza Kvaratskhelia e Osimhen.
I piazzamenti e il posto Champions, tanto vituperato dalla piazza, hanno garantito negli anni un indotto economico che il Napoli sta utilizzando per elevare il proprio status. La festa è sfociata in città diverse in tutto il mondo: a Napoli e a Milano, a New York e a Istanbul. I festeggiamenti energici ed esistenziali di due anni fa hanno lasciato il posto alla felicità pura.
Per dirla con le parole di Paolo Sorretino, il quarto Scudetto del Napoli è servito, esattamente come un amore giovanile, a regalarci «l’illusione della spensieratezza».