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Le migliori dichiarazioni dell'Antonio Conte 2024/25
24 mag 2025
La stagione dell'allenatore del Napoli attraverso le sue dichiarazioni.
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15 min
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IMAGO / Fotoagenzia
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Quando Antonio Conte prende la parola nel Palazzo Reale di Napoli il clima rasenta il sacro. È una tensione che dura poco, soltanto fino all’accensione del backdrop pubblicitario, ma è sufficiente per far montare un’attesa insostenibile.

Il Napoli si era concesso un anno sabbatico, come quegli studenti che escono dall’esame di maturità e chiedono ai genitori di prendersi una pausa prima di iscriversi all’università. Fin dalle prime voci che accostavano Conte agli azzurri, però, tutti hanno capito che la ricreazione era finita. Che Aurelio De Laurentiis avrebbe accettato di fare un passo indietro, lasciando spazio all’allenatore italiano che meglio degli altri riesce a farsi uomo ovunque, parafulmine, condottiero.

Le prime domande sono concesse alla stampa straniera, quando arriva il turno di ESPN Brazil il giornalista chiede a Conte che faccia avrà il suo Napoli. Pochi tecnici riescono a tenere il controllo delle conferenze come fa l’allenatore leccese, eppure tutti, in quel momento, immaginano già la risposta. Il Napoli campione d’Italia nasce lì, immaginando quello che sarebbe successo da quel 26 giugno in avanti. Come quando entrava in area di rigore spuntando vincitore con i suoi colpi di testa in mezzo a difensori alti il doppio di lui, Conte si lascia subito sfuggire un sorriso, perché il giornalista sta piazzando una seconda domanda della quale non frega nulla a nessuno (gli chiede se il Napoli farà acquisti in Sudamerica). Sono tutti lì per sentire la battuta e Conte non si esime, avvicina il microfono alla bocca e lancia l’ordine alle truppe. «Avremo una faccia incazzata».

La conferenza fiume con cui Antonio Conte si è presentato al Napoli.

Nel corso di questi undici mesi, Conte si è eretto ad arci-italiano, cavalcando ogni singola polemica possibile e immaginabile con una maestria che appartiene a pochi. Recuperando l’atlante delle lamentele degli allenatori scritto un paio di anni fa da Emanuele Atturo, è impressionante vedere come Conte sia stato capace di coprire tutte le categorie. Si è lamentato degli arbitri, del VAR, del campo, della rosa corta, dei regolamenti, delle critiche, persino dell’ostruzionismo del Parma che, poco meno di una settimana fa, ha osato perdere tempo per portare a casa un punto fondamentale per la salvezza. Ma lo ha sempre fatto per spostare l’attenzione, per ottenere qualcosa, per proteggere una squadra che settimana dopo settimana pareva sempre meno adeguata al traguardo che, in barba alle dichiarazioni pubbliche, Conte aveva messo nel mirino fin dal momento del suo arrivo in azzurro.

Napoli come trampolino di rilancio, per rimettersi sulla cartina geografica dei vincenti dopo aver sbattuto la porta del Tottenham con una profezia invecchiata malissimo sull’ambiente degli Spurs («Qui non si vince mai: colpa sempre degli allenatori?»). Ma Conte ha anche saputo diventare un arci-napoletano, ammiccando alla piazza più (e meglio) di quanto avesse fatto Spalletti, l’uomo dello scudetto «vinto in carrozza», come da definizione contiana. Sapeva che avrebbe avuto bisogno del pubblico per superare momenti complicati e ha cercato di prendere tutti per mano, tifosi compresi, tra dichiarazioni improntate sulla mentalità vincente e una capacità sorprendente di battezzare praticamente tutte le pizzerie cittadine, creando una connessione concreta col tessuto cittadino. Un’evoluzione che sa di Mourinho e ha reso Conte perfettamente e pienamente credibile anche da vero napoletano.

«Sono un manager e voglio avere voce in capitolo, non sono venuto a Napoli per fare la statuina sul presepe, il presidente questo lo sa», è uno dei primi paletti posti da Conte già durante la conferenza stampa di presentazione.

Il Napoli sembra prossimo a una rivoluzione: Osimhen separato in casa, Kvaratskhelia cercato da mezza Europa, Di Lorenzo che ha dato l’annuncio di voler lasciare. «L’ho scelto per questo, Antonio fa impresa», è il modo in cui De Laurentiis dichiara di essere allineato con il suo allenatore, che inizia immediatamente a lanciare messaggi sul possibile arrivo di Lukaku e sulla volontà di tenere a Napoli Di Lorenzo e Kvara. E poi si entra nella chiave di lettura più cara a Conte, sminuire il passato per amplificare i risultati destinati ad arrivare: ama ripartire dalle macerie, dalla polvere, dal caos.

Nelle parole del tecnico leccese, il Napoli non è mai la squadra che ha vinto lo scudetto due anni prima, ma sempre quella giunta decima al termine dell’ultima stagione. Reagisce male alle griglie che vorrebbero i suoi in lotta per lo scudetto: «Il Napoli non è l’anti-Inter, lo scorso anno è arrivato 41 punti dietro». Il mercato consegna subito Buongiorno, il sostituto di Kim arrivato con dodici mesi di ritardo rispetto alla tabella di marcia, andando così a tappare una falla che Natan non solo non aveva colmato ma, se possibile, addirittura ampliato. E fin da subito Conte spinge, punta sulla voglia di riscatto, gioca con le ferite ancora esposte del suo gruppo per motivarlo a una reazione che tutti sono convinti si manifesterà. Perché? Perché c’è Conte, e Conte vuol dire vittoria. «Il dolore dell’ultima stagione dobbiamo portarcelo dentro perché ci aiuterà a fare quel qualcosa in più».

CONVINCERE DE LAURENTIIS, EDUCARE LA PIAZZA
La prima operazione ai fianchi di Conte è prettamente interna. Deve convincere De Laurentiis a spendere, anche perché le settimane passano e i soldi di Osimhen non arrivano. Il Napoli sfiora la clamorosa eliminazione in Coppa Italia, passando soltanto ai calci di rigore contro il Modena. In sala stampa avverte: «Questa squadra ha bisogno di rinforzi». Si arriva così al debutto in campionato, in casa di un Verona che per l’ennesima volta ha smontato la squadra facendo arrivare un mucchio di carneadi prelevati con sagacia da Sean Sogliano in giro per il mondo. «Parlare di due anni fa è un tranello per buttare fumo negli occhi. Pensavo a una situazione migliore, con qualche sorpresa positiva che non c’è stata. Sono a disposizione, se la società implementa la rosa va bene, altrimenti abbiamo giocatori giovani come Iaccarino e Saco, valorizzeremo loro».

Iaccarino è un 2003 reduce da un anno in prestito al Monopoli, Saco addirittura un 2002 che arriva da una buona stagione con l’Ancona. Soltanto in Italia si riesce a parlare di giocatori di quest’età come giovani da gettare in pasto ai lupi, ma questo è un tema che non riguarda Conte, che li usa invece come una bandiera da sventolare, un segnale di allarme: se non arriva chi dico io, devo far giocare Iaccarino e Saco.

Il Napoli a Verona gioca un secondo tempo sconfortante, crolla, prende tre gol da Livramento e Mosquera. Conte si batte il petto per il mea culpa a fine gara: «Ci siamo sciolti come neve al sole, chiediamo umilmente scusa al popolo napoletano che ci segue con passione: è giusto che io mi assuma le responsabilità. Quella del secondo tempo è stata una prestazione inaccettabile, figlia di qualcosa. Ora c’è da lavorare. Il problema va risolto a monte e non è di facile risoluzione. Penso di avere l'esperienza giusta per dire alcune cose e, quando parlo, me ne assumo sempre la responsabilità. Non parlo mai tanto per parlare. Osimhen? È una domanda da fare al club».

Verona-Napoli è la scossa che serviva. Anche senza l’addio di Osimhen, infatti, De Laurentiis consegna al tecnico David Neres, Billy Gilmour, l’agognato Romelu Lukaku e soprattutto Scott McTominay, l’MVP del campionato, arrivato in azzurro anche grazie all’affare saltato per Brescianini, che l’Atalanta ha sottratto al Napoli sfruttandone l’indecisione quando la trattativa pareva già chiusa.

Dimenticata Verona, dopo un avvio di stagione sostanzialmente sul velluto, il primo crash test finisce malissimo, perché l’Atalanta passa a Napoli (0-3) quasi senza faticare. È un momento che Conte aspetta quasi con ansia, gli consente di prendere la pressione e toglierla dalle spalle dei suoi. È il giochino più antico del mondo, ha iniziato a metterlo in pratica da mesi ma nulla gli dà modo di rincarare la dose come questo schiaffone. «L'ostacolo era molto alto e ci abbiamo sbattuto. Abbiamo incontrato una squadra che in questo momento secondo me è più forte di noi. Non c’è da vergognarsi nel vedere l’Atalanta come un punto di riferimento. Con pazienza e voglia di lavorare si può creare qualcosa di simile e chissà magari un giorno diventeremo noi più forti di loro».

All’orizzonte, infatti, c’è la sfida di San Siro con l’Inter: «Per me loro sono addirittura più avanti dell’Atalanta. Servono calma e pazienza, questa squadra con Osimhen e Zielinski in più lo scorso anno è arrivata decima. Il tifoso deve sapere che quando parlo non lo faccio per piangere o per scherzare, dico sempre quello che penso». Quest’ultima frase è forse il passaggio più interessante. In tutti i suoi mesi napoletani, che secondo molti sarebbero destinati a concludersi dopo questo inarrestabile veni-vidi-vici, Conte si è sempre rivolto ai tifosi napoletani esaltandoli per il supporto ma con un tono da educatore, quasi a volerli rimettere seduti sui seggiolini anche nei momenti di maggiore entusiasmo. Ha provato a imporre il self-control nella piazza più bollente d’Italia, facendo da pompiere pur essendo il primo degli incendiari.

IL VAR, KVARA, LE DIFFICOLTA'
Inter-Napoli è uno scontro diretto che concede poche emozioni, finisce 1-1, mantiene tutto sommato inalterata l’opinione su entrambe le squadre. Ma l’1-1 è figlio anche e soprattutto di un errore dal dischetto di Hakan Calhanoglu, l’equivalente calcistico del Gronchi Rosa. È il più classico dei rigorini, nato da un contatto Dumfries-Anguissa che poteva essere interpretato in ogni modo.

Se dopo l’Atalanta Conte si è rivolto ai suoi, adesso parla alla nazione. E la nazione, quando il tema è il VAR, va in fibrillazione. A far scattare Conte è l’analisi della non chiamata al monitor dell’arbitro Mariani: l’analista di DAZN Luca Marelli, pur ritenendo il contatto non sufficiente per generare il rigore, spiega il motivo che ha portato il VAR a non chiedere l’on-field review. Apriti cielo. «Ma che significa che il VAR non può intervenire se c’è un errore, ma che significa? Non capisco. A volte può intervenire: quando gli conviene intervengono quando non gli conviene non intervengono. Fatemi capire. Una decisione dell’arbitro può cambiare una partita di questo genere, e il “VAR non può intervenire”. Ma cosa significa? Il VAR o c’è o non c’è per correggere gli errori. Altrimenti ci nascondiamo e si nascondono dietro questa situazione qua del poteva intervenire o non poteva. Il VAR quando c’è un errore deve intervenire, punto e basta. Quando vogliono decide l’arbitro, quando non vogliono decide il Var. Ma che significa, ma che significa, ma che significa. È una cosa che mi fa veramente incazzare ma non solo a me, a tutti gli allenatori. Deve intervenire se c’è un errore. Se l’arbitro ha sbagliato, gli fai fare una figura di cacca in meno». Il «ma che significa» diventa in tempo zero un meme, rilanciato persino da DAZN, e si va a piazzare piuttosto in alto tra i tormentoni tipici dell’allenatore.

Neanche un mese dopo, il Napoli saluta la Coppa Italia. Lo fa presentandosi all’Olimpico, contro la Lazio, con una formazione rimaneggiata. Di quelli che in quel momento sono gli undici titolarissimi azzurri, in campo non ce n'è nemmeno uno, pur trovando comunque alcuni dei futuri protagonisti dello scudetto. Conte espone Zerbin a subire le folate di Zaccagni, schierandolo terzino destro nella sua difesa a 4; si affida all’inedito tandem Rafa Marin-Juan Jesus, piazza Folorunsho al fianco di Gilmour in mediana, scongela dal primo minuto addirittura Ngonge. A distanza di pochi giorni, il Napoli deve ospitare proprio la Lazio al Maradona e tutti sono convinti che si tratti di una decisione premeditata. Uscire dalla Coppa Italia, inoltre, consente a Conte di asciugare ulteriormente un calendario già decisamente sguarnito.

Nel momento in cui il tecnico è esposto alle critiche, più nazionali che locali, improvvisamente ritroviamo De Laurentiis protagonista: «Condivido la scelta, ha fatto benissimo a far giocare tutti gli altri calciatori. È stato un super allenamento con la Lazio. Una lezione di vita sportiva alla squadra. Sapevamo che cambiando così tanto non sarebbe stato facile, chiaro che se ne avessimo cambiati di meno ci sarebbe stato più equilibrio. Il tecnico doveva dare spazio e lo ha dato. Non importa il risultato. Possiamo permetterci di fare delle sperimentazioni come Conte ha fatto con la Lazio». Il Napoli ha iniziato a consolidare il sogno scudetto in quel momento, trovando presidente e allenatore l’uno al fianco dell’altro. È lecito immaginare che Conte abbia dovuto svolgere un lavoro gigantesco con i suoi giocatori in quei giorni, cercando di spiegare la sua scelta. Il rischio più grande era perdere la fiducia di quelli che erano stati esposti in maniera così sfacciata alla sconfitta, puntualmente arrivata con una tripletta di Noslin.

Ma Conte sa come tirare un gruppo verso un obiettivo. Sapeva, forse temeva, che avrebbe avuto bisogno anche di alcuni di loro da lì alla fine. Al Maradona, un po’ a sorpresa, il Napoli cade ancora con la Lazio. Ma la reazione è impressionante: arrivano sette vittorie consecutive, comprese quelle in casa di Fiorentina e Atalanta e al Maradona con la Juventus.

Nel frattempo è successo qualcosa: è arrivata l’offerta del PSG per Kvaratskhelia. I successi di quel periodo si concretizzano tutti senza il georgiano (e senza Buongiorno infortunato), con Neres che si prende un posto da titolare senza battere ciglio, togliendo però a Conte un’opzione spaccapartite rivelatasi preziosa fino a quel momento, e Juan Jesus che si piazza al fianco di Rrahmani senza mai una sbavatura. Al rientro da Bergamo, in pullman, davanti a una folla adorante, si erge a capopopolo per una frazione di secondo, prende un megafono, urla «forza Napoli». Capisce che per arrivare al traguardo serviranno tutti: «L’uomo col megafono credeva nei propri argomenti / e per questo andava avanti / ignorando i continui commenti / di chi lo prendeva per matto», recita un passaggio de L’uomo col megafono di Daniele Silvestri. Un passaggio che si chiude con una frase profetica: «Però il fatto è che lui soffriva, lui soffriva davvero».

Conte cerca di non parlare di mercato in quei giorni, si aspetta un pronto intervento da parte di De Laurentiis, ma per l’attacco non arriva nulla se non Okafor, reduce da mesi ai limiti dell’inquietante con la maglia del Milan e un trasferimento concluso e poi saltato dopo le visite mediche con il Lipsia. «Se la società dovesse chiedermi qualcosa, dirò qualcosa. Giocatori di prospettiva? Se si deve fare qualcosa, la si deve fare in modo giusto, altrimenti rimaniamo con questi uomini. Rispetto allo scudetto, sono andati via i giocatori migliori. Ma io vado in guerra con questi uomini», dice quando inizia ad annusare il peggio.

Se la reazione alla sconfitta con la Lazio aveva consolidato il cammino verso lo scudetto, quella alla cessione di Kvara è forse il germe che si pianta nel cervello di Conte e lo convince che non c’è domani, c’è soltanto l’oggi. Uno scudetto da vincere e poi chissà, forse salutare.

IL CAMMINO FINALE
Conte si mette ancora di più a corazza dei suoi ragazzi, li scorta faticosamente nel momento più complesso della stagione, inaugurato da un gol in extremis di Angelino (Roma-Napoli 1-1) e chiuso dalla rovinosa sconfitta di Como. Billing, arrivato a gennaio, fissa l’1-1 nello scontro diretto di ritorno con l’Inter. Iniziano gli acciacchi, anche giocando una volta a settimana. Buongiorno va nuovamente KO dopo la vittoria al Maradona col Milan, una settimana prima il Napoli si era fermato a sorpresa in casa del Venezia, concedendoci un momento mazzarriano di Conte: «La partita l'abbiamo fatta, non so per quale motivo il campo non era stato bagnato e la palla non scorreva. Forse era la prima volta che succede una cosa del genere quest'anno, ho chiesto a Eusebio se fosse una loro idea ma mi ha detto di no».

Il Napoli è andato avanti camminando sulle ginocchia, sui gomiti, continuando a perdere pezzi, cambiando persino pelle a livello tattico. Conte ha spremuto il meglio da giocatori che a un certo punto sembravano dimenticati, come Spinazzola e Raspadori. E quando ha iniziato a vedere il traguardo, notando le gambe dei suoi che tremavano, ha ripreso ad alzare la voce. Con in tasca la sofferta vittoria di Monza, è apparso ai microfoni con un tono rassegnato che in realtà celava ben altro: «Dobbiamo blindare il piazzamento Champions, vincere ci avvicinerebbe a questo traguardo prestigioso e non preventivabile. A inizio anno ho detto molte cose, alcune posso confermarle e altre no. Non rinnego niente, ma mi sono reso conto di alcune dinamiche, come il discorso di Kvaratskhelia. Avevo detto che il Napoli non doveva essere un club di passaggio, ora non vorrei passare per bugiardo su cose disattese. In otto mesi qui ho capito che tante cose non si possono fare».

Dopo Parma, dopo il sospiro di sollievo generato dal rigore di Pedro, ci ha mostrato nuovamente il Conte condottiero. «Da gennaio in poi abbiamo fatto qualcosa di straordinario, abbiamo dovuto comunque gestire situazioni sempre in emergenza, arriviamo in emergenza. Sembra tutto normale. Nessuno ha tirato mai in ballo questo, non era giusto farlo, però ogni tanto bisogna usare il cervello e dire: ma questi stanno ancora là, raschiando il barile. Si soffre, vuoi pure non soffrire? Queste sono emozioni. Lo scudetto due anni fa è stato vinto in carrozza, questa è un’altra situazione, se quest’anno se non volete neanche soffrire mi arrendo, è troppo per me».

E poi, di nuovo, lo sguardo rivolto ai tifosi: «Quello che mi sento dire è siamo concentrati, stiamo sul pezzo, non tiriamo fuori bandiere, questi ragazzi hanno bisogno di essere veramente spinti verso un traguardo storico, che tornerebbe dopo due anni in una maniera, fidatevi, inimmaginabile. Manca l’ultimo passo, dobbiamo farlo insieme. In maniera corretta, intelligente, va fatto insieme, se dovesse accadere, è lì che dobbiamo celebrare come dio comanda». Chiede a una pentola messa sul fuoco di non andare in ebollizione, forse qualcosa di impossibile in una città che da giorni ormai sembra aver dimenticato la scaramanzia.

Prima di Napoli-Cagliari, prima del giorno dei giorni, si è concesso l’ultimo show mediatico. «Ho sentito tantissima pressione e il peso sulle spalle, anche perché qualsiasi cosa che veniva fatta, veniva fatta per Conte. Secondo me è una cosa assurda e brutta, perché ogni cosa è stata fatta e accaduta per la crescita del club, non per accontentare Conte. La mia esperienza mi ha sempre detto che alla fine i campionati li vincono le squadre che hanno dimostrato e meritato di più. Parliamo di 38 partite, non di tornei brevi dove è molto importante il sorteggio e altri fattori, 38 partite sono tante per delineare chi merita. Dire qualcosa al tifoso napoletano mi risulta difficile. Possono cambiare giocatori, allenatori e proprietari, ma non cambierà mai la passione smisurata di questo popolo».

Poi Conte si è buttato in mezzo ai tifosi, firmando autografi, sentendo voci accorate che gli chiedevano di restare al Napoli, di regalare a tutta la città almeno un altro anno di facce incazzate. Basterà?

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