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Resistere, resistere, resistere
10 giu 2017
James e Irving si rifiutano di cedere il passo e Cleveland gioca una partita ai limiti della perfezione: le NBA Finals non sono ancora finite.
(articolo)
10 min
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È possibile deviare da un destino già segnato? Quando tutto sembra irrimediabilmente perso, quale via di fuga verso la salvezza rimane da percorrere? Tra le tante questioni aperte, queste due domande incombevano sulla Quicken Loans Arena stanotte. I Cleveland Cavaliers, squadra sull’orlo del baratro, affrontavano il primo elimination game della stagione con poche certezze, quasi tutte sconfortanti. Certo, dodici mesi prima contro lo stesso avversario erano stati in grado di respingere il tentativo di chiudere la serie per ben due volte, per poi andare a vincere il titolo in quell’epica Gara-7. Eppure lo scenario, a un anno di distanza, sembrava del tutto cambiato.

Perché se Gara-3 aveva lasciato negli occhi di spettatori e addetti ai lavori l’immane sforzo profuso da LeBron James e compagni, vanificato dall’11-0 finale firmato dal duo Curry-Durant, la realtà dei fatti, numeri alla mano, tratteggiava contorni ben più netti. Gli Warriors, al di là del finale stellare dei loro due fuoriclasse, avevano surclassato i Cavaliers in ogni singola voce statistica. A cominciare da quelle più decisive nel contesto della moderna interpretazione del gioco: 29 canestri assistiti contro i 17 degli avversari, 48.2% dal campo contro il 44.4% degli uomini di Tyronn Lue e, soprattutto, facendo registrare un quasi irreale 48.5% da tre a fronte del 27.3% dei campioni in carica.

Il dominio tecnico e tattico, quindi, era apparso indiscutibile. A Cleveland non era rimasto altro da fare che appellarsi alla volontà di non mollare e credere che, sulla scia di quanto sperimentato l’anno scorso, con James e Irving tra le proprie fila fosse comunque tutto possibile. Le speranze a cui aggrapparsi per Gara-4 sono rimaste pressapoco le stesse, senza tuttavia tralasciare come le prime tre partite abbiano rappresentato per i Cavaliers una graduale presa di consapevolezza della superiorità dell’avversario. Sensazione confermata anche dalle dichiarazioni post-partita di un LeBron apparso davvero abbattuto dopo la sconfitta maturata nel finale di Gara-3.

Manifesto programmatico

L’atteggiamento con cui scendono in campo i Cavaliers è figlio di quella disperazione che, paradossalmente, finisce col generare serenità. Il messaggio emerge chiaro da subito: facciamo quello che sappiamo fare e proviamo a farlo al nostro meglio. Non ci sono sottili aggiustamenti tattici da adottare, tantomeno il tempo di inventarsi un’identità diversa da quella forgiata durante le ultime due stagioni. In attacco Cleveland impone all’avversario a una dieta tanto semplice quanto rigorosa: lavoro lontano dalla palla per sfiancare Curry sui blocchi, tiri veloci in uscita dal pick and roll in transizione e aggressività sui rimbalzi offensivi.

Diamo il benvenuto nella serie a Tristan Thompson.

In difesa si punta forte sul raddoppio costante nei confronti di Durant e Curry, sfidando Green ogni volta che la palla transita dalle sue mani. Irving parte con le marce alte e l’attenzione sulle linee di passaggio nella propria metà campo sembra funzionare, dato che dopo nemmeno tre minuti di gioco i Cavaliers conducono 14-5 — il quale, per quanto conti, è già il vantaggio più ampio ottenuto da Cleveland in tutta la serie. Tristan Thompson, fin qui ai margini della serie, è un ossesso e proprio quando dà inizio a una sfida verbale con Draymond Green, che durerà fino al termine della gara, strappa ogni singolo rimbalzo offensivo, sfruttando tutti i vantaggi concessi dagli aiuti degli Warriors su James e Irving che prendono continuamente in mezzo Zaza Pachulia (-13 di plus-minus in 4 minuti e mezzo). Con 6:54 sul cronometro del primo quarto, Kerr deve già ricorrere alla celeberrima Super Death Lineup inserendo Iguodala per il centro, ma le uscite sui tiratori rimangono però poco tempestive e Cleveland continua a dominare a rimbalzo (11-3 il parziale dopo i primi 8 minuti). La presenza in campo di Curry, costretto dalla difesa a lavorare duro anche lontano dalla palla inseguendo J.R. Smith e forzando i cambi su Irving, si segnala per due falli rivedibili e poco altro. Solo Durant batte un colpo per gli Warriors, segnando una tripla pazzesca con la mano di Tristan Thompson in faccia e riporta i suoi a -11.

Ma è legale segnare un canestro del genere in faccia a un centro di 2.11 in piena estensione?

Non basta però, perché dall’altra parte Kyrie ripaga i tardivi cambi della difesa con la stessa moneta e Jefferson chiude il contropiede dopo la rubata di James.

La rinnovata attenzione di Cleveland sulle linee di passaggio genera contropiedi solitari.

I Cavs chiudono avanti di 16 un primo quarto stratosferico: 49 punti segnati (record nella storia delle Finals), 14/24 dal campo, 7/12 da tre e una sola palla persa. Il tutto nonostante un LeBron James da soli (si fa per dire) 8 punti e un rivedibile 14 su 22 ai liberi di squadra.

Per il secondo quarto Kerr resta fedele alle rotazioni classiche tenendo Steph e KD in panchina, mentre dall’altra parte il vantaggio accumulato consente anche a LeBron di rifiatare per tre minuti, nonostante lo spavento per un immediato parziale degli Warriors. Lo spartito però non cambia: la qualità dei possessi offensivi dei Cavaliers permette a coach Lue di controllare il ritmo della partita e quando in campo ci sono le seconde linee degli Warriors — David West e JaVale McGee in particolare — LeBron e Irving forzano il pick and roll per coinvolgerli e banchettare sull’evidente vantaggio. Dall’altra parte invece Golden State si appoggia meno di quanto potrebbe su Durant e i pochi segnali di vita arrivano dai giochi disegnati sulle rimesse. Un Kyrie motivato a mille dalla situazione spalle al muro, il solito, devastante LBJ e la presenza continua ed efficace su entrambi i lati del campo di Love permettono a Cleveland di andare al riposo sul +18.

Consegnato e blocco monumentale di Tristan Thompson, mentre Kyrie recita da Kyrie.

Solo Durant è in grado di avventurarsi con successo nell’area pitturata dei Cavaliers.

Gli 86 punti del primo tempo — di cui 67 a firma del trio James-Irving-Love — sono un altro record per le Finals, così come le 12 triple messe a segno equivalgono a quelle totali di Gara-3 e le sole 4 palle perse testimoniano di una prima parte di gara in cui, al netto dell’ostinato talento di Durant, in campo c’è stata una squadra sola, dominante nonostante il ritmo (pace a 108) fosse congeniale a Golden State.

Twin Peaks, versione NBA

Il parziale di 4-0 con cui gli Warriors cominciano il terzo quarto fa subito scattare un campanello d’allarme e coach Lue chiama immediatamente timeout. Se c’è una cosa che i Cavaliers hanno imparato è che, con la potenza di fuoco a disposizione, rimontare uno svantaggio in doppia cifra nel giro di poche azioni è impresa tutt’altro che impossibile per Golden State — e il secondo tempo si gioca tutto su questo sottile filo psicologico. Cleveland però rientra in campo con l’azione corale più bella della partita e riprende immediatamente le redini del gioco.

Come uscire da una situazione difficile con talento e altruismo: esegue LeBron James.

Kevin Love, che in difesa è accoppiato con Pachulia, non ne subisce la maggiore fisicità, soprattutto sui blocchi, consentendo a Tristan Thompson di restare su Green in copertura perimetrale. Dopo un numero circense di LeBron che infiamma l’arena, l’atmosfera si scalda.

LeBron fa tutto da solo, ma l’auto-assist à la Tracy McGrady non viene conteggiato. Alla fine comunque sono 31 punti, 10 rimbalzi e 11 assist — nona tripla doppia in carriera alle Finals, superato Magic Johnson.

La chiacchierata tutta sorrisi e alzate di spalle tra i due allenatori e James a bordo campo evolve in una serie di scambi molto meno amichevoli tra giocatori e panchina. Gli arbitri ci mettono del loro, rallentando il gioco con una serie di scelte contraddittorie e poco comprensibili che allungano i tempi morti a dismisura e rendono la partita quasi un involontario, onirico omaggio al recente ritorno in auge del maestro Lynch con la nuova stagione di Twin Peaks. La confusione sul secondo tecnico a Green — che in verità è il suo primo, in quanto quello fischiato nel primo tempo era stato affibbiato a Kerr — genera l’inevitabile coro ‘Draymond sucks’ dagli spalti. Nemmeno questo, però, riesce ad accendere la miccia di Golden State: il ritmo rallenta ulteriormente (pace a 91 nel secondo tempo) e il punteggio sembra cristallizzato, con le azioni si sfilacciano e la fisicità che rende la gara più cattiva, finendo per far litigare a muso duro perfino due amici come LeBron e KD e un contatto tutt’altro che pulito di Pachulia verso l’inguine di Shumpert, in una riedizione 2.0 di Draymond vs LBJ.

Con 3 minuti sul cronometro del terzo Curry prova a rientrare in partita con il suo terzo canestro dal campo, ma il ritorno di Cleveland al quintetto con James da centro genera il canestro di Deron Williams (primi punti nella serie per lui) e la tripla di Kyle Korver con cui i Cavaliers pareggiano il record nelle Finals (18) stabilito proprio dagli Warriors in gara-3.

Williams e Korver finalmente protagonisti per Cleveland in un momento delicato della partita.

È un terzo quarto farraginoso e selvaggio, che si chiude con l’espulsione di uno spettatore in prima fila, reo di aver insultato i giocatori avversari, e con due bombe di Deron Williams e LeBron James che riportano Cleveland a +19 prima dell’ultima frazione.

Cavs in 7

Le triple continuano a fare la differenza anche in avvio dell’ultimo quarto: con LeBron seduto in panchina l’uno-due firmato McCaw-Thompson segna un 6-0 con cui Golden State prova a rimettersi in partita.

Anche in una partita stravinta, i Cavs hanno perso di 11 i minuti passati in panchina da James.

I Cavaliers, però, ancora una volta escono bene dal timeout e un Kyrie in versione posseduto ricaccia indietro gli Warriors con un 5-0 di fronte al quale c’è ben poco da rimproverare alla difesa avversaria, a cui sarebbe più utile un esorcismo per cercare di liberarsi del demone col numero 2.

Esorcisti e professionisti del paranormale di tutta la California: tenetevi liberi per lunedì sera.

C’è ancora tempo per qualche tentennamento arbitrale di poco conto (diciamo solo che la terza difficilmente rivedrà il campo molto presto nelle Finals), per un clinic di energia & voglia di vincere a cura dell’emerito professor Richard Jefferson, qualche breve rappresaglia di un Durant da 35 punti alla fine e poco altro: i Cleveland Cavaliers vincono in relativa scioltezza una Gara-4 che alla vigilia sembrava presentare tutti gli estremi di una sentenza già scritta. Lo stratosferico 53.3% al tiro da dietro l’arco e il record di 24 triple messe a segno (mentre Golden State ha chiuso con 11/39) permettono a marcare per Cleveland una prestazione offensiva molto vicina ai limiti della perfezione (136.1 l’irreale rating offensivo dei Cavs, addirittura 148 nei 40 minuti con James in campo), così come i 7 falli tecnici fischiati complessivamente testimoniano di una gara che, per entrambe le parti in causa, era tutt’altro che decisa in partenza o “lasciata andare” dagli Warriors.

A Golden State, arrivata alla prima sconfitta nei playoff dopo 15 vittorie di fila, rimane la consapevolezza dell’eccezionalità di quanto avvenuto sul parquet della Quicken Loans Arena. Praticamente tutto quello che poteva andare male è andato male: dalla percentuale sui tiri non contestati (8/30) alla inusuale mancanza di comunicazione e fervore difensivo fino alla familiare, potenzialmente rovinosa isteria di Green e Pachulia, oltre a una certa riluttanza a giocare piccolo (le condizioni di Iguodala, unico positivo per plus-minusi nei soli 22 minuti disputati, sono sembrate peggiori rispetto ai primi tre episodi). Difficile pensare che i ragazzi di coach Kerr possano ripetere una prestazione così misera tra le mura amiche con il titolo in palio, specialmente per l’1/11 nei tiri non contestati degli Splash Brothers, ma intanto devono mettere da parte il sogno di chiudere da imbattuti la più grande post-season di tutti i tempi.

Il pubblico di casa che accompagna le squadre nello spogliatoio al coro di “Cavs in 7!”, rifacendosi al controverso tweet post gara-3 di J.R. Smith, sembra però convinto dell’impresa. Resta da scoprire se tutto lo slancio emotivo accumulato questa notte sarà sufficiente per fermare la perfetta macchina da canestri di Golden State tra le mura amiche della Oracle Arena, dove i Cavs non sono riusciti nei primidue episodi ad arrivare punto a punto nell’ultimo quarto. L’appuntamento è per lunedì notte ma nel frattempo, almeno per altri tre giorni, i Cleveland Cavaliers restano vivi.

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