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Valerio Moggia
Non tutti i calciatori sono rimasti in silenzio
24 nov 2022
24 nov 2022
Cosa hanno fatto i giocatori per protestare contro Qatar 2022.
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Valerio Moggia
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Ian MacNicol/Getty Images
(foto) Ian MacNicol/Getty Images
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche, in questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.Chi non sa è un imbecille, ma chi sa e non dice niente è un criminale. Questa citazione di Bertold Brecht (in realtà leggermente rielaborata) campeggiava in francese su un manifesto datato 1978, sopra al disegno di un campo da calcio visto dall’alto, su cui si estende la gigantesca ombra di un militare che punta una pistola alla nuca di un prigioniero. È uno dei tanti manifesti della campagna del COBA, il Comité pour l’Organisation par le Boycott de l’Argentine de la Coupe du Monde, che 44 anni fa cercò di bloccare il Mondiale nell’Argentina di Videla.Quel progetto di boicottaggio fallì silenziosamente. Wim van Hanegem, calciatore olandese, disse che, se mai qualche attivista l'avesse contattato per parlare di politica, avrebbe passato la telefonata al suo cane. Il CT della Svezia Åby Ericson disse in conferenza stampa che l’Argentina a lui sembrava un paese a posto e che non c’erano cadaveri per le strade. Tutti gli altri stettero zitti, e giocarono. Quella generazione era ritenuta la più politicizzata di sempre: erano i ragazzi cresciuti dal Sessantotto, spina dorsale di un decennio di contestazione politica che attraversò tutta Europa (e non solo), ma che evidentemente non superò mai il robusto steccato del mondo del calcio.Parlare del boicottaggio di Argentina ‘78 serve innanzitutto a mettere in chiaro un fatto spesso sottovalutato: oggi si sente dire spesso che i calciatori non hanno fatto abbastanza per opporsi ai Mondiali in Qatar, eppure la lista di nomi che hanno protestato per i crimini del regime di Doha è decisamente più lunga di quella del Mondiale argentino, quando i giovani sarebbero dovuti essere molto più sensibili di ora su certi temi. Mai prima di oggi così tanti calciatori si erano espressi su una tematica politica riguardante l’organizzazione di un torneo e avevano messo in discussione le decisioni della FIFA e delle loro federazioni. Questo, se anche non abbastanza, è comunque un inizio.Dire di noNel 1978, l’unico giocatore che dimostrò interesse per le violazioni del giunta militare argentina fu l’ala destra del Saint-Étienne Dominique Rocheteau, che provò a organizzare degli incontri tra attivisti dei diritti umani e la Nazionale francese, senza grande successo. 44 anni dopo, il capitano della Francia campione del mondo in carica Hugo Lloris si è segnalato a sua volta per essere anche lui l’unico calciatore ad aver preso una specifica posizione su un Mondiale discusso: è stato l’unico a difendere il Qatar.In una recente conferenza stampa, Lloris ha detto di non essere d’accordo con l’indossare una fascia arcobaleno a sostegno dei diritti LGBTQ+ (largamente violati dal governo qatariota, come illustra un drammatico report di Human Rights Watch) per «rispettare le regole e la cultura» del paese ospitante. Il portiere parla da capitano della Nazionale, il ruolo più politico che oggi un calciatore può rivestire in campo, e non a caso rivendica di avere le stesse posizioni del presidente della Federcalcio Noël Le Graët, a sua volta interessato a tutelare gli ottimi rapporti tra il calcio transalpino e Doha. Sta di fatto che il giorno seguente i giocatori della Francia hanno deciso di diffondere un comunicato in cui annunciavano il loro sostegno economico alle ONG che operano per la difesa dei diritti umani in Qatar.

Nessun altro calciatore francese ha criticato apertamente il Mondiale. E d’altronde come sarebbe stato possibile farlo, considerato quanti soldi il Qatar ha investito in Francia in questi anni, nel calcio attraverso il Paris Saint-Germain, dove oggi gioca Kylian Mbappé? La stella dei "Bleus" non si è mai fatto problemi a parlare di politica, ed è molto nota la sua amicizia con il Presidente della Repubblica Macron (lo stesso Macron che, tre giorni prima del calcio d’inizio della Coppa del Mondo, ha ricordato che «Non dobbiamo politicizzare lo sport»), eppure sul Qatar è rimasto zitto.Non che siano mancate le prese di posizione nel resto del paese, dai grandi media come Le Parisien e Le Monde, che da tempo parlano dei problemi celati dietro il torneo, fino a quelli più piccoli come Le Quotidien, piccolo giornale del territorio d’oltremare di La Reunion che ha deciso di boicottare il Mondiale. Ma il mondo del calcio transalpino ha preferito sostanzialmente restarsene in silenzio, sebbene solo anni fa proprio un calciatore francese, Zahir Belounis, era costretto a minacciare lo sciopero della fame per attirare l’attenzione sulla sua de facto prigionia a Doha, vittima del sistema della kafala. Il suo caso, evidentemente, ha smosso ben poco le coscienze dei colleghi.Un’Europa divisa a metàDel primo giocatore a scegliere di mettersi contro il Qatar oggi non si ricorda più nessuno. Era il gennaio 2019, prima ancora che uscisse la famosa inchiesta del Guardian sui 6.500 morti, e un attaccante finlandese di 29 anni chiamato Riku Riski si rifiutò di giocare con la propria Nazionale un’amichevole contro la Svezia, che era stata organizzata a Doha. «Le ragioni della mia decisione sono state l'etica e i valori, che voglio seguire e mantenere» aveva spiegato all’epoca al giornale Helsingin Sanomat.La sua presa di posizione rimase largamente inascoltata, tant’è vero che ci vollero altri due anni - e, appunto, il Guardian - per innescare finalmente un momento di autocoscienza collettivo. Nel febbraio 2021, il piccolo Tromsø, in Norvegia, fece partire un movimento di protesta che si allargò prima ad altri club vicini, poi alla stessa Nazionale, e infine ad altre selezioni (Danimarca, Svezia, Germania, Olanda, Inghilterra). Nella primavera del 2021, le qualificazioni ai Mondiali della zona UEFA iniziarono a vedere di frequente squadre che scendevano in campo con magliette o striscioni sui diritti umani. Un gesto reso ancora più forte dal fatto che, in virtù di accordi tra Doha e la stessa UEFA, il Qatar era stato ospitato in maniera amichevole nel Gruppo A delle qualificazioni europee al Mondiale.

JORGE GUERRERO/AFP via Getty Images

A settembre, il capitano della Finlandia Tim Sparv scrisse quello che è tutt’oggi il ragionamento più serio e profondo fatto da un calciatore sulle violazioni dei diritti umani in Qatar. E tutto, spiegava, partì proprio dal suo compagno di squadra Riku Riski che un giorno gli disse che avrebbe boicottato il Qatar: “Fu la prima volta che sentivo qualcuno rifiutare una convocazione per questo motivo. Ero sorpreso, ma sapevo anche che Riku era davvero un bravo ragazzo. Così ho iniziato a pensare, Cosa non sto vedendo qui?”. È un peccato che i due paesi in cui il dibattito nel calcio è stato più lucido e onesto, Finlandia e Norvegia, a questi Mondiali non si sono qualificati.L’aspetto che emerge abbastanza chiaramente è che le voci che si sono alzate contro il Qatar arrivano principalmente dai Paesi dell’Europa centro-settentrionale. Per il resto poche sparute voci critiche sono emerse solo nelle ultime settimane, grazie a Bruno Fernandes ed Héctor Bellerín. Ma, a ben vedere, occorre aggiungere che questo dibattito sembra essere stato del tutto assente nell’Europa dell’Est, in Sudamerica e in Africa. I calciatori australiani hanno preso posizione solo a fine ottobre scorso, anche perché nel calcio locale la tematica dell’omofobia è oggi molto discussa, dopo il coming out di Josh Cavallo. Gli Stati Uniti hanno deciso di utilizzare in Qatar il proprio logo arcobaleno, e durante un allenamento pre-Mondiale hanno giocato contro una squadra di lavoratori migranti, ma tutto ciò è avvenuto solo una manciata di giorni prima del via.Una questione di responsabilitàCome spesso capita, Jürgen Klopp ha detto qualcosa di intelligente. E cioè che non ha molto senso pretendere prese di posizione dai calciatori, molti dei quali quando fu assegnato il Mondiale erano bambini o poco più. Se qualcuno di loro ha qualcosa da dire sui diritti umani, ben venga, ovviamente; ma troppo spesso si è avvertita in giro la pretesa che si esprimessero, in una sorta di ricatto morale per cui chi non parla è complice. È una tematica complessa, che ci coinvolge tutti, ma che quando riguarda i calciatori è come acuita, in quanto è facile far coincidere “il calcio” come entità con chi lo pratica. La realtà è che, nonostante i soldi e la fama, all’interno del sistema calcio occupano gli ultimi gradini. Non hanno alcun peso sulle decisioni che vengono prese, su come e dove disputare una competizione, sulle modifiche ai regolamenti e la creazione dei calendari. Come aveva già fatto notare Dario Saltari parlando della Superlega, FIFPro, che sarebbe il sindacato internazionale della categoria, nei fatti non entra in nessuna discussione che esuli da quella dei contratti.L’opinione pubblica è sempre molto severa con i “viziati, privilegiati, super-pagati” calciatori, ma non riesce a dimostrare la stessa intransigenza nei confronti di chi detiene veramente il potere nel calcio: i leader delle federazioni nazionali, delle confederazioni continentali e, infine, della FIFA. Se verso Gianni Infantino si sono levate spesso critiche in questi anni, lo stesso non si può dire dei presidenti delle federazioni, molti dei quali nel dicembre 2010 votarono per il Qatar e successivamente non sollevarono nessuna concreta perplessità attorno al Mondiale, tutti interessati all’idea di stringere stretti rapporti con uno dei maggiori investitori a livello globale.

E poi ci sono i media, che specialmente qui in Italia sono stati quasi del tutto assenti quando si è trattato di denunciare le violazioni dei diritti umani in Qatar. La prima inchiesta sul campo condotta da una testata giornalistica del nostro paese è stata quella di Report, trasmessa su Rai 3 lunedì 14 novembre, cioè appena sei giorni prima del calcio d’inizio del torneo. Per dodici anni, in Italia si è potuto scoprire cosa accadeva in Qatar solo cercando informazioni sulla stampa straniera o sui siti delle ONG come Amnesty International. Non stupisce allora che, in un clima di così vasto disinteresse informativo sul tema, nessun calciatore qui da noi abbia sentito il bisogno di parlare pubblicamente, a parte Federico Bernardeschi solo poche ore fa sulla RAI.L’altra metà del calcioTolto Sparv, i calciatori che si sono schierati su Qatar 2022 lo hanno fatto in maniera piuttosto discreta, indossando magliette o reggendo striscioni, ma raramente cimentandosi in discorsi più articolati. Cosa che invece hanno fatto le colleghe donne, decisamente più abituate a dover parlare di tematiche sociali. Nel novembre del 2021 Magdalena Eriksson, svedese del Chelsea, ha discusso del problema dell’omofobia in Qatar e sottolineato come il futuro del calcio dovrà prevedere un nuovo sistema decisionale. «Nelle scienze politiche si parla di governi top-down e bottom-up. Se coinvolgi i giocatori, i tifosi, la comunità del calcio, le decisioni diventano più legittime».Se Cristiano Ronaldo è rimasto zitto, occupato dalle sue difficoltà prima a Torino e poi a Manchester, e Leo Messi si è addirittura spostato a Parigi per prendere denaro dal governo di Doha, a fine 2021 Ada Hegerberg, la migliore calciatrice al mondo, ricondivideva sui social un’inchiesta della rivista norvegese Josimar Fotballblad sulle violazione dei diritti umani in Qatar. Più di recente, la numero 10 del Portogallo Jéssica Silva è stata la prima figura del calcio lusitano, anche prima di Bruno Fernandes, a parlare di Qatar 2022, con un lungo post sui social. “Come comunità possiamo e dobbiamo coltivare un mondo più giusto e unito, dove la libertà non sia un’utopia. Sarebbe bene ricordare a tutti che i diritti umani sono universali in ogni parte del mondo”. Nello stesso giorno, anche la campionessa d’Europa Lotte Wubben-Moy ha annunciato che non guarderà i Mondiali per protesta, entrando nel ristretto di quelle persone che di fatto boicotteranno il torneo.Secondo Eriksson, il motivo per cui alle calciatrici riesce più facile parlare chiaramente di problemi sociali rispetto ai colleghi maschi è perché «abbiamo sempre dovuto parlare per noi stesse. Lungo la mia carriera, in quasi ogni intervista, c’è sempre stata una tematica più importante del calcio a cui fare riferimento». Le difficoltà dei calciatori di oggi sono figlie del privilegio di chi li ha preceduti, che hanno potuto permettersi il lusso di essere apolitici senza troppi problemi.Quando la FIFA ha impedito ai giocatori della Danimarca di indossare in allenamento una banalissima maglia con sopra scritto “Diritti umani per tutti”, nessuno di loro ha provato a opporsi, quando paradossalmente sarebbe bastato dire “E allora noi non giochiamo” per far saltare il banco e costringere Infantino a scegliere tra il Qatar e il Mondiale.Contro chi protestareIn questi primissimi giorni del Mondiale in Qatar, la questione del ruolo politico dei calciatori è divenuta centrale. Dopo il divieto della maglietta danese sui diritti umani, la FIFA ha vietato anche ai capitani di indossare le fasce arcobaleno della campagna “One Love”, nonostante fosse da settembre che diverse nazionali europee avevano comunicato che le avrebbero utilizzate.Inizialmente, giocatori come Harry Kane, Gareth Bale e Virgil van Dijk hanno detto che si sarebbero opposti alla decisione della FIFA, ma alla fine nella mattinata di lunedì sette federazioni europee hanno comunicato il loro passo indietro. L’organizzazione di Infantino ha infatti minacciato i giocatori di sanzioni (si è parlato di ammonizione, forse addirittura di divieto di scendere in campo) se avessero insistito nell’indossare la fascia arcobaleno. L’unica manifestazione di protesta è divenuta quindi una sarcastica manifestazione di impotenza, quella dei giocatori tedeschi che mercoledì contro il Giappone hanno posato per la foto di rito con le mani sulla bocca, a simboleggiare la loro impossibilità di parlare di diritti umani in Qatar. È abbastanza? Forse sì, o forse no. Probabilmente, se fosse successo con delle calciatrici la reazione sarebbe stata diversa (pensiamo alla protesta delle statunitensi contro la propria federazione sul tema dell’equal pay), e ciò conferma i già discussi limiti dell’azione politica nel calcio maschile.Ma ancora una volta occorre tenere ben presenti i rapporti di forze e la complessità del sistema: le federazioni non sono state più coraggiose dei propri giocatori nell’opporsi alla FIFA, sebbene abbiano maggiore potere contrattuale. E che dire dei sempre silenziosi arbitri? Nessuno di loro, singolarmente o collettivamente, ha fatto sapere cosa ne pensi di un regolamento che li vincola a sanzionare un giocatore che indossa una fascia per i diritti umani, peraltro sbandierati nello stesso statuto della FIFA. Ecco allora che tornano puntuali le parole di Klopp di qualche giorno fa: pensiamo sempre ai giocatori, e non al sistema in cui sono immersi. Un sistema da cui, al momento, nonostante la tanta buona volontà sembra non poter uscire nulla di buono.

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