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Daniele Manusia
Il nuovo primo derby di Daniele De Rossi
08 apr 2024
08 apr 2024
Cosa ha significato per il nuovo allenatore giallorosso e per i suoi tifosi.
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Daniele Manusia
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IMAGO / ZUMA Press
(foto) IMAGO / ZUMA Press
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Lo so, è un intreccio di date e nomi, ma cercate di seguirmi.Quando ho scritto un libro su Daniele De Rossi (Daniele De Rossi o dell'amore reciproco, edito da 66thnd2nd) ho iniziato da un derby. Quello del gennaio 2005 (diciannove anni fa) perso dalla Roma per 3-1. Il secondo derby di Di Canio, quello in cui segna, come all’esordio in Serie A (sedici anni prima, trentacinque anni fa), ma alla fine alza il braccio teso alla tribuna rovinandosi da solo la festa. Quel giorno De Rossi è uscito a un quarto d’ora dalla fine, guardando il terzo gol dalla panchina. Quella stagione 2004-2005 dai tifosi romanisti è ricordata come la stagione “dei quattro allenatori”, anche se in realtà gli allenatori furono cinque, contando anche Ezio Sella, in panchina solo per una partita di Champions League contro il Real, a Madrid. La Roma a Madrid perse 4-2 dopo essere andata in vantaggio 2-0. Indovinate chi ha segnato il primo gol quella sera, entrando in area e anticipando Casillas con un tocco di punta, prima di scivolare sulle ginocchia e arare il prato del Bernabeu? Daniele De Rossi.

La stagione 2004-05 è una delle peggiori del ventunesimo secolo romanista. Dopo l’addio di Capello, che l’anno prima l’aveva riportata al secondo posto, la Roma si classificò ottava in una classifica cortissima, a soli tre punti dalla zona retrocessione. Quella è stata anche la prima vera stagione di De Rossi da titolare, in cui la sua voce si è iniziata a sentire, in cui i tifosi hanno iniziato a conoscerlo veramente. Aveva appena 21 anni e indossava la maglia numero 4, anziché la 27 che aveva avuto fino alla stagione prima, o l’iconica numero 16 che indosserà poi. In mezzo a quella stagione, in trasferta contro il Brescia, De Rossi era stato fatto capitano per la prima volta, anche se per errore. Non c’era Totti, e Cassano (capitano dall’inizio) uscendo dal campo a sette minuti dalla fine, sostituito da Mido, gli aveva consegnato la fascetta anche se in teoria il vice era Christian Panucci. In panchina c’era il terzo allenatore dell’anno, Luigi Del Neri.Il secondo di quei famosi quattro allenatori, che in realtà erano cinque, era stato Rudi Voeller, mito d’infanzia di De Rossi. In una celebre foto in cui, bambino sotto i dieci anni, posa col completino giallorosso nel salotto di casa sua, a Ostia, il numero sulla maglia, ha raccontato, era proprio il 9 del centravanti tedesco. Un attimo prima che Voeller venisse esonerato De Rossi lo aveva difeso pubblicamente dicendo che «il problema non è l’allenatore». Responsabilizzando i suoi compagni, responsabilizzandosi. In quella stagione tremenda stagione per i romanisti De Rossi ha rinnovato il suo contratto dissipando una coltre di voci maligne che aveva iniziato a circondarlo, e dicendo che avrebbe firmato per più anni possibile: «Se si potesse, anche a vita». Lo so, è un intreccio di date e nomi e magari non tutti vi sembrano fondamentali, ma per un tifoso, per chi quegli anni li ha vissuti sentendosi parte in causa, e quei nomi li ricorda come nomi di zie e zii lontani, che magari ha visto appena un paio di volte in vita sua, è proprio questa l’essenza stessa del tifo. Questo intreccio indissolubile.Ed è questo che De Rossi si porta dietro, quando a gennaio 2024, appunto, diciannove anni dopo quel derby, accetta la richiesta di Dan Friedkin - primo presidente romanista dal 1993 che non lo aveva avuto come giocatore - di sedere sulla panchina giallorossa. Dopo il suo primo derby vinto da allenatore si può pensare al suo primo derby vinto da giocatore, quello dell’ottobre del 2003, vinto dalla Roma con il “tacco di dio”, che in realtà era il tacco di Amantino Mancini - anche solo per la coincidenza di due gol segnati sotto la curva Sud da due giocatori di nome Mancini a ventun'anni di distanza - ma volendo, con uno come De Rossi si può andare a pescare in qualsiasi altra stagione, in qualsiasi altro derby, e trovare qualcosa che faccia riverberare di significato questo sua vittoria. A me, ad esempio, viene in mente quel derby del 2005.Dico “sua” vittoria anche se per qualcuno magari questo sarà “il derby di Mancini”, Gianluca, ma un po’ come Di Canio nel 2005 anche Mancini alla fine si è rovinato in parte la festa da solo, sventolando una bandiera offensiva nei confronti del tifo laziale anziché prendere una qualsiasi altra bandiera giallorossa (certo, sempre meglio del braccio teso, per quanto mi riguarda), con la FIGC che considera una possibile squalifica e l’opinione pubblica distratta dal fatto che in fin dei conti il gol vittoria lo aveva segnato proprio lui. Impossibile invece trovare qualcosa che sporchi il primo derby da allenatore di Daniele De Rossi. Quando a fine partita, senza voce, l’ha commentata mettendone a confronto lo spirito agonistico con la partita precedente, il grigio 0-0 di Lecce, De Rossi si è preso tutte le colpe della settimana precedente dice che «l’allenatore», cioè lui stesso, «deve migliorare». Proviamo a riassumere velocemente questa prima fase di De Rossi allenatore della Roma. Quando è stato fatto il suo nome, all’inizio, sembrava uno scherzo. De Rossi, praticamente senza esperienza, con appena 17 partite tra Serie B e Coppa Italia sulla panchina della Spal, e di queste 17 solo 3 vittorie, veniva a sostituire l’allenatore praticamente con più esperienza al mondo, José Mourinho. O quanto meno il più furbo, quello sempre in controllo, quello che se gli dicevi di migliorare qualcosa ti ricordava le coppe che aveva vinto come a dire che a migliorare dovevano essere gli altri. Uno degli allenatori più amati dai tifosi giallorossi, che con le due finali europee consecutive si è meritato un posto nella storia giallorossa, un uomo forte al comando, sostituito da un uomo ragionevole, che parla sempre con sincerità, uno che i tifosi vedono ancora, e forse vedranno sempre, come “uno di loro”. De Rossi che ritiene l’allenatore sia importante solo se «si rende conto che i giocatori che ha sono più importanti di lui».E c’erano molte cose che potevano andare male molto presto per De Rossi. Poteva perdere quasi subito, neanche un mese dopo aver iniziato, lo spareggio con il Feyenoord, rafforzando con la nostalgia la mistica europea di Mourinho. E invece la Roma ha vinto, ai rigori per giunta, come raramente le capita, come, anzi, proprio Mourinho aveva perso la finale l’anno prima. Poteva, provando a fare un gioco diverso, più brillante, più “moderno”, sbattere contro i limiti della rosa che Mourinho non aveva mai smesso di sottolineare. E invece la Roma è sembrata rinascere, come dei fiori a cui bastava cambiare l’acqua nel vaso. Lorenzo Pellegrini aveva realizzato appena un gol e un assist in campionato, con Mourinho, in due mesi e mezzo ha segnato altri 6 gol e fatto altri 3 assist. Tanto per dire. In undici partite di campionato la Roma ha perso solo contro l’Inter, pareggiato contro Fiorentina e Lecce e vinto tutte le altre. Talvolta con fortuna, immeritatamente, ma non è che con Mourinho si potesse dire che la Roma avesse qualche tipo di credito con la fortuna (se si esclude la finale col Siviglia, ovviamente). La Roma che aveva preso in mano De Rossi sembrava una squadra che aveva ottenuto fin lì più di quanto meritasse davvero, grazie al suo allenatore magnetico, allo sciamano in grado di trovare l’acqua sotto al terreno arido, da quando c’è De Rossi la Roma sembra una squadra imperfetta, modesta sotto molti aspetti, ma con del potenziale. De Rossi poteva perdere con il Brighton, magari male, poteva ricevere una lezione di calcio da quello che De Rossi considera uno dei suoi maestri, Roberto De Zerbi, anche se ha appena quattro anni più di lui: perché De Rossi non è uno che ha paura di “ricevere lezioni” e, quindi, di imparare, anche da chi è suo coetaneo o, perché no, più giovane. E invece la Roma ha vinto e pure bene, con il Brighton, giocando una delle sue partite più più belle degli ultimi anni, facendo 4 gol in casa senza prenderne. Rischiando di prenderne, certo, temendo di prenderne troppo presto al ritorno, anche, ma facendola, superando brillantemente anche quello scoglio.Poteva, De Rossi, perdere un po’ dell’entusiasmo che Mourinho aveva creato, spezzare l’ipnosi che portava i tifosi allo stadio indipendentemente dalla partita. E invece ha riempito l’Olimpico anche lui. Poteva, infine, perdere il quarto derby negli ultimi cinque (l’altro è stato un pareggio). Non sarebbe stato neanche così assurdo, in fin dei conti, la Roma ne aveva vinti solo due degli ultimi undici, dal marzo 2019. Non aveva segnato in un derby dal marzo 2022, due anni pieni, quattro partite in cui i tifosi avversari, i rivali cittadini, non avevano provato neanche un dispiacere piccolo, non erano mai andati sotto, non erano mai stati rimontati. Nell’ultimo derby la Roma aveva calciato in porta per la prima volta a quattro minuti dalla fine. E invece la Roma lo ha vinto, questo derby. Per una volta, è stata la Lazio a perdere la testa e tempo prezioso correndo dietro alle provocazioni, cercandole forse per dimenticare quanto faccia davvero male perdere questo tipo di partite. La Roma veniva, come detto, dalla sua partita peggiore degli ultimi mesi. De Rossi stesso aveva perso per un attimo il suo stile, protestando per un rigore di cui lui stesso metteva in dubbio la giustizia («A me piace un calcio dove episodi così non sono rigore»), lui che non aveva mai parlato di arbitri o episodi arbitrali fin lì. Forse un po’ di nervosismo stava attecchendo anche in quella sua maschera sofferta e stoica, di chi ne ha passate molte ma in fondo sa che le cose possono sempre andare peggio. Il confronto tra Mourinho e De Rossi non ha senso se non sul piano simbolico. È straordinario che la Roma sia passata da un allenatore in grado di concentrare così tanto senso in una storia di così pochi anni ad un allenatore che il senso se lo porta dietro proprio dagli anni che ha passato nella storia della Roma. Quando De Rossi è arrivato la prima e unica paura era che potesse, come si dice, bruciarsi. Che potesse, cioè, consumare il senso stesso della sua storia in poco tempo. Questo era quello che di peggio poteva succedere e che, invece, non è ancora successo. E che forse, passato questo derby, non succederà più. Non è una cosa che dipende solo dai risultati ma, appunto, dal senso di quei risultati e di quelle partite. La Roma può uscire dall’Europa League tra pochi giorni, contro un’altra rivale storica come il Milan, potrà persino mancare la qualificazione alla Champions League, l’obiettivo che De Rossi aveva in testa quando ha accettato l’incarico. Ma il senso di De Rossi si è intuito ieri, nella cornice di questo suo primo derby.Il senso, per gente come De Rossi e come i romanisti, che non hanno vinto molto e difficilmente vedranno la propria squadra vincere molto, sta proprio in quell’intreccio di date, nomi, ricordi felici, ricordi tristi, speranze, paure che una squadra suscita nei propri tifosi. Questo genere di cose, per questo genere di giocatori, allenatori e tifoserie, fa la differenza. Non mi spingerò a dire che vale quanto una finale vinta ai rigori anziché persa, ma di sicuro è la cosa migliore con cui consolarsi dopo una finale persa ai rigori.In questo derby giocato il 6 aprile 2024, giocato cioè appena due giorni prima quello che sarebbe stato il settantesimo compleanno di Agostino Di Bartolomei, la Tribuna Tevere - illuminata dal sole nel cerchio d’ombra della copertura dell’Olimpico - si è colorata in una coreografia che rappresentava lo stesso Di Bartolomei nell’atto di calciare un pallone infuocato. Un’immagine che ha un titolo implicito, pensato all’unisono da tutti i tifosi romanisti nel momento stesso in cui l’hanno vista, e quel titolo è: “Ago tira la bomba”. Tra due mesi, ricorrerà il trentesimo anniversario della morte di Agostino Di Bartolomei, che poi è anche il quarantesimo di una partita di calcio, di una finale di Coppa Campioni persa in casa, ai rigori. Quella coreografia dimostra che, oggi, nei cuori dei tifosi, quella partita di calcio è meno importante di uno degli uomini che l’ha giocata. E se la Roma avesse battuto il Liverpool non sarebbe cambiato poi molto, quei due ricordi, Agostino e la coppa, sarebbero andati a braccetto. Per tifoserie come quella della Roma, gli uomini vengono prima delle coppe. Certo, non tutti gli uomini. Daniele De Rossi, indipendentemente da come proseguirà la stagione, indipendentemente dalla strada che prenderà la sua carriera da allenatore, è uno di quegli uomini lì. Magari - per forza di cosa - ci sarà un giorno una Roma tifata da romanisti che non hanno mai visto Agostino Di Bartolomei. Magari, prima o poi, ci sarà persino una Roma di romanisti che non hanno visto giocare De Rossi. Ma oggi, questa, è ancora la Roma di chi ha visto sia Di Bartolomei che De Rossi. E tra i due riesce a disegnare una linea immaginaria che li collega, intrecciata a moltissime altre storie di derby vinti e persi, stagioni complicate in cui si cambia allenatore in corsa, date e nomi trascurabili ma che non passano mai, anche se alcuni nomi sono più importanti di altri.

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