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Cosimo Rubino
Cosa ha rappresentato Mourinho per i romanisti
10 feb 2024
10 feb 2024
Un'esperienza collettiva in un mondo individualista.
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Cosimo Rubino
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Poco dopo l’annuncio del suo esonero, dietro al finestrino abbassato di una macchina scura, trattiene a stento le lacrime, inseguito dai tifosi. La sera del giorno successivo posta sul suo profilo Instagram un video in cui ripercorre le tappe dell’avventura sulla panchina della Roma con in sottofondo il brano Now we are free, dalla colonna sonora del Gladiatore. La didascalia recita: “Sudore, sangue, lacrime, allegria, tristezza, amoR, fratelli, storia, cuore, eternità”. Hanno l’aria di essere le sue ultime parole — e ufficialmente lo sono — ma in una città avvolta da un tepore quasi inquietante, le testimonianze di avvistamenti si moltiplicano e non distano più di un paio di gradi di separazione da ciascuno. Sui social circola la lettera di un bambino di 7 anni: «Mi hai regalato 1000 emozioni, mi dispiace che non sei più il nostro allenatore. Non sarà più la stessa cosa andare allo stadio senza di te». Un mio amico mi gira su Whatsapp la foto di uno dei manifesti di ringraziamento apparsi in città: un pennarello nero ha scritto: «Sono io che devo dire GRAZIE A VOI». Cuore, firma. Un forte vento ha favorito l’innesco della bassa pressione, sabato c’è un sole corposo, ma fa improvvisamente molto freddo. Stiamo tutti andando allo stadio, confusi. Si sparge la voce che è a via del Corso, i giornali rilanciano una storia Instagram di un tifoso. L’unica dichiarazione riportata è un: «Vi voglio bene». C’è uno Squarcio di luce, / Nei Pomeriggi d’inverno – / Che opprime, come il Peso / D’una Melodia di Cattedrale – dice una poesia di Emily Dickinson. La melodia della messa vespertina di una chiesa barocca a via del Corso. Lo squarcio di luce si richiude su Piazza del Popolo. Dietro la Porta, ci si affretta per non perdere il tram che porta nei pressi dell’Olimpico.

***

Emiliano Battazzi, poco dopo l’annuncio di José Mourinho come nuovo allenatore della Roma, individuava il cesarismo giallorosso come una via a lungo invocata dall’ambiente e perfetta per le caratteristiche del tecnico portoghese: «Per la Treccani, il cesarismo è un “Regime politico autoritario basato sul potere di un uomo ‘forte’, in genere appoggiato dalle forze armate e dotato di consenso popolare (comunque sollecitato e ottenuto), perché dotato di carisma e capace di porre termine a una situazione di disordine e di conflitto sociale e politico”. Nessuna definizione si adatta meglio alla situazione attuale della Roma: basta sostituire politico con calcistico, e forze armate con giocatori.» Due anni e mezzo dopo serve soltanto un piccolo aggiustamento per descrivere perfettamente l’esperienza della Roma di Mourinho, basta integrare il concetto di cesarismo con la sua versione moderna: il bonapartismo. Un regime plebiscitario, che si riafferma nel bagno di folla di ognuna delle 71 partite giocate in casa (a cui andrebbero aggiunte le due partite giocate a Tirana e a Budapest, con un Olimpico comunque tutto esaurito). E ancora: come Bonaparte allarga la base del suo esercito (e quindi del suo consenso) grazie alla coscrizione, Mourinho, non trovando nella rosa materiale umano e tecnico sufficiente per farne la sua armata, arruola un’intera tifoseria. L’Armée Impériale, tra il 1805 e il 1813, ha contato su 2.175.335 uomini, un numero solo di poco superiore ai tifosi presenti all’Olimpico giallorosso nel 2023. Nessuno di questi però era coscritto.Il giudizio sull’esperienza di Mourinho alla Roma non può prescindere da questo bivio sostanziale: chi sta dentro e chi sta fuori, chi può capire e chi non può capire. O più sommariamente: chi c’è stato e chi non c’è stato. Mi rendo conto che è un argomento antico e a prima vista spicciolo, da neogenitore, da consumatore di psichedelici, da reduce, appunto. Chi non c’è stato non può che vedere la più bassa media-punti tra gli allenatori con almeno 50 gare alla guida dei giallorossi nell'era dei tre punti a vittoria. Trova incomprensibile, persino fastidioso, l’irriducibile attaccamento di molti tifosi romanisti. Non senza una certa supponenza, il mondo esterno porta la severità dei numeri, l’evidenza di un calcio spesso inefficace e quasi sempre sgraziato, l’obsolescenza di un comunicatore che non appena perde il supporto dei risultati scade nel patetico. Dare loro torto su un piano razionale non è solo complicato — sebbene vi sarebbero alcuni argomenti — è inutile.Chi c’è stato fa fatica a spiegarsi. La commozione, la confusione, la rabbia che per la prima volta ampi settori del tifo romanista hanno rivolto alla proprietà Friedkin: sono le esternazioni di chi sa che è finita un’esperienza irripetibile. Anch’io faccio fatica a spiegarmi, come un innamorato ho paura di risultare ridicolo (Le lettere d’amore, se c’è amore, / Devono essere / Ridicole – scrive Fernando Pessoa nella lingua della saudade, la stessa di Setúbal e delle conferenze stampa polemiche). L’avevamo capito subito che non sarebbe stata come tutte le altre volte: non tanto dalla presentazione: «Prima di tutto devo ringraziare i tifosi della Roma per l’accoglienza. Non ho ancora fatto nulla per meritarmela e mi sono sentito subito in debito con loro». Tutti ci dicevano: è il solito paraculo, noi eravamo guardinghi ma sorridenti. Ma dalla corsa sotto la Sud dopo il gol allo scadere di El Shaarawy contro il Sassuolo non c'è stata ragione. Era settembre, la Roma aveva vinto le prime tre partite di campionato, c’era il profumo dolce della possibilità: come si poteva non abbandonarsi? Quel profumo non ci ha più lasciato. Non mi avrebbe stupito se all’aeroporto ci fosse stato un cartello giallo con una scritta nera: con te se ne parte la primavera. L’avevamo assaporata con le semifinali di Champions (2018) ed Europa League (2021), ma ci sentivamo dei parvenu e la nostra convinzione doveva essere quantomeno fondata, considerando che ne abbiamo presi cinque a Liverpool e sei a Manchester. Squadre di quel calibro non ne abbiamo più affrontate, è vero, ma non le avremmo temute, perché la sensazione di invincibilità di questi due anni di notti europee prescindeva dal tenore degli avversari. Neanche nelle partite più tese dal punto di vista ambientale, come quella contro il Bodø ai quarti di Conference o quella contro il Feyenoord ai quarti di Europa League, la pesantezza del fattore campo si basava su un clima intimidatorio. La sensazione è che gli avversari fossero semplicemente impreparati, storditi, da una manifestazione di passione così tonante. Al solito tifo eccezionale della Curva Sud si è aggiunto un supporto vibrante degli altri settori dello stadio e il fattore campo è diventato sproporzionato per effetto del moltiplicatore μ (che in ambito scientifico suona proprio come Mou). La Roma di José Mourinho ha superato tutti e otto i doppi scontri a eliminazione diretta che ha giocato in Europa. Decine di migliaia di persone con una comunione di intenti così potente — semplicemente a me, come immagino a molti, soprattutto fra i più giovani, non era mai capitato prima di viverlo in prima persona. La Roma di Mou è stata un'esperienza collettiva in un mondo individualista, una convinzione ideologica in un mondo post-ideologico. Nel pieno della crisi del concetto di rappresentanza, ne è stata esempio perfetto: una Roma mediocre, scontrosa, a tratti violenta, confusionaria, drammatica, resiliente, gagliarda, orgogliosa: come noi. Abbiamo imparato a conoscere i volti dei collaboratori tecnici come quelli di amici a cui parte la brocca, che sono buoni e cari ma certe volte non si regolano. Abbiamo visto uno degli allenatori più vincenti della storia del gioco arrampicarsi sulla balaustra dell’Olimpico per continuare a dare indicazioni alla squadra dopo un'espulsione e poi lo abbiamo visto aspettare un arbitro nel parcheggio dello stadio. Tutti intorno a noi dicevano che non può permettersi di fare una cosa del genere, che comportarsi così esaspera gli animi, che ci vuole rispetto per le istituzioni. Noi eravamo negli autogrill, nei gate degli aeroporti di mezza Europa, le facce sfigurate dalla stanchezza e dalla delusione, guardavamo quel video e pensavamo che prima di tutto ci volesse rispetto per noi. Alcuni striscioni apparsi in ogni settore dell’Olimpico durante Roma-Verona recitavano: "Unico a difenderci, ultimo ad arrendersi”; “È stato un privilegio averti dalla nostra parte”; “Ci hai difeso contro tutto e tutti. Roma non dimentica”. Davanti a una così profonda fusione, cosa volete che ce ne importasse della qualità del gioco? Bisogna intendersi: ciascuno di noi parlava ogni giorno dei limiti tecnici della rosa, dei problemi di finalizzazione prima e di creazione poi, tutti ci siamo imbestialiti per il modo osceno di giocare gli ultimi derby, tutti eravamo logorati dalla frequente diffidenza della squadra con la palla tra i piedi. Si poteva giocare meglio? Di sicuro. Si poteva giocare meglio con questa rosa? È molto probabile, e le prime partite di De Rossi hanno offerto se non altro segnali di novità. Ma chi ha vissuto fino in fondo l’esperienza di questi due anni e mezzo, semplicemente non era disposto a scambiarla con una migliore qualità del gioco. Nel settore ospiti di Leverkusen, nella partita più radicale in assoluto di questa Roma, risuonava come un mantra: Anche se poi giochi male / Noi saremo qui a cantare.Non si tratta di vincere o perdere, neanche di gusti estetici sul calcio. Io credo si tratti della ragione ultima per cui seguiamo il gioco. Quest’intensità ha arricchito l’esistenza di chi l’ha vissuta. È una cosa rara, preziosa, di cui saremo gelosi per sempre.È opinione comune che sia stato un errore non separarsi dopo Budapest e di nuovo: su un piano razionale era un'opinione condivisibile allora e lo è a maggior ragione adesso. La verità è che, come in una canzone di Truppi, per vivere facciamo tante cose stupide. Avevamo bisogno di allontanare i pensieri di morte, ci eravamo appena qualificati alla successiva Europa League con un rigore di Dybala al 91'. Mourinho, che come al solito era squalificato, è sceso in campo e ci ha detto: resto qui. È stato un balsamo per la nostra tristezza. C’era un ultimo giro di giostra da fare, ce lo meritavamo tutti, per meriti insigni.

***

Sempre durante la conferenza stampa di presentazione, Mou aveva sfoderato la sua prima citazione romana, direttamente da Marco Aurelio: «Nulla viene dal nulla e nulla ritorna nel nulla». Ai romanisti sta l’onere di non disperdere questo patrimonio emotivo, un compito agevolato notevolmente dalla presenza sulla panchina giallorossa di una leggenda come Daniele De Rossi. Alla fine della partita vinta contro il Verona, i tifosi hanno riservato perlopiù fischi ai calciatori che su impulso del nuovo allenatore si sono presentati sotto la Sud. Spontaneo è partito il classico coro: Solo la maglia / tifiamo solo la maglia. Credo che in questa caso sia una metonimia particolarmente simbolica: la maglia è l’emblema di un qualcosa di più grande, che non comprende i giocatori, ma annovera le bandiere. Tra queste c’è senza dubbio quella di De Rossi, una delle più grandi in assoluto. Ai posteri l’ardua sentenza sulla candidatura di José Mourinho al pantheon del romanismo. D’altra parte, a corollario di quell’amoR che lui stesso ha scritto così per identificare i concetti di amore e Roma, c’è un dogma: la Roma ha la Roma come solo argomento.Nel frattempo, per giorni ai piedi di un hotel sul Gianicolo una folla commossa ha sfilato per un ultimo saluto. Un articolo del Corriere dello Sport riporta: «José ha avuto una buona parola per tutti, ha fatto foto, ha firmato maglie e quadri, striscioni e cappelli, stendardi e bandiere. Si è commosso, soprattutto quando ha visto piccoli e piccole romanisti accompagnati dai genitori. Tutti lo hanno ringraziato, a tutti ha detto la stessa cosa: "Grazie a voi"». A chi non c’è stato sembra la scena di un film di Nanni Moretti su questi giorni sospesi e un po’ patetici tra l’esonero e la partenza. D’altra parte il primo simbolo della Roma mourinhana è stata la vespa, simbolo per eccellenza della Roma morettiana.Ma a chi c’è stato sembra la scena dell’addio di Napoleone alla Vecchia Guardia a Fontainebleau, dipinta da Horace Vernet: l’Imperatore, giunto alla fine della sua parabola, tradito dai più stanchi e arrivisti dei marescialli, saluta i suoi soldati, gli unici che gli sono restati fedeli al tempo delle gloriose campagne europee come al tempo dell’abdicazione forzata: «In questi ultimi tempi, come nell’epoca della nostra grandezza, siete sempre stati esempio di coraggio e fedeltà. Con uomini come voi, la nostra causa non sarebbe stata perduta. (...) Addio, amici miei! Vorrei potervi stringere tutti al mio petto.»

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