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Dario Saltari
Lorenzo Pellegrini, quale capitano
29 feb 2024
29 feb 2024
Il numero 7 della Roma è rinato con l'arrivo di De Rossi, un'altra volta.
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Dario Saltari
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IMAGO / Nicolo Campo
(foto) IMAGO / Nicolo Campo
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La foto dell’investitura lo vede indossare una strana tuta bianca. Totti gli è appena passato accanto per entrare in campo per il riscaldamento e Pellegrini sulla pista d’atletica sembra un chierichetto che aspetta istruzioni dal prete la domenica mattina. Le mani intrecciate dietro la schiena. Lo sguardo che segue il passaggio del Capitano, vagamente assente.

“La foto del destino”, come la chiama la Repubblica, è spuntata nel settembre del 2021, dopo un gol al CSKA in Conference League, l’ennesimo che sembrava annunciare una rinascita. “Stop al limite dell’area, pallonetto che beffa il portiere e Olimpico in delirio per la rinascita di un giocatore che si era un po’ perso e rabbuiato nei due anni precedenti”. Non era passato molto tempo da quando José Mourinho aveva dichiarato che «se avessi tre Pellegrini, li farei giocare tutti e tre». Il capitano della Roma sembrava appena aver salito lo scalino che lo divideva dai migliori giocatori del campionato, grazie al suo nuovo allenatore. «C'è qualcosa di speciale che si avverte e che probabilmente non c'è mai stato a Trigoria da quando sono tornato», aveva detto dopo quel turno di Conference League, solo pochi giorni prima dell’assist decisivo per Smalling in una vittoria contro l’Inter di Inzaghi a San Siro che oggi sembra fantascienza.

Quella stagione, la 2021/22, si concluderà con il record realizzativo personale (13 gol e 7 assist in tutte le competizioni) e soprattutto la vittoria da capitano del primo trofeo europeo della Roma dopo 61 anni. Sembrava arrivato il momento del definitivo riconoscimento della sua centralità tecnica e carismatica all’interno della Roma, dopo alcune stagioni in cui più che un capitano era sembrato un reggente. «Sono contento perché sento questa squadra mia», aveva dichiarato ancora prima di giocare la finale di Tirana. Un anno prima, nell’ombra, Pellegrini aveva forzato i tempi di recupero per giocare, e vincere, un derby alla penultima giornata di campionato che risulterà decisivo ai fini del settimo posto senza il quale il percorso in Conference League non sarebbe nemmeno cominciato. In quel derby avrà una ricaduta muscolare che lo costringerà a saltare l’Europeo, che avrebbe potuto regalargli un trofeo con un anno d’anticipo. Una dedizione alla causa silenziosa che gli viene riconosciuta da pochi, e che anzi nei suoi momenti di forma peggiori gli è stata addirittura rinfacciata sotto forma di meme, quello di giocatore che per via della sua fragilità fisica è costretto perennemente a stringere i denti. «La gente non sa o non capisce i sacrifici», ha dichiarato con una vena d’amarezza José Mourinho circa un anno fa, dopo che la Curva Sud lo aveva fischiato per una brutta prestazione contro l’Empoli.

Quella del 2022 poteva essere l’estate di Pellegrini e invece, come sappiamo, sarà l’estate di Dybala, della presentazione al Colosseo quadrato, dell’esigenza di trovare un posto sulla trequarti al genio. Il numero 7 continua ad essere percepito come un giocatore utile ma non imprescindibile, e se nella stagione 2021/22 era l’innesco delle lunghissime transizioni della Roma, con l’arrivo di Dybala sarà abbassato di diversi metri e relegato a un compito più prettamente difensivo, in una squadra che adesso - con anche l’epurazione di Zaniolo - per risalire il campo si affidava completamente alle capacità taumaturgiche del suo nuovo fantasista.

Pellegrini è sembrato accettare questo nuovo ruolo periferico senza risentimento, o questo è quello che si aspettava da lui il tifo giallorosso dopo l’arrivo di Dybala e lui ha mandato giù. D’altra parte la figura di Pellegrini, sia dentro che fuori dal campo, sembra fatta per far posto a qualcosa di più grande. Centrocampista né del tutto difensivo né del tutto offensivo, sprecato sulla mediana ma non così talentuoso da monopolizzare la trequarti, Pellegrini aspira a essere un giocatore totalefallendo nel tentativo, riprovandoci e fallendo meglio la volta successiva, ogni volta accumulando un pizzico di risentimento in più verso chi nel frattempo continua a dire che tanto non sarà mai all’altezza. «Tutti mi dicono che non so battere le punizioni, io continuo ad allenarmi e a migliorarmi, è quello che fa tutta la squadra… prima o poi riusciremo in quello che proviamo», ha detto a caldo dopo il suo primo gol su punizione a Cagliari, alla fine di ottobre del 2021, in un momento in cui i suoi continui tentativi sulla barriera o in curva erano a loro volta diventati un meme.

Pellegrini con la barba rossiccia, che sembra finta, appiccicata alla sua faccia da bambino che si traveste da adulto. Che non ha il sorriso piacione e la battuta pronta di Francesco Totti, o il volto deformato dall’amore pazzo e viscerale di Daniele De Rossi. Che ha la fragilità di Dybala ma non il suo talento, che non deve essere preservato ma che si sente costretto a giocare sul dolore. Pellegrini che cerca di sottolineare l’importanza del lavoro quotidiano in una città in cui non interessa quasi a nessuno, e che allo stesso tempo non riesce a nascondere il fastidio per il fatto che queste piccole qualità non gli vengano riconosciute. «Non si dice mai [corsivo mio] che io sono un lavoratore, che non lascia niente al caso, che entra qui a Trigoria e sa che deve lavorare, che deve farlo per se stesso e anche dare l’esempio agli altri», ha detto con una certa pedanteria in un’intervista lunga realizzata da DAZN.

Chi difende Pellegrini lo fa mettendo le mani avanti. “Anche se non ha la classe cristallina di Totti (ma chi ce l'ha nella Roma? Dybala a parte...) e la vena di De Rossi (ma chi ce l'ha nella Roma?)”, ha dovuto premettere per esempio Chiara Zucchelli sul Corriere dello Sport prima di scrivere che quei fischi contro l’Empoli erano ingiusti. Di questo ci dobbiamo accontentare adesso, sembra dire anche chi è dalla sua parte.

È per questo, più che per la prestazione in sé, che hanno fatto un certo rumore le parole di Arne Slot dopo la vittoria ai rigori contro il Feyenoord, mentre il mondo giallorosso celebrava l’affermazione di Mile Svilar: «Nel calcio esistono i campioni: l'altra volta Dybala ha fatto la differenza, oggi l’ha fatta Pellegrini». La parola campione accanto al suo nome, il fatto che venisse inserito in un discorso che includeva anche Dybala, ha fatto trasalire in molti: e se avessimo sottovalutato la sua grandezza solo perché ce l’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni? È stato come ricevere dei complimenti per quel maglione che abbiamo messo per sbaglio, dopo averlo dimenticato per mesi in fondo all’armadio.

Con il bellissimo gol al Feyenoord, che ha chiuso un periodo in cui ha messo a segno quattro reti e tre assist in sei partite, per Pellegrini si è tornato a parlare di rinascita dopo un lungo periodo di appannamento, come se la sua storia tornasse sempre ciclicamente allo stesso punto di partenza.

Fino a quel momento la sua stagione era stata oggettivamente terribile. Una continua sequela di infortuni che gli aveva fatto disputare da titolare appena otto partite in campionato, un apporto realizzativo praticamente nullo, una serie di rumori sulla sua vita privata a dir poco grotteschi. Soprattutto, c’era il rapporto sempre più incrinato con José Mourinho, o forse sarebbe meglio dire che la distanza tra l’allenatore portoghese e la squadra in quest’ultima stagione era stata proiettata sul loro rapporto, e non è un caso. Il 30 novembre, dopo un deludente pareggio fuori casa col Servette, Mourinho aveva dichiarato che «c’è gente che gioca queste partite in modo superficiale» e in molti (tra cui Fan Page) avevano pensato che tra questa gente ci dovesse essere Pellegrini. «Purtroppo c’è solo un Cristante, se fossero quattro giocherebbero tutti», aveva detto l’allenatore portoghese nello stesso giro di interviste post-partita, ed è difficile pensare che un genio della manipolazione verbale come lui non abbia pensato nemmeno per un attimo a ciò che aveva detto sul suo capitano, che in campo invece ne avrebbe messi solo tre.

Poi c’è la storia impossibile da confermare sull’anello celebrativo della Conference League lasciato da Mourinho al suo addio nell’armadietto di Pellegrini, che lo farà passare per traditore. In quei giorni qualcuno appenderà fuori Trigoria lo striscione “Pellegrini ‘anello’ debole”, che al di là dell’immediato riferimento (incorniciato dalle virgolette, se qualcuno non avesse capito) esprime un’insoddisfazione più profonda sulla legittimità di Pellegrini in quanto capitano. Come in tutte le successioni dinastiche, anche se è il sangue a regolarne il passaggio di mano (in questo caso si è “figli di Roma”, come recitava una celebre coreografia della Curva Sud qualche anno fa), è l’autorevolezza e il consenso a determinare la stabilità del potere. Quello striscione certifica invece la percezione di Pellegrini come giocatore inaffidabile, capriccioso, capace di sabotare i risultati di una squadra pur di allontanare un allenatore indesiderato. Esattamente il contrario, cioè, di ciò che ci si aspetta da un capitano a Roma.

Se De Rossi era “capitan futuro” - un futuro che nei fatti non è arrivato mai - Pellegrini forse potrebbe essere chiamato “capitan nonostante” - nonostante cioè le molte cose che lo rendono indigesto a una fetta consistente del tifo giallorosso. Nonostante i complimenti dei nemici (Arne Slot) e le amicizie con i traditori (Nicolò Zaniolo), nonostante la scelta voluta e ottenuta di fare un periodo di apprendistato a Sassuolo - momento speculare al gran rifiuto di Totti di andare in prestito alla Sampdoria, con conseguente epurazione di Carlos Bianchi per averlo solo proposto. Capitano nonostante un talento imparagonabile a quello del suo predecessore, e privo della sensualità di quello di Giuseppe Giannini, a cui pure nei primi anni della sua carriera era stato accostato con il soprannome “Principino”.

Nella stessa intervista a DAZN citata sopra, Lorenzo Pellegrini a un certo punto dice che «quello che mi piaceva di Francesco [Totti, ndr] è che quando si entrava in campo… lì non si parla». Probabilmente intendeva che Totti preferiva far parlare il campo, come si dice, anche se in realtà ha sempre avuto un talento nel portare le persone dalla sua parte anche fuori. Ma ciò che è più interessante è che se “far parlare il campo” per Totti significava segnare un gol in una partita in bilico, o tagliare il campo a metà con un cambio di gioco spalle alla porta, per Pellegrini significa corsa, sudore, sacrificio. Se per Totti era il talento a non poter essere messo in discussione, mentre sulla pigrizia non tutti potevano metterci la mano sul fuoco, per Pellegrini è esattamente il contrario. E le due cose sono evidentemente collegate.

L’ironia qui è che, osservando una qualsiasi partita di Pellegrini, è evidente che sia una persona cresciuta vedendo e rivedendo i video del Capitano. I lanci a mandare il compagno in porta dietro la linea del centrocampo non mentono, e forse la cosa più significativa di tutto questo discorso è che a Pellegrini riescono anche piuttosto bene.

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Alla fine la scena se l'è presa la pesantezza di Lukaku, ma quanti altri giocatori in Serie A avrebbero saputo metterlo in porta da quella posizione?

Persino in una stagione in gran parte negativa, in cui ha giocato relativamente poco, e in cui il suo raggio d’azione è stato abbassato, Pellegrini rimane uno dei principali fulcri creativi della Roma. Il terzo giocatore della squadra per passaggi chiave (1,70 per 90 minuti, dati StatsBomb), il terzo per passaggi filtranti (0,28), il quarto per xG assisted (0,13, a pari merito con Dybala). Sono dati più o meno simili a quelli delle stagioni precedenti con Mourinho (se si escludono quelli sui tiri e sugli xG della forse irripetibile stagione 2021-22), e che presumibilmente tenderanno ad aumentare, ora che De Rossi gli ha concesso maggiore libertà offensiva.

La metamorfosi della Roma con il suo nuovo allenatore è girata anche intorno alla ricostruzione sulla trequarti della connessione tra i suoi due giocatori più creativi, cioè Dybala e Pellegrini. Il primo accentrandosi dalla posizione nominale di ala destra, il secondo alzandosi tra le linee da quella di mezzala sinistra, insieme vengono al centro della trequarti per combinare con Lukaku o provare a concludere da fuori area. Insieme al movimento ad allargarsi di El Shaarawy e alla salita del terzino destro, l’attrazione magnetica tra Dybala e Pellegrini è ciò che trasforma il 4-3-3 teorico della Roma in un più fattuale 3-4-2-1 in fase di attacco posizionale. (Il Torino, nell’ultima partita di campionato, è riuscita a mettere in difficoltà la Roma proprio rompendo questa connessione, spingendo Pellegrini sull’esterno con la posizione piuttosto alta ed aggressiva senza palla di Djidji, e costringendolo a preoccuparsi di ciò che accadeva alle sue spalle attraverso le ricezioni tra le linee sul suo lato di Vlasic).

Quando la palla è persa e bisogna correre all’indietro, però, il giocatore che deve ripiegare e difendere sotto la linea della palla non è certo Dybala ma Pellegrini. D’altra parte, nonostante la fascia da capitano, nonostante l’indiscutibile ruolo di creatore di gioco della Roma, Pellegrini gioca come se il suo posto se lo dovesse guadagnare ogni singola partita. La sua postura del corpo è tesa, pronta allo scatto, la corsa sulle punte, il disappunto per una giocata sbagliata non lo ferma mai da recuperare la sua posizione correndo all’indietro. Gli verrebbe perdonato tutto il resto senza la corsa, il sudore, il sacrificio?

I suoi numeri difensivi da questo punto di vista sono ancora più impressionanti di quelli offensivi. Tra i centrocampisti della Serie A con almeno mille minuti di gioco, Pellegrini è secondo sia per contrasti che per intercetti aggiustati al possesso, rispettivamente dietro a Bove e Anguissa, ed è nella top 10 di quelli che effettuano più pressioni aggiustate per possesso. A parte Luis Alberto e Mkhitaryan, il tipo di centrocampista che appare in questa classifica è molto diverso da quello a cui lo assoceremmo: Bove, Anguissa, Cristante, Rafia, Musa, Barella.

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Una delle tantissime corse all'indietro che compongono le partite di Pellegrini, qui tra l'altro su una palla persa proprio da Dybala.

Nella conferenza stampa d’addio alla Roma nella sede del CONI, Totti ha avuto parole anche per Pellegrini, a cui dice di «aver promesso tante cose». Di fronte al verbo criptico della divinità che lascia il mondo, il numero 7 della Roma ha dato la sua interpretazione: «Le promesse a cui si riferisce non penso siano fare 100 gol all’anno o vincere un milione di trofei, ma siano di venire qui tutti i giorni e sapere di avere la responsabilità di meritarsi quello che si ha». Magari pecco di supponenza, ma credo che Pellegrini stesse parlando di se stesso più che di Totti, che è difficile immaginarsi sotto il peso della responsabilità di doversi meritare qualcosa. «Francesco è Francesco»: come ha detto lo stesso Pellegrini. Totti non ha bisogno di essere giustificato, è evidente con la sua stessa esistenza il perché della fascia, il perché del numero 10.

Pellegrini, che nel discorso sulla possibile successione della numero 10 nel frattempo è stato sorpassato da Dybala, questo lusso non se lo può permettere, e anche se ne fosse consapevole non è detto che ci sia venuto a patti. Le mani dietro le orecchie rivolte verso i suoi tifosi, la rabbia dopo aver segnato, anzi, sembrano suggerire il contrario.

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