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Guardiola ha reso normale l'eccezionale
23 mag 2022
23 mag 2022
Per il City è il quarto titolo in cinque anni nel campionato più difficile al mondo.
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Il romantico dirà che è vera magia, il cinico che è una profezia che si avvera da sola. Il risultato non cambia: pochi sport come il calcio sono in grado di ripetere la propria storia, creare parallelismi, dare l’impressione di far parte di qualcosa di più grande con tale inquietante precisione. Non stupisce che così tanti calciatori credano in buona fede nel destino.


 

Insomma, quante probabilità c’erano che a dieci anni esatti da quel gol di Agüero, nella stagione del suo tristissimo ritiro, il Manchester City vivesse un finale di stagione quasi identico? Anzi, esattamente identico nel risultato (3-2 contro l’Aston Villa, come in quell’ultima partita contro il QPR), nel minutaggio di alcuni gol (69esimo lo 0-2 di Coutinho ieri, 66esimo l’1-2 di Mackie dieci anni fa), nella porta in cui è stato segnato il decisivo 3-2 (sì esatto, la stessa in cui segnò Agüerooo e se è per questo anche la stessa in cui segnò Kompany l’altro gol scudetto che valse il titolo nella stagione 2018/19: l’aspetto incredibile di questa vicenda è che, secondo The Athletic, era la prima volta in questa stagione che il Manchester City attaccasse quella porta nel secondo tempo all’Etihad), addirittura nella dinamica di alcuni gol (andatevi a rivedere lo 0-1 di Matty Cash e l’1-2 di Mackie).


 

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Poi c’erano le coincidenze anche per l’altra parte in gioco, il Liverpool. Il fatto che sulla panchina dell’Aston Villa ci fosse Steven Gerrard, quello Steven Gerrard che otto anni fa fece scivolare via il titolo dalle mani del Liverpool nei confronti del quale probabilmente prova un rimorso che ieri forse sentiva di poter finalmente cancellare. Il fatto che per l’Aston Villa giocasse Coutinho, in campo in quel maledetto giorno di aprile ad Anfield. Che abbia segnato lo 0-2 che ieri, per almeno una decina di minuti, ha dato l’impressione o l’illusione che un’incredibile vendetta postuma stesse per compiersi. Quante altre coincidenze possiamo mettere in fila ancora e avere comunque l’impressione di non aver dipanato del tutto il significato di quest’ultima giornata di Premier League, avvincente come la migliore delle serie HBO?


 

Forse è davvero l’ossessione di questo sport per l’almanacco, per la ricorrenza, a creare uno strato invisibile e inconscio della realtà, che porta gli allenatori e i giocatori a ripercorrere fedelmente le orme del passato. Forse lo si poteva intuire già durante la partita, quando Gerrard all’83esimo ha provato l’ultima disperata mossa per ribaltare una partita già ribaltata, togliendo Jacob Ramsey e mettendo Danny Ings, l’attaccante su cui il Liverpool puntò un anno dopo il titolo perso per provare a invertire una storia che stava già cambiando pagina. Esattamente quattro mesi dopo Ings a Liverpool arrivò Jurgen Klopp, che fece entrare il club in nuova era fatta di successi e trofei, ma che di sicuro di non includeva il povero attaccante di Winchester.


 

Che quella di ieri più che magia fosse coazione a ripetere - la "tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze”, secondo Treccani - era però ancora più chiaro tirando fuori la testa dalla partita con l’Aston Villa e facendo mente locale sulla totalità di questa ultima stagione del Manchester City di Guardiola, completamente diversa - anzi, direi quasi opposta - a quella del Manchester City che vinse il titolo dieci anni fa con Roberto Mancini. Allora, infatti, il 3-2 contro il QPR arrivava a coronamento di un sorpasso clamoroso effettuato nelle ultime giornate ai danni della squadra dominante, il Manchester United di Ferguson, che si suicidò inspiegabilmente nelle settimane finali del campionato. Ieri, invece, la squadra dominante che si stava per suicidare era il Manchester City e il sorpasso clamoroso sarebbe stato del Liverpool. L’ultima giornata contro l’Aston Villa non avrebbe decretato se il Manchester City sarebbe incredibilmente riuscito a vincere questo titolo, com’è successo dieci anni fa, ma se incredibilmente fosse riuscito a perderlo. Dieci anni fa il Manchester City bussava alle porta dell’élite del calcio inglese vincendo un titolo a 44 anni dall’ultima volta, ieri concludeva un ciclo di quattro Premier League vinte negli ultimi cinque anni. Questo spiega perché le lacrime di Guardiola al fischio finale, così come le sue dichiarazioni sottilmente vendicative nel post-partita, più che della gioia abbiano il sapore del sollievo.


 



Era da dieci anni che non si vedeva l’allenatore catalano così cupo. Da quando cioè, dopo la guerra di logoramento con José Mourinho tra Barcellona e Madrid, scappò dalla Spagna, sfinito, per prendersi un anno sabbatico. Allora, però, c’era Mourinho e la sua insostenibile guerra mentale, per l’appunto, e il Barcellona aveva finito per andare in burnout perdendo la Liga a favore degli storici rivali. Quest’anno nulla di tutto questo. Certo, il Liverpool ha messo l’asticella della competizione talmente in alto da rendere la sfida per il titolo praticamente un campionato a parte, ma quest’ultima spettacolare giornata non dovrebbe trarci in inganno sull’irreale livello di dominio raggiunto dal Manchester City in questa stagione, di gran lunga superiore a quello che portò alla vittoria (anche quella volta per un punto) della Premier League nella stagione 2018/19 - quella del salvataggio di Stones sulla linea e del gol dalla distanza di Vincent Kompany.


 

All’inizio di quest’anno, con la boa del campionato già aggirata, la squadra di Guardiola aveva un vantaggio addirittura di 11 punti sul Liverpool, una squadra che, forse è bene ricordarlo, ha raggiunto la finale di Champions League per tre volte negli ultimi cinque anni. Quel vantaggio è stato dilapidato velocemente nella seconda parte di stagione, in cui il Manchester City ha puntato tutte le sue energie mentali per inseguire l’ossessione della Champions League, e nonostante questo ha avuto almeno due occasioni per vincere il campionato molto prima dell’ultima giornata. La prima, proprio contro il Liverpool, lo scorso 10 aprile, con Mahrez lanciato in porta da solo davanti ad Alisson all’ultimo secondo di una partita che finirà 2-2. In quell’occasione l’ala algerina tenterà un improbabile pallonetto che finirà diversi centimetri sopra la traversa. La seconda, poco più di una settimana fa. In casa del West Ham, il City va sotto 2-0, ma riesce clamorosamente a recuperare nel secondo tempo. All’86esimo il rigore che potrebbe chiudere il campionato, ancora sui piedi di Mahrez, che ancora una volta sbaglia. La riedizione del gol di Aguero da parte di Gundogan, insomma, il City l’ha cercata inconsciamente ma ostinatamente, come se volesse sentire cosa si prova a rischiare di perdere un campionato così - all’ultima giornata dopo averlo dominato per le restanti trentasette. Jamie Carragher, commentando il “braccino” del City, prima dell’ultima giornata sul Telegraph ha scritto che «a volte non puoi fare a meno di aver paura che stai combattendo contro il destino», ed è interessante che questo commento venga da lui, leggenda del Liverpool, che sicuramente stava anche un po’ gufando, o almeno provando a mettere pressione.


 

È interessante perché in un certo senso conferma le strane dichiarazioni di qualche settimana fa di Guardiola, mai come quest’anno sembrato in lotta ferocissima con i suoi demoni interiori, secondo cui «tutti in questo Paese [l’Inghilterra, ndr] tifano Liverpool [nella lotta per il titolo, ndr], compresi i media». Quando gli è stato chiesto di spiegare a cosa si riferisse, il tecnico catalano ha citato prima «l’incredibile storia nelle competizioni europee» del Liverpool, poi il fatto che, insieme al Manchester United, sia la squadra più importante «in termini di titoli, eredità, storia». «So che a volte siamo scomodi», ha concluso «ma non mi interessa. Se la gente vuole che il Liverpool vinca non è un problema: è normale». Forse Guardiola stava facendo “il Mourinho”, provando a creare una cultura dell’assedio dentro il suo spogliatoio per tirare fuori le ultime stille di energia mentale dai suoi giocatori. Ma, vista la quantità di fantasmi che ha agitato da solo in questa stagione, non è affatto escluso che abbia davvero interiorizzato ciò che ha scritto Jamie Carragher, che poi in modo più velenoso è ciò che dicono tutti i detrattori del Manchester City. E cioè che sia una squadra finta, senza storia di alto livello, che sta competendo per il dominio della Premier League solo grazie a trucchetti legali e a un enorme flusso di denaro. E che, nel fare questo, stia combattendo per l’appunto contro la storia, che in Inghilterra significa Liverpool e Manchester United, i due club destinati a vincere, perché è scritto nelle stelle o nel loro DNA, che poi alla fine è la stessa cosa.


 

Guardiola si è ritrovato a rispondere alle accuse rivolte al Manchester City all’inizio di maggio, dopo che un’inchiesta di Der Spiegel circa un mese prima aveva rilanciato il dubbio legittimo che, nonostante le sentenze del CAS, il Manchester City abbia violato le norme UEFA, a partire del Financial Fair Play, per avere a disposizione disponibilità finanziarie irraggiungibili per qualsiasi altro club. Il tecnico catalano ha dichiarato di aver parlato chiaramente con i suoi dirigenti della questione. «Gli ho detto: il giorno in cui scoprirò che mi state mentendo sarà quello in cui me ne vado e in cui non saremo più amici. Ma io gli credo al 100% ed è per questo motivo che difendo il mio club». È stata una difesa goffa, che di certo non ha convinto chi pensa che il Manchester City stia barando e che di conseguenza le sue vittorie non abbiano valore, e per di più è arrivata pochi giorni dopo l’incredibile eliminazione dalla Champions League contro il Real Madrid.


 

Per i suoi detrattori, ogni sconfitta è la conferma che Guardiola è un bluff. Ma quella sconfitta, per il modo in cui è arrivata, è sembrata davvero convincere tutti, compreso Guardiola stesso, che il destino si stesse vendicando contro di lui. Che ci sono partite e trofei che si possono vincere solo con la storia, con il blasone di squadre come il Real Madrid, e che il blasone non si può comprare. D’altra parte, esiste davvero una spiegazione razionale di ciò che è successo al Bernabeu la sera del 4 maggio?



Ieri, dopo l’incredibile vittoria contro l’Aston Villa e la premiazione da campioni d’Inghilterra, Guardiola è stato intervistato direttamente in campo, e in un’intervista di poco più di tre minuti ha ripetuto la parola “Madrid” per quattro volte. La barba imbiancata come un prato imperlato di rugiada invernale e le innumerevoli rughe sopra la fronte che raccontano la storia del suo esaurimento come gli anelli degli alberi. Guardiola ha risposto bruscamente quando gli è stato chiesto se il Manchester City riuscisse ancora a sorprenderlo. «No». «Quindi ti aspettavi di andare sotto 0-2 oggi?», chiede l’intervistatore un po’ stizzito. «Be’, non cambierò la mia opinione che oggi meritavamo di vincere [in base al risultato, ndr], come a Madrid. Lì abbiamo perso, ma non cambio idea perché ci è andata storta una partita per dei piccoli dettagli». Seguendo questa traccia di pensiero, Guardiola torna su quella partita anche dopo, rispondendo a una domanda su quanto fosse stato importante vincere questo campionato davanti al proprio pubblico. «Non dico che vincere la Premier League sia più o meno importante di vincere la Champions League, ma questo [guarda il campo, ndr] è più onesto, non è finto». Il punto di Guardiola è che in una maratona come il campionato vengono messi alla prova gli alti e i bassi di tutte le squadre, gli infortuni, le squalifiche, ed è anche un discorso teoricamente condivisibile, se non fosse che l’obbligo di vincerlo sembra ormai essere anche nella sua testa l’unico metro per misurare il suo valore. Se ieri Gundogan avesse clamorosamente sbagliato sulla linea uno dei suoi due gol, o se si fosse infortunato prima di questa partita, o se Watkins non si fosse divorato le due palle gol che avrebbero permesso di segnare il secondo gol ancora prima della rete di Coutinho, questi dettagli avrebbero davvero cambiato il valore di Guardiola come allenatore? Con un’altra dichiarazione rivelativa, il tecnico catalano ha lodato i suoi giocatori definendoli “eterni”: «Questi ragazzi sono già leggende, mi dispiace». Poi ha aggiunto: «[Adesso, ndr] La gente deve ammetterlo», come se questa vittoria potesse davvero chiudere definitivamente la discussione tra lui e i suoi detrattori (o demoni interiori, ormai non c’è più nessuna differenza).


 

Guardiola è arrivato in Premier League nell’estate del 2016, all’indomani del miracolo Leicester, che sembrava dirci che il campionato inglese era rimasto l’unico in Europa dove tutto poteva ancora succedere. In realtà, come previsto profeticamente da Emanuele Atturo, il dominio che Guardiola ha esteso sulla Premier League ha confermato che quella non era altro che un’eccezione su cui si fondava la regola, e cioè “investimenti, programmazione, potenza economica, complessità tattica, competenze specializzate. Poche squadre continueranno a imporre la propria incontrastata oligarchia, almeno fino al prossimo miracolo, tra un centinaio di anni. In questo senso, la “favola” del Leicester non fa che confermare e assecondare le nostre esigenze di consumo, non richiede una vera riflessione, non mette in pericolo nessun potere, reale o simbolico. Il Leicester ci consola del fatto che viviamo in un mondo in cui gli underdog, in realtà, non vincono i campionati”.


 

Guardiola ha avuto la potenza economica dalla sua, così come però ce l’hanno avuta anche Liverpool, Chelsea e Manchester United. Ciò che ha fatto la differenza è stata la programmazione pensata insieme al direttore sportivo Txiki Begiristain, la complessità tattica portata sul campo insieme a Juanma Lillo, le competenze specializzate come quella dell’ex campione di pallanuoto Manuel Estiarte, che lo ha aiutato a gestire lo spogliatoio. Insieme hanno raggiunto un’eccellenza irripetibile, che segnerà lo standard per il futuro del calcio contemporaneo, che da anni cerca la formula magica per trasformare la vittoria da eccezione a normalità. Guardiola è stata la chiave per trovarla ma il prezzo per lui è stato più caro di quanto pensasse. Dopo 32 trofei in 15 anni, la vittoria più che una benedizione sembra una condanna.


 

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