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Dario Saltari
Il giorno in cui Mourinho ha rovinato Brendan Rodgers
27 apr 2022
27 apr 2022
Una delle partite più scioccanti della storia della Premier League.
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Dario Saltari
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Il 27 aprile del 2014, ad Anfield, il cronometro segna 1'11'', il sole primaverile è caldo, gli spalti sono in festa e sul campo è già l’inferno. Su un fallo commesso da Sterling vicino alla linea di fondo, appena fuori dall’area di rigore del Chelsea, i giocatori di Mourinho sembrano disinteressarsi della palla. Inizialmente ci si avvicina Azpilicueta che subito perde interesse nella faccenda, come un gatto. Dopo alcuni secondi di esitazione, su invito dell’arbitro che indica il punto di battuta, è Obi a raccoglierla. Il centrocampista del Chelsea la lancia verso il portiere Schwarzer facendosela rotolare sull’avambraccio. Il pallone scorre lentissimo sull’erba secca. Schwarzer deve avvicinarsi accennando una corsetta se no quello non ci sarebbe mai arrivato da solo. Il portiere australiano lo raccoglie con due mani, lo mette con grande cura nel punto in cui aveva indicato il direttore di gara, schiaccia con il piede sinistro l’erba intorno al punto di battuta, ma poi ci ripensa. Cosa sta succedendo? Ivanovic sta correndo per avvicinarsi al punto di battuta. Il pubblico insorge mentre Schwarzer torna in porta, l’arbitro alza il gomito sinistro mentre con la mano destra si tiene l’orologio: dice che recupererà tutto (lo farà altre tre volte da lì alla fine del primo tempo). Nel frattempo Ivanovic ha preso una rincorsa di una lunghezza incomprensibile, è fuori dal campo. In realtà è a un passo dalle gradinate. Finalmente parte ed è un calcio rugbistico. Una palla talmente lunga e laterale che Glen Johnson deve rincorrerla fino alla periferia più remota del campo per non farla finire in quella trappola mortale che è il fallo laterale battuto accanto alla bandierina del calcio d’angolo.


 

Tempo dopo fu proprio Schwarzer a raccontare che Mourinho prima di quella partita aveva chiesto alla sua squadra «almeno due ammonizioni per perdita di tempo prima della fine del primo tempo» (non ne arriverà nemmeno una). «Abbiamo seguito le sue indicazioni alla perfezione», ha dichiarato Schwarzer «Mi ricordo che ci disse: prendetevi il vostro tempo, non permettetegli di prendere ritmo, portateli fuori tempo, fate arrabbiare i tifosi. E ha funzionato». Ancora più interessante nelle dichiarazioni di Schwarzer è il perché Mourinho abbia chiesto ai suoi giocatori di perdere tempo fin da subito. Secondo il portiere tedesco, lui e i suoi compagni avevano sentito «di non essere stati rispettati»: «Eravamo stati classificati come una passeggiata di salute, ci si aspettava una facile vittoria per il Liverpool».


 

A otto anni di distanza non è facile ricostruire la percezione generale intorno a quella partita, ma le dichiarazioni di Schwarzer sono strane: il Chelsea era secondo in classifica e ancora perfettamente in corsa per il titolo (nonostante Mourinho spergiurasse del contrario), e in più era anche in semifinale di Champions League con l’Atletico Madrid, con cui aveva pareggiato per 0-0 all’andata appena cinque giorni prima di quella partita. Chi poteva in buona fede considerare il Chelsea una passeggiata di salute per il Liverpool? È qui che entra in gioco il potere mentale di José Mourinho, la sua capacità unica di entrare nelle teste dei propri giocatori (e non solo). «C’era un punto da tenere», dice Schwarzer «Una determinazione reale dentro il gruppo a non arrendersi. Non so se Mourinho ci credesse davvero alle sue parole, fatto sta che ci ha fatto credere che fosse possibile». Le parole di Schwarzer sono confermate anche da Demba Ba, che è tornato a parlare di quella partita l’anno scorso. «Mi ricordo che José ci disse: “Loro pensano che siamo la squadra di Topolino! Ma gliela faremo vedere!”». D’altra parte fu lo stesso Mourinho a dirlo esplicitamente la stagione successiva. «La scorsa stagione ho sentito che il Paese voleva che il Liverpool fosse campione. I media, la stampa: è stato fatto molto per mettere il Liverpool lì. Nessuno diceva che erano in una situazione privilegiata perché non giocavano la Champions League. Nessuno diceva che un sacco di decisioni [arbitrali, ndr] li avevano aiutati a guadagnare punti cruciali. Ho percepito che quello era il giorno che era stato preparato per la loro festa. E allora ho utilizzato una parola con miei giocatori. Gli ho detto: loro vogliono renderci i pagliacci del loro circo. Il circo è qui. Il Liverpool deve essere campione ma noi non saremo i loro pagliacci».


 

L’aspetto più perverso della strategia di Mourinho non era però tanto l’aver convinto i propri giocatori di essere accerchiati o dell’esistenza di una congiura volta a far vincere la Premier League al Liverpool, quanto proprio il fatto che, per sventarla, gli stesse chiedendo di perdere tempo - di giocare, cioè, per non perdere più che per vincere. Un’impressione rafforzata anche dal fatto che l’allenatore portoghese avesse cambiato ben otto giocatori rispetto alla precedente partita con l’Atletico Madrid, schierando tra gli altri anche alcune sorprese assolute, come Mohamed Salah (già) e Tomas Kalas, che fino a quel momento, secondo lo stesso Kalas, veniva utilizzato da Mourinho «solo se aveva bisogno di un cono d’allenamento».


 

Il paradosso è che tra Liverpool e Chelsea la squadra che più aveva bisogno di vincere quella partita era di certo quella di Londra. Il Chelsea aveva cinque punti di distacco dal Liverpool capolista e, vincendo, sarebbe andato a due lunghezze con due partite ancora da giocare. Non vincere avrebbe significato quasi sicuramente l’addio alla corsa al titolo. Alla squadra di Brendan Rodgers, invece, teoricamente sarebbe andato bene anche un pareggio perché il Manchester City, terzo, aveva una partita in meno e sei punti di distacco: stando sotto per differenza reti, quel punto sarebbe quindi bastato per mantenere la vetta della classifica. Il Liverpool veniva da una striscia di 11 vittorie consecutive e di 16 risultati utili consecutivi in campionato. L’ultima volta che aveva perso era stato proprio contro il Chelsea, il 29 dicembre dell’anno prima, ma allora la prospettiva di giocarsi la Premier era ancora lontana. Adesso che motivo aveva la squadra di Mourinho di perdere tempo?


 

Dopo il fischio finale, Brendan Rodgers, con un po’ di stupido orgoglio, si vantò della propria squadra, «che cerca di vincere in maniera sportiva». Anche se non lo disse esplicitamente intendeva "al contrario del Chelsea", che con quella partita aveva dimostrato cosa significasse davvero essere anti-sportivi. Non tanto attingere a risorse che teoricamente non dovrebbero far parte dello sport, come per l’appunto giocare con il cronometro, quanto andare contro i propri stessi interessi pur di danneggiare l’avversario. Mourinho entrò nella festa di Anfield con dei candelotti di dinamite legati al busto (proprio a questo, d’altra parte, assomigliava il suo bomberino smanicato) e con il pollice sull’innesco, e questo determinò tutto il contesto della partita. Se il Chelsea giocava a perdere tempo, allora il Liverpool aveva fretta di recuperarlo, anche se a sua volta non era nel suo interesse farlo. Forse il momento più surreale in questa corsa a chi dimostrava di avere meno paura di suicidarsi è quando al 36esimo Schwarzer uscì dall’area camminando con la palla tra i piedi per perdere qualche altro secondo e Suarez, invece di andare a contrastarlo costringendolo a rilanciare il prima possibile, iniziò ad applaudirlo sarcasticamente invitando il pubblico a fare lo stesso. Mourinho aveva fatto uscire di testa talmente tanto i tifosi del Liverpool, che adesso stavano applaudendo le sue perdite di tempo.


 



 

Anche il momento che ha cambiato e definito quella partita per sempre sembra determinato dalla fretta del Liverpool. Steven Gerrard era l’uomo deputato a scendere tra i due non tecnicissimi centrali (Sakho e Skrtel) per gestire la fase di prima impostazione: si sarebbe fatto scivolare lo stesso il pallone sotto la suola del piede destro se non si fosse scatenata questa battaglia sul tempo? Avrebbe messo più cura nel primo controllo spendendo almeno uno sguardo nei confronti della palla invece di rimanere a testa alta a scandagliare l’orizzonte? Sarebbe cambiato davvero qualcosa? È impossibile saperlo come allo stesso modo è impossibile non pensare che senza le estenuanti perdite di tempo del Chelsea nel primo tempo le cose sarebbero potute andare diversamente.


 

Negli ultimi minuti della partita, Gary Neville, che faceva da seconda voce al commento di Sky Sport, disse che «sembrava che Mourinho avesse pianificato meticolosamente every five minutes». Solo nel secondo tempo Gerrard scaglierà otto tiri dalla distanza per provare a cancellare di forza il passato, senza mai andare nemmeno vicino al gol. Due settimane prima, dopo una vittoria contro il Manchester City che sembrava essere lo scacco matto della loro corsa al titolo, Gerrard aveva raggruppato la squadra intorno a sé in mezzo al campo, ad Anfield, e aveva urlato: this does not fucking slip now, che si potrebbe tradurre con “non ce lo facciamo sfuggire di mano adesso”, con tutte le ambiguità che il verbo slip, che in inglese letteralmente significa “scivolare”, comporta in questo caso. Sette mesi dopo, durante Liverpool-Chelsea della stagione successiva, qualcuno a Doncaster fece correre un cavallo chiamato Gerrard’s Slip.


 


Il capitano del Liverpool non è mai riuscito davvero a scherzare su quel momento, anzi se la prese coi tifosi del Chelsea anche dopo che quelli, in una delle sue ultime partite a Stamford Bridge, gli tributarono un omaggio nel giorno del suo addio al calcio. D’altra parte, come avrebbe fatto uno come lui a scherzarci? Per dire, queste sono le parole che ha utilizzato per raccontare i momenti immediatamente successivi a quella partita nella sua autobiografia, My Story: «[Dopo la partita] Mi sono seduto sul sedile dietro della macchina e ho sentito le lacrime scendermi sul viso. Non piangevo da anni ma adesso, sulla via di casa, non riuscivo a smettere. […] Ero paralizzato, come se avessi perso qualcuno della mia famiglia, come se il mio intero quarto di secolo passato in questo club uscisse fuori di me». Negli anni successivi Gerrard dirà di essersi pentito di quasi tutto quello che aveva fatto in quel finale di stagione. Dal discorso alla squadra dopo la vittoria con il Manchester City all’eccesso di fiducia avuta nel preparare la partita con il Chelsea. Di questo ha incolpato proprio Brendan Rodgers. «Ho percepito un eccesso di sicurezza nel discorso alla squadra di Brendan prima della partita», scrive Gerrard sempre in My Story «Abbiamo fatto il gioco del Chelsea. Avevo il timore di questo allora e lo so per certo adesso».


 

Nessun altro allenatore quanto Brendan Rodgers ha visto la propria reputazione rivoltata da una singola sconfitta con Mourinho, che pure aveva già provato a fare lo stesso con Guardiola, Benitez e Wenger, tra gli altri. Per lui, poi, la riscrittura della storia è stata particolarmente crudele, perché Rodgers a Mourinho deve quasi tutto. Dopo una carriera da calciatore quasi inesistente, fermata sul nascere da un problema congenito al ginocchio, Rodgers ha iniziato ad allenare nelle giovanili del Reading e chissà che carriera avrebbe avuto se nel 2004 Mourinho non avesse deciso di portarlo nelle giovanili del Chelsea (su raccomandazione di Steve Clarke). Come disse lui stesso, quando venne chiamato dall’allenatore portoghese: «Ero un trentenne nessuno che lavorava nello sviluppo dei giovani talenti». Il loro rapporto è straniante, perché hanno dei punti in comune sorprendenti ma per molti versi non potrebbero essere più diversi. Rodgers ha un viso poco riconoscibile e un carisma grigio. Cresce da allenatore in Spagna, dove studia i metodi d’allenamento e dove si convince di dover dominare l’avversario con il controllo del pallone. Il suo primo giorno di lavoro al Chelsea è anche il giorno del suo compleanno, il 26 gennaio. Quando arriva a Cobham, nella mensa del centro d’allenamento, trova un’enorme torta di compleanno. «Ero solo l’allenatore della Primavera, quindi ero commosso», ha dichiarato «Ho pensato al pensiero che avevano avuto nei miei confronti ed ero lusingato. Poi esce fuori che in realtà sono nato lo stesso giorno di José Mourinho. Lui è esattamente dieci anni più vecchio di me. La torta era per lui, ma almeno ho avuto una fetta». Al contrario di Mourinho, Rodgers a volte è un po’ ingenuo.


 

Brendan Rodgers non ha mai provato a nascondere l’importanza che Mourinho ha avuto per la sua carriera, anzi, tutto il contrario. «José mi ha dato la fiducia in me stesso di cui avevo bisogno per farmi la mia strada da allenatore: probabilmente non sarei qui se non ci fosse stato lui», è una delle tante frasi con cui l’allenatore del Leicester ha riconosciuto senza troppi problemi di essere uno dei “figli” dello Special One, che invece, pur riconoscendo la loro amicizia, ha preferito allontanare da sé la figura di padre nobile. «Se è diventato un buon allenatore è solo merito suo», disse Mourinho il giorno prima di Liverpool-Chelsea quando gli chiesero se il successo di Brendan Rodgers fosse dovuto anche al loro periodo insieme a Cobham. La riconoscenza di Rodgers nei confronti di Mourinho è stata talmente esplicita e ripetuta da diventare un problema anche nei suoi rapporti con il Chelsea, che non si è mai visto riconosciuto alcun ruolo nella sua formazione nonostante fosse il club che lo aveva effettivamente ingaggiato. Lo si legge in un pezzo di The Athletic chiamato Why Rodgers will never be the boss at Stamford Bridge in cui si citano anche diverse incomprensioni avute con i giovani dell’academy del Chelsea mandati in prestito nelle sue squadre.


 

L’ammirazione di Rodgers nei confronti di Mourinho è comunque merce rara in un mondo che fa ancora fatica a parlare dell’importanza dei rapporti personali al suo interno, e l’aspetto più bello è che non è mai venuta a mancare nemmeno in questi ultimi anni in cui la carriera dell’allenatore portoghese ha iniziato a declinare. Nel luglio del 2020, con il suo Tottenham in piena crisi, Rodgers si è esposto in prima persona per difenderlo in conferenza stampa. «José è un allenatore di classe mondiale: lo è stato fino a questo punto della sua carriera e continuerà ad esserlo. Le critiche sono una mancanza di rispetto e di solito vengono da persone che non sono mai state in panchina. José è un maestro ad organizzare le sue squadre, a renderle difficili da battere e vincenti. Ci sono diverse filosofie ed identità tra gli allenatori ma non c’è giusto o sbagliato». Se vi sembrano parole scontate, pensateci: parlereste così dell’uomo che, battendovi in quel modo, vi ha reso una macchietta? Che vi ha costretto a un esilio volontario in Scozia, al Celtic, per riacquisire legittimità come allenatore in Premier League? Prima di Liverpool-Chelsea Brendan Rodgers era considerato uno degli astri nascenti del calcio britannico, un genio tattico - definizione che si era guadagnato soprattutto a Swansea, che aveva reso una squadra piacevole e moderna (da lì l’affettuoso soprannome Swanselona), ma che gli si rigirerà contro dopo quella partita, quando inizierà ad essere considerato un bluff senza alcuna consistenza, proprio quel tipo di allenatore esclusivamente teorico che Mourinho amava rivelare al pubblico come un impostore con i suoi rant giustizialisti e le sue teorie del complotto.


 

Forse non è un caso che l’unico momento di rottura del rispetto di Rodgers nei confronti di Mourinho arriverà proprio dopo quella partita, che costringerà l’allenatore nord-irlandese a un lungo percorso di riabilitazione. Dopo un secondo tempo di tiri disperati e cross respinti, concluso con il drammatico gol in due contro zero di Willian, Brendan Rodgers andò davanti ai microfoni visibilmente alterato. «José è felice di lavorare in questo modo, di giocare in questo modo, e probabilmente agiterà il suo CV e dirà che funziona, ma questo non è il mio modo di lavorare. A me piace prendere l’iniziativa e lasciare che i giocatori si esprimano. Abbiamo provato tutto ciò che era in nostro potere, ma il nostro gioco si basa sull’essere creativi offensivamente. […] Non posso dare la colpa ai miei giocatori, semplicemente non abbiamo trovato lo spiraglio. Complimenti al Chelsea per questo, sono rimasti davvero bassi. Probabilmente ce n’era non uno ma due di bus davanti alla porta».


 

L’unica volta in cui Rodgers e Mourinho si sono giocati qualcosa è finita così. Nove giorni dopo il Liverpool completò il suo suicidio sperperando un vantaggio di tre gol in meno di dieci minuti contro il Crystal Palace, e regalando così il titolo al Manchester City di Pellegrini. Mourinho invece convinse così bene i suoi giocatori di non essere in corsa per il titolo, che il Chelsea pareggiò la successiva partita contro il Norwich in casa per 0-0 e perse la semifinale di ritorno con l’Atletico Madrid, chiudendo la stagione senza nemmeno un trofeo. Otto anni dopo, entrambi hanno ricominciato dalla periferia del calcio inglese ed europeo per dimostrare di essere ancora vivi come allenatori. Entrambi hanno bisogno di una coppa per poter dare un senso a una stagione con luci e ombre. Entrambi hanno bisogno di una vittoria sull’altro per invertire il corso della propria storia.


 

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