
È una domanda che si saranno fatti tutti dopo i due Mondiali vinti nell'arco di poche settimane: perché l’Italia domina così tanto e così profondamente in questo sport? Parliamo di un’egemonia mondiale con pochi precedenti, esercitata sia al maschile che al femminile, che si estende dal livello senior a quello giovanile, e con inizia certo adesso. Da dove viene questo dominio, e come è spiegabile? E soprattutto cosa racconta di noi, del nostro Paese e della nostra cultura sportiva?
Forse si può azzardare una risposta partendo dalla differenza con lo sport egemone di questo Paese: il calcio. Il calcio è l’autobiografia dell'Italia, lo specchio metaforico su cui costantemente viene proiettata la nostra vita pubblica, in cui gli insuccessi presenti della Nazionale diventano fotografia del declino generale, e il ricordo dei successi del passato nostalgia per un’Italia che contava di più ed era più prospera economicamente.
Anche la divisione tribale tra le tifoserie, lo sappiamo, è potentemente italiana, nel suo essere erede delle guerre medievali tra città o del rito paliesco in cui scongiurare la vittoria della contrada nemica è più importante di sperare nell’affermazione della propria.

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È talmente forte il legame tra gli italiani e il calcio che è ormai divenuta iconica nel discorso pubblico una frase attribuita a Churchill (e che probabilmente Churchill non ha mai detto) sugli italiani che perderebbero guerre come fossero partite di calcio e viceversa, e non sorprende che venga spesso usata in maniera orgogliosa. Soprattutto, il calcio racconta il ruolo e il peso delle grandi città della nostra penisola. Nei grandi centri, oltre a una maggiore concentrazione di potere e ricchezza, ci sono le grandi squadre più seguite e tifate, gli stadi più importanti, i media e i commentatori che parlano al resto del Paese, il glamour, le celebrità, l’overtourism che porta sempre più spettatori nelle cattedrali del tifo.
Il ruolo della pallavolo è profondamente diverso: non è lo sport della nostra autobiografia nazionale, ma della sua anatomia. Utilizzo questo termine in senso tecnico, materiale: la possibilità di toccare come siamo fatti, di scoprire i nostri tessuti e i nostri organi interni, di vedere come è composta quella che gli arabi che più di un millennio fa mossero dalla Sicilia per la sua conquista chiamarono la “nazione troppo lunga”, arrestandosi per questo motivo in Calabria e riponendo subito ogni velleità conquistatrice.
Gli esami anatomici ci consentono anche di scoprirci diversi da come ci immaginiamo, di rilevare particolarità apparentemente sorprendenti. Ce n’è una che non è troppo indagata e compresa: in Italia gli abitanti degli oltre cinquemila comuni con una popolazione inferiore a cinquemila abitanti superano complessivamente quelli che vivono nelle dieci città principali. Provincia che batte metropoli dunque, in tutti i sensi in cui possiamo parlare della provincia italiana, quella delle medie città ricche di storia, monumenti e in alcuni casi anche di denari ma costantemente snobbate dai media, quella degli antichi contadi oggi trasformati nei tanti coaguli di cemento, asfalto e campagna che caratterizzano il paesaggio urbano italiano e che sono in connessione con le stesse grandi città, diventando nel gergo burocratico-urbanistico “aree metropolitane”.
Il volley è anatomia perfetta di questo composito tessuto provinciale, e del suo particolare paesaggio umano e urbanistico. Qui ha le sue fondamenta, qui respira, qui da sempre prende la sua forza. Alcuni analisti strategici francesi, abituati da secoli al centralismo pigliatutto della capitale parigina, parlano a questo proposito di un’Italia acefala, senza testa, quindi potenzialmente inespugnabile proprio per questa disseminazione territoriale centripeta.
Certo, il calcio tiene tutto assieme, perché nasce e vive nell’Italia delle grandi città ma poi si è via via esteso su tutto il territorio, con le sue grandi tribù di tifo che hanno superato barriere localistiche radicandosi letteralmente ovunque. Il volley al contrario rappresenta l’Italia minore, che come abbiamo visto è però maggiore in senso demografico.
La differenza radicale tra questi mondi è espressa in maniera particolare da una regione: le Marche. Nel calcio un territorio da tempo totalmente irrilevante, che non ha squadre in Serie A e B, e che vede le più blasonate militare nelle serie minori tra fallimenti e rinascite, in cicli calcistici di sapore induista. Nel volley invece il sistema nervoso centrale, il luogo che ospita la seconda squadra più titolata d’Italia, la Lube Civitanova, può vantare un paesino di tremila persone, Grottazzolina in provincia di Fermo, nella Superlega maschile, che ha allevato e continua ad allevare nelle sue palestre schiere di allenatori di successo.
Un discorso simile potrebbe essere esteso anche all’Umbria, regione ancora più piccola, ma altrettanto centrale negli equilibri del volley italiano, oltre che in quelli geografici più generali. Le Marche, per la precisione a Jesi, sono anche la terra in cui circa quarant’anni fa approdò un giovanissimo allenatore argentino di nome Julio Velasco, per poi divenire il grande magister del volley azzurro, maschile e femminile. Dove andò poi il tecnico argentino? A Modena, altro luogo decisivo del volley italiano, epicentro del suo sviluppo storico assieme a Ravenna.
Provate a consultare gli elenchi delle squadre partecipanti ai due principali campionati maschili e femminili: vi scorrerà davanti un’altra Italia, senza Roma, Napoli, Torino, Genova, Palermo, solo parzialmente Milano, sostituite da Cisterna di Latina, Cuneo, Pinerolo, Chieri, San Giovanni in Marignano. Capita anche che il contado si spinga dentro le porte della città, come nel caso della Savino del Bene Scandicci che gioca a Firenze. Ma osservate anche le provenienze dei giocatori e delle giocatrici che hanno conquistato i due titoli mondiali. C’è tutta la rappresentazione provinciale d’Italia, e c’è anche molto Sud, da Oristano a Vibo Valentia, passando per Castellana Grotte e la costiera sorrentina, a differenza di quanto accade ormai da tempo nel calcio, dove le regioni del Sud sono sempre meno rappresentate nelle squadre azzurre, senior o giovanili che siano.
La pallavolo è la presa di contatto con l’Italia provinciale così com’è. Non la sua idealizzazione cartolinesca dei luoghi instagrammabili o delle atmosfere bucoliche di Linea Verde, ma quella dell’impasto di cemento, campagne, rotatorie, palazzine, villette, centri commerciali, fabbriche e, per l'appunto, palazzetti.
L’Italia provinciale è anche l’Italia delle piccole e medie imprese e delle persone che le animano. Il grande simbolo di questa alleanza tra pallavolo ed economia italiana è la storia di fondazione recente delle Pantere di Conegliano, in cui chi cura le vigne da cui si ricava il Prosecco, chi realizza le botti in legno in cui affina e chi infine produce le etichette con cui viene imbottigliato e commercializzato si uniscono e creano una squadra-distretto che in poco più di un decennio diventa leggendaria, ora lanciata anche alla conquista della grande città, con il possibile approdo nella nuova arena veneziana da diecimila posti che verrà inaugurata nel 2026.
E come non citare il PalaWanny, regalo dell’artigiano-imprenditore della moda Wanny Di Lorenzo alla comunità pallavolistica e sportiva fiorentina. Da questo punto di vista la geografia della pallavolo è una sorta di declinazione sportiva del viaggio in Italia realizzato negli anni Ottanta da un grande fotografo come Luigi Ghirri, con la sola differenza che il gusto dechirichiano del fotografo emiliano per i paesaggi inabitati viene arricchito nel caso della pallavolo da un impasto di persone, socialità, legami umani.
A questo punto però viene da chiedersi: come si è arrivati a questa penetrazione territoriale così capillare? La risposta è allo stesso tempo semplice e controintuitiva: attraverso la scuola. Questa è l’unicità genetica della pallavolo italiano, il fattore che ne ha creato l’accumulazione del capitale sociale iniziale. Giacomo Leopardi spiegava nel suo fondamentale Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani che il rapporto che abbiamo da cittadini con la nostra nazione è critico, costantemente teso a evidenziare le mancanze e spesse volte a magnificare in maniera provinciale il nostro intorno estero, che nel caso dello sport significa di volta in volta elogiare questo o quel modello, francese, spagnolo, tedesco o inglese che sia.
Parliamo sempre di quello che non abbiamo - nel caso di specie delle sei scuole su dieci senza palestra, della distanza profonda tra noi e gli altri grandi Paesi europei sulla presenza dello sport e della cultura del movimento nelle scuole, tutte cose vere e accertate. Tuttavia la pallavolo racconta una storia profondamente diversa. Il suo successo italiano e di riflesso globale ha una matrice scolastica. Il movimento della pallavolo italiana si è letteralmente creato nelle scuole, ed è qui che sono nate le fondamenta del suo dominio attuale. Non solo per ragioni logistiche ancora attuali, di facile adattabilità agli spazi non certo da campus americani delle nostre palestre scolastiche, o per via dell’assenza di contatto fisico, ruolo spartito negli ultimi tempi col tennis e le sue varianti. La ragione vera è un’altra.
C’è stata una fase storica iniziale nel secondo dopoguerra in cui una generazione di docenti di educazione fisica e allo stesso tempo allenatori di volley insegnava questo sport alla mattina nelle palestre scolastiche e poi vi tornava al pomeriggio per insegnarlo nuovamente agli allievi reclutati nelle nascenti società sportive, innescando così un agglomerato umano fatto di giocatori che poi una volta cresciuti sarebbero divenuti tecnici, e così via in circolo. È la storia, fra gli altri, di Franco Anderlini insegnante di educazione fisica e giocatore di volley che vinse i primi scudetti a Modena costruendo le squadre in questa maniera, e che poi negli anni Settanta diventerà allenatore della leggendaria Panini. Oggi sempre a Modena gli è intitolata una realtà che pochi conoscono al di fuori degli addetti ai lavori, ma che esiste da decenni, la Scuola di Pallavolo, che in termini gestionali è sempre stata un'avanguardia assoluta in Italia, pioniera del modello delle cooperative sportive, della professionalizzazione dei propri collaboratori, della creazione di reti territoriali con piccoli comuni della provincia.
Ma è anche la storia di Alfa Garavini, anche lei insegnante di educazione fisica, partita dalla periferia di Ravenna, in quella soglia provinciale prima analizzata, per fondare la prima dinastia del volley femminile italiano, quella dell’Olimpia Teodora, coinvolgendo nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta le sue studentesse, innescando uno dei processi sociologici e antropologici a sfondo sportivo più interessanti degli ultimi decenni, l’esplosione della partecipazione sportiva di bambine e ragazze italiane in questa disciplina, cresciuta al punto da mangiarsi quella maschile, nei numeri della pratica e ormai anche nell’attenzione mediatica, con le protagoniste femminili, da Sylla a Orro, enormemente più famose e glamour dei colleghi maschi e ormai vere eredi mediatiche della generazione dei fenomeni. Una rete sociale vastissima, molto più ampia dei numeri sempre citati delle circa 280mila tesserate federali, pur impressionanti, ma che non tengono in conto delle tante iscritte agli enti di promozione sportiva. Un cambiamento sportivo e sociale epocale, opportunità di crescita personale e autorealizzazione per milioni di italiane, una delle vie interne principali dell’empowerment femminile.
Proprio per via dell’evangelizzazione scolastica, insieme all’innesco dei primi grandi successi internazionali, e nel caso della femminile anche al boost fornito dagli anime giapponesi, la pallavolo si è espansa ovunque nella penisola, anche nei piccoli centri, dove le scelte sportive sono da sempre poche, diventando per tante persone progetto educativo e di vita, in un senso molto profondo dettato anche dalla sua particolarità tecnica.
Non esiste, o se esiste è molto limitato, un approccio spontaneo alla pallavolo come invece per il calciare una palla. In questo senso la pallavolo è lontana tanto dalla metafisica calcistica dei campetti e della strada quanto dalla libertà del playground. Al contrario, è uno sport che manifesta il bisogno essenziale della guida che educa e ammaestra, di qualcuno che possa insegnare a bambini e bambine movimenti per nulla scontati e cognitivamente molto complessi di coordinazione neuro-motoria e di interazione con gli altri, in quello che Mauro Berruto da sempre celebra come l’obbligo cooperativo del volley come fattore della sua unicità sportiva. È lo sport per eccellenza della costruzione pedagogica, e leggendo l’ultimo volume di Carmelo Pittera, ancora attivissimo nella sua produzione pubblicistica alle soglie degli 80 anni, si respira a pieno quest’atmosfera concettuale e pratica allo stesso tempo. Stiamo parlando di altro allenatore-docente leggendario del volley italiano, capace di portare uno scudetto a Catania e che, in collaborazione con un grande scienziato dello sport come Carmelo Bosco, allenò la Nazionale maschile medaglia d’argento ai Mondiali di Roma del 1978, il nostro primo grande successo internazionale. Un ossessionato dello studio della motricità umana, soprattutto quella dei bambini, in un impasto di empirismo e passione per le neuroscienze che per certi versi lo avvicina ai pensieri di un filosofo dello sport come Manuel Sérgio.
Il successo della pallavolo italiana non è però solo frutto di uno spontaneismo dal basso. Questo elemento umano e territoriale va inquadrato alla luce di una verità organizzativa e manageriale di carattere superiore. Da decenni la federazione italiana di volley è con ogni probabilità quella più attiva nel prendersi cura di quest’anima territoriale dell’Italia, che più la conosce e la percorre in senso fisico, in un lavoro che ha dei riferimenti istituzionali ben precisi e ormai leggendari. Su tutti il Club Italia, idea di Julio Velasco concepita nel 1998, nata inizialmente al femminile e poi estesa anche alla costola maschile, in perfetta inversione biblica.
Nessuna federazione sportiva può prescindere dai meccanismi della selezione giovanile su base territoriale, quel processo di affinamento che dalle società di base porta all’età di 14 o 15 anni i più bravi e talentuosi a entrare nelle Nazionali giovanili, attraverso stage, raduni, competizioni internazionali. Il Club Italia, che convoglia i giovani migliori in un percorso pluriennale facendoli competere nei campionati senior, è però qualcosa di più forte, un vero e proprio percorso iniziatico, più forte anche del modello francese spesso citato per il calcio, che dura solo per una stagione e che nei weekend prevede sempre il ritorno al proprio club di origine. È un profondo lavoro di trasformazione dei semilavorati svolto con cura artigianale, nel senso che avevo analizzato qua in riferimento all’Atalanta.
Sul sito della federazione si possono consultare le rose femminili di ogni annata, e scorrendo all’indietro sembra di leggere i vincitori passati dei grandi premi artistici, le sensazioni di stupore e riverenza sono le stesse. Anche qui la geografia ci racconta molto. Il Club Italia femminile svolge le proprie attività nel Centro Pavesi di Milano, ma è talmente forte il legame con il tessuto provinciale che in questa stagione le sue partite si disputano solo in trasferta, e sì, la ragione di questa scelta è logistica, ma è anche simbolica, la federazione che va incontro alle esigenze territoriali di club e non il contrario.
A questo proposito va ricordato che nelle vicinanze del Grande Raccordo Anulare romano, a Casal de’Pazzi, c’è Volleyrò, una sorta di secondo Club Italia però di natura privata, altro esempio di lavoro artigianale silenzioso e lontano dai riflettori per formare talenti nato dalla visione e dall’impegno di un grande dirigente sportivo scomparso nel 2015, Andrea Scozzese. È una delle basi dei successi del volley femminile azzurro, tra le sue fila sono ad esempio transitate da giovanissime Anna Danesi, Carlotta Cambi e Stella Nervini.
Altro pilastro della cura territoriale sono i Regional Days, i raduni territoriali di selezione da cui il Club Italia prende vita ed è diretta conseguenza. Velasco ha davvero dato un'impronta collettiva forte al movimento pallavolistico italiano, ma ci sono altre figure federali che hanno dedicato la propria vita e continuano a dedicarla a battere davvero l’Italia palestra su palestra, provincia dopo provincia. Uno di questi protagonisti è da sempre Mario Barbiero, tecnico che da anni gira l’Italia palmo a palmo, un po' come faceva il più grande storico dell’arte italiano dell’Ottocento, Giovanni Battista Cavalcaselle, che si diceva avesse visitato ogni chiesa d’Italia per visionarne i tesori artistici, comprese quelle di campagna, consumando nell’impresa le suole delle scarpe.
L’Italia non avrebbe una cultura sportiva? Niente di più sbagliato. La pallavolo ci ricorda che ce l’ha in questa radice territoriale e umana, di persone votate alla formazione silenziosa, un fare che diventa progetto di vita. È difficile, al netto di una facile retorica populista, dire se il successo della pallavolo possa essere un modello per gli altri sport di squadra, soprattutto il calcio. La concorrenza internazionale è differente, così come le dimensioni economiche ed organizzative. Però nel volley italiano, a differenza del calcio, la circolazione di idee e contatti tra vertice e base è più forte, non c’è la bolla mediatica che separa i pochi eletti che ne fanno parte dal resto, è tutto molto più avvicinabile, prossimo, diretto. Insomma: umile.
C’è un’ultima considerazione da spendere. Non vuole essere una critica ingenerosa, ma in un’analisi seria e di documentato realismo c’è un aspetto geopolitico di cui va tenuto il giusto conto. Dominiamo così tanto a livello internazionale nel volley anche perché è più facile dominare in uno sport che ha poco radicamento nell’Occidente, tanto anglo-americano che europeo, con la sua forza di capitali, strutture, organizzazione superiore sia a quella complessiva italiana, che a quella dei Paesi dove la pallavolo è più radicata. Non è corretto indicare la globalità di uno sport di squadra dal numero di Paesi che ci giocano, perché da questo punto di vista ogni sport è globale. La vera distinzione è tra sport come calcio e basket che mobilitano grandi attenzioni e movimentano grandi bacini di pratica in tutte le aree del pianeta, e altri che hanno una taglia differente, con concentrazioni di tipo regionalistico.
La pallavolo appartiene a questa seconda categoria. Sport di creazione americana che però ha intrecciato la sua storia con le traiettorie storiche e geopolitiche dello spazio sovietico e post-sovietico, a cui ora si aggiunge la Turchia, con alcune enclave tradizionali come Cuba e Brasile. L’Italia in questo senso fa da cerniera, storico ponte tra Occidente e Oriente. Le tracce del volley sono molto sbiadite in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, e negli Stati Uniti è uno sport universitario, ma sostanzialmente privo della professionalizzazione successiva. L’elogio delle virtù provinciali è importante, ma potrebbero davvero qualcosa di fronte ai grandi attori della globalizzazione? Le leghe maschili di calcio e basket italiane sono declinate per via di una concorrenza internazionale troppo forte, che chiama in causa la forza dei rispettivi sistemi-Paese. La cartina al tornasole è l’Arabia Saudita, che sta investendo cifre enormi in un numero vastissimo di discipline con obiettivi egemonici, ma che non ha inserito tra di esse la pallavolo, proprio per la sua presenza marginalissima nell’industria dell’attenzione globale.
Poi chissà: è impossibile fare la storia con i se e con i ma, ed è possibile che il così peculiare sistema italiano abbia successo anche in un sistema più globalizzato di grandi investimenti. Magari non lo sapremo mai o magari sì, mai dire mai.