
Sono sicuro che conoscete l’aforisma: chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio. È associato dai più a José Mourinho – di cui è diventato una specie di sigillo per il suo status di allenatore speciale – ma è improbabile che sia davvero così, o almeno io ne ho sempre dubitato. D’altra parte è una frase che emana vibrazioni da Daodejing, e da antica sapienza cinese, ed è difficile immaginarsela in bocca ad un allenatore, qualsiasi allenatore.
Armato di questo scetticismo, è stato però un grande piacere scoprire che chi l’ha attribuita a José Mourinho non è andato troppo lontano. La vera origine di quell’aforisma, infatti, è uno dei suoi maestri, forse il più particolare. Un filosofo portoghese che Mourinho ha avuto come professore alla Facoltà di Scienze Motorie di Lisbona, Manuel Sérgio, che sarebbe poi divenuto nel corso dei decenni suo mentore e consigliere di fiducia.
LA STORIA
A quanto pare la frase fu pronunciata il primo giorno d’Università del giovanissimo Mourinho. Sérgio, titolare del corso di filosofia delle attività corporali, glielo regalò come consiglio al termine della sua lezione, dopo averlo visto particolarmente annoiato. Mourinho gli aveva appena detto che il suo obiettivo presente e futuro era quello di dedicarsi al calcio professionistico, e che quindi non capiva perché dovesse dedicarsi a quell’insegnamento apparentemente così astruso e distante dalle sue esigenze. Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio: gli rispose per l’appunto Manuel Sérgio con un certo gusto oracolare.
Una relazione così stretta tra un filosofo e un allenatore (e che allenatore) non è del tutto unica nel mondo del calcio e dello sport. Un anno e mezzo fa L'Équipe, per dire, ha , per dire, ha intervistato Sergio Givone - serissimo filosofo che, tra le varie cose, ha attraversato magistralmente il pensiero di Dostoevskij - su un suo allievo particolare, Francesco Farioli, di cui è stato relatore di tesi. Si tratta però, comunque, di una rarità, e soprattutto Givone non ha mai riflettuto nei suoi lavori sullo sport e sul calcio.
Manuel Sérgio, invece, ha dedicato tutta la sua vita intellettuale e professorale, e la sua intera produzione culturale, allo sport. Questo ne fa una figura unica della cultura europea, e probabilmente mondiale. Non è uno studioso di altri argomenti, ritenuti più seri, che poi si è dedicato anche allo sport, scrivendo qualche libro da posizioni di autorevolezza precedentemente guadagnate con altro, ma una figura intellettuale che ha dedicato tutte le sue riflessioni solo allo sport, per tutta la vita, divenendo un personaggio notissimo all’interno del mondo calcistico portoghese. Non è un caso che, oltre a Mourinho, è stato amico e consigliere anche di altri allenatori importanti e molto noti, come José Maria Pedroto e Jorge Jesus, ed è stato anche opinionista frequente sulle colonne de A Bola, il principale quotidiano sportivo portoghese.
Questa eccentricità si lega alla particolare condizione del Portogallo post-regime salazarista e al fermento creativo scatenato dalla “Rivoluzione dei Garofani”, che Antonio Tabucchi ricordava in questo suo intervento. È un contesto in cui, per l’appunto, poteva capitare che un giovane impiegato dell’Arsenal do Alfeite (una delle compagnie nautiche più importanti di Lisbona), laureatosi da studente-lavoratore alla facoltà di filosofia e cresciuto come ricercatore nei centri studi delle principali istituzioni sportive portoghesi del tempo, si trovasse a ridefinire l’insegnamento delle scienze motorie nel proprio Paese. Era un altro riflesso della lotta per l’affermazione della democrazia contro il vecchio regime di Salazar, e non è un caso in questo senso che i suoi primi libri di rilievo escano proprio nell’estate del 1974 (poco dopo, cioè, la “Rivoluzione dei Garofani”).
Nonostante la sua importanza per lo sport portoghese e per Mourinho, però, in Italia i suoi libri sono praticamente introvabili. Uno dei pochi accenni alla sua figura in Italia appare il 29 marzo del 2022, presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, quando il suo nome viene evocato nel dialogo tra il cardinale portoghese José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede (nonché uno dei papabili prima dell’elezione di Leone XIV) e lo stesso Mourinho, al tempo allenatore della Roma. Sérgio, molto amico di entrambi, era il denominatore comune di quella conversazione così alta e profonda. Non a caso l’Osservatore Romano è stato l’unico media italiano a parlare della sua morte, avvenuta lo scorso febbraio all’età di 92 anni, ricordata anche da Mourinho sul suo profilo Instagram in un post carico di commosso affetto. Non troppo tempo prima, in Portogallo era stata finalmente pubblicata in tre volumi la raccolta delle sue opere complete, curata dai suoi allievi. Per me è stata l’occasione per approfondire il suo pensiero, che, riassumendo, si può condensare in tre chiavi.
IL PENSIERO
La prima è la sua formulazione di una cosiddetta “scienza della motricità umana”, in opposizione al dualismo cartesiano che distingue rigidamente mente e corpo. Per Sérgio il corpo che si muove crea il mondo e il senso che diamo al mondo, e da questo punto di vista lo sport, che sul movimento corporeo basa il suo linguaggio e le sue pratiche, svolge un ruolo centrale, fondativo.
Essere umani significa prima di ogni altra cosa muoversi. Il corpo che si muove non è quindi solo corpo. È pensiero, intelligenza, conoscenza, affettività, relazione, storia, società, e di rimando anche lo sport, che di contrazioni muscolari vive, è pensiero, intelligenza, conoscenza, affettività, relazione, storia, società. Sembra vago pensiero umanista e invece uno dei più recenti fronti della biologia riguarda proprio lo studio del muscolo come organo endocrino, che attraverso la contrazione delle sue fibre produce ormoni che hanno effetti su altri organi e sistemi, a partire dal cervello, influenzando e beneficiando le sue capacità di memoria e attenzione, quindi di ragionamento e pensiero.
Sérgio quindi riflette sullo sport nella sua totalità: il libero gioco dei bambini, la pratica sportiva giovanile, lo sport di alto livello, lo sport amatoriale prediletto dalle generazioni di mezza età, lo sport inteso come cultura del movimento per la salute degli anziani, la danza, addirittura la riabilitazione fisioterapica. Nessuna gerarchia tra queste forme, ma una necessaria compartecipazione (pensiamo a quanto sia diverso il contesto italiano, che ancora oggi “oppone” lo sport agonistico di alto livello allo sport per tutti). Nei suoi scritti troviamo una fondazione rigorosa del diritto allo sport e dell’importanza di fare sport/movimento lungo tutto l’arco della vita per fiorire come essere umani, senza ricorrere alle giustificazioni medico-sanitarie, che sanno sempre di comando impositivo, o al superomismo in cerca dell’immortalità biologica oggi in voga nella Silicon Valley.
La seconda chiave è la centralità della persona. Sérgio, polisportivo per vocazione, ha inevitabilmente avuto una forte predilezione per il calcio, per via anche della sua passione di tifo per il Belenenses, storico club di Lisbona di cui per decenni è anche stato anche dirigente. Sérgio ha definito il calcio “il fenomeno di maggior magia del mondo contemporaneo” e, attraverso un altro aforisma che possiamo usare a riassunto, pensava che “non esiste il calcio, esistono persone che giocano a calcio”.
È una frase solo apparentemente banale ma che in realtà ci permette di risignificare tutto il linguaggio dello sport. Non esistono gol, esistono persone che segnano. Non esistono rigori, esistono persone che li calciano e altre che provano a pararli. E così via. Dietro ai dati, alle tabelle e agli schemi ci sono quindi persone, che hanno delle storie, dei vissuti emotivi, magari delle provenienze culturali particolari. Partendo da questo assunto è più comprensibile il celebre aforisma: per sapere veramente di calcio, non bisogna sapere solo di calcio. Sport è comprendere questo fondo antropologico, averne cura della complessità, evitando riduzionismi biologici e matematico-statistici, dando quindi importanza nella gestione degli atleti e nella comprensione delle dinamiche agonistiche anche alla pedagogia, alla psicologia, alla filosofia, alla politica, alla storia.
La Spagna domina nel calcio contemporaneo solo per la maggiore qualità tecnica e organizzativa del lavoro svolto nei propri settori giovanili? Non è possibile anche, ci ricorda Sérgio in una sua felice intuizione, che la sua particolare dimensione di nazione che ne contiene molte altre al suo interno infiammi la motivazione delle persone – giovani calciatori, tecnici, dirigenti - che vivono con spirito di missione questo particolare orgoglio regionalistico?
Viene in mente anche Gregg Popovich che il 3 giugno del 2014 condivise con tutto lo spogliatoio degli Spurs la conoscenza delle problematiche e delle lotte per il riconoscimento condotte dalla popolazione aborigena australiana, che riguardavano da vicino un suo giocatore, Patty Mills, pronipote di Eddie Mabo, il cosiddetto “Martin Luther King australiano”. Fu uno dei fattori che contribuì a cementare il legame tra il giocatore, l’allenatore e i compagni, in una stagione che sarebbe di lì a poco culminata con la vittoria del titolo NBA. In questa storia sembra riecheggiare un’altra massima di Manuel Sérgio: nell’allenatore che si vuole diventare, deve risaltare l'uomo che si è. L'allenatore è la figura che più di ogni altra si prende cura della complessità umana che lo sport incarna, un compito conoscitivo ed etico allo stesso tempo.
Il personalismo sportivo di Sérgio si rivolgeva principalmente agli allenatori e ai preparatori atletici portoghesi e ai loro metodi d'insegnamento, ed è alla base della rivoluzione culturale compiuta nell’ultimo trentennio dalla scuola tecnica portoghese per prepararsi adeguatamente alla complessità tecnica, emotiva, biologica e cognitiva del calcio, rivoluzione che Sandro Modeo descrive perfettamente nel suo libro su Mourinho (L’alieno Mourinho).
Ma come è nato questo rapporto così stretto con almeno due generazioni di tecnici portoghesi? Non solo dall’esperienza cattedratica, anzi. Abbiamo già parlato del suo impegno dirigenziale nel Belenenses, storico club dell’iconico quartiere Bélem di Lisbona, oggi militante nella terza serie portoghese, ma con un passato di alto livello. Grazie al suo ruolo di presidente dell’assemblea dei soci ricoperto per diversi decenni, Sérgio poté conoscere in prima persona e diventare amico di tanti giovani allenatori che avrebbero poi spiccato il volo per carriere importanti, alcuni di essi magari transitati nel club anche da calciatori (o solo da calciatori, come lo stesso Mourinho). Uno di questi fu Jorge Jesus, allenatore del Belenenses tra il 2006 e il 2008, in un percorso che lo avrebbe visto di lì a poco approdare prima al Benfica e poi allo Sporting, e in tempi più recenti all’Al Hilal, il più famoso e prestigioso club saudita, da cui si è dimesso qualche settimana fa dopo aver vinto la Champions asiatica.
Il legame instauratosi tra i due fu così stretto che Jorge Jesus lo volle addirittura nel suo staff tecnico al Benfica. Non sto scherzando: un filosofo, docente universitario e autore di più di 50 libri, inserito nello staff tecnico dell’allenatore di uno dei più grandi club della storia del calcio portoghese e mondiale. Non ho la controprova ma credo che stavolta si tratti davvero di un unicum mondiale (sempre che Farioli non voglia chiamare Givone in futuro). Jesus ha simpaticamente raccontato qualche anno fa che in quel periodo Sérgio lo esortava costantemente a studiare ponderosi tomi filosofici da 600 pagine, e che a furia di leggere, lui che aveva una formazione di campo, gli faceva male la testa. Sérgio abbandonò l’incarico dopo una sola stagione, secondo Jesus perché considerava il mondo del calcio professionistico pieno di trappole per un filosofo abituato a una vita tranquilla tra i libri. L’ultimo articolo scritto da Sérgio su A Bola poco prima di morire è stato proprio un omaggio a Jesus, che, come Mourinho, ne ha pianto pubblicamente la scomparsa con parole molto belle.
L’approccio di Manuel Sergio continua ad essere attuale, soprattutto nel nostro presente così incline ai riduzionismi, una mania quantitativa che Sérgio nei suoi scritti chiama “quantofrenia”, e che oggi si incarna ad esempio nella riduzione statistica del calcio. È un discorso valido non solo per il campo ma anche per le strategie societarie, poco in grado di prendere in considerazione fattori emotivi, affettivi e culturali. E che dire di un altro riduzionismo che affligge lo sport, quello della spettacolarizzazione? Sappiamo quanto questo appiattimento produca giudizi facili e insulti. Da questo punto di vista, l’approccio allo sport di Sérgio, così attento al lato umano e personale degli atleti, può essere un antidoto.
Questo è vero anche per chi lo sport lo vive nei suoi ruoli più importanti, da atleta o dirigente. Da questo punto di vista Sérgio, che in vita è stato anche parlamentare di un piccolo partito d’ispirazione socialista da lui fondato, il Partido da Solidariedade Nacional, è sempre stato lucidamente critico delle distorsioni dello sport professionistico contemporaneo, della sua mancanza di fondamenti etici e valoriali, della tendenza apparentemente irresistibile a ridurre gli atleti a bestie da esibizione e merce di scambio, della radicale e repentina conversione economica del calcio europeo, che per un secolo aveva vissuto principalmente su basi associative più che mercantili. Sono critiche che possono sembrare vaghe che però non venivano da uno spettatore appassionato ma esterno al sistema, ma da una figura che lo ha frequentato dall’interno, osservandone da vicino limiti e storture.
Veniamo infine alla terza chiave, il legame tra sport e trascendenza. L’uomo per Sérgio è sempre oltre se stesso, sempre in movimento intenzionale verso mete e scopi da raggiungere. Lo sport, chiedendo costantemente di saper immaginare obiettivi e orizzonti, è l’immagine perfetta di questa trascendenza, in cui si rispecchia l’essenza dell’uomo, l’unico animale che progetta e costruisce il proprio futuro. La pratica sportiva è libera creazione umana, e gli allenatori vivono dell’organizzazione e del direzionamento di questa capacità, tanto più magica perché solidale, comune, partecipata. Sport è relazione, sempre, da cui la non-esistenza per il filosofo portoghese di sport individuali, dato che nessun atleta è mai solo, ma sempre in legame con uno staff e degli avversari, essenziali quest’ultimi per garantire la trascendenza reciproca nel susseguirsi delle sfide. Un termine significativo, in questo senso, forse coniato da lui stesso è “coopetiçao”, competizione e cooperazione assieme.
Se questa è la teoria, nella pratica sembra esserci una contraddizione. Se Mourinho è l’allievo prediletto di Manuel Sergio, che lo ha ripetutamente celebrato come miglior allenatore del mondo proprio sulla base della comprensione della complessità umana dell’esperienza sportiva, come si spiega il machiavellismo agonistico dell'ex allenatore di Inter e Roma? Tutto il percorso di Mourinho è costellato di provocazioni studiate e a volte geniali, contrasti verbali, polemiche di ogni tipo con avversari e arbitri: come si incardina tutto questo nel pensiero del filosofo portoghese?
Nel dialogo in Vaticano col Cardinale Tolentino citato in apertura, Mourinho a un certo punto sembra rendersi conto di questa contraddizione e gli dà questa giustificazione. “Percepisco la mia evoluzione come persona pensando al fatto che per molti anni ho voluto vincere per me stesso, mentre adesso sono in un momento in cui continuo a voler vincere con la stessa intensità di prima o addirittura maggiore, ma non più per me, ma per i giocatori che non hanno mai vinto, voglio aiutarli... Penso molto di più al tifoso comune che sorride perché la sua squadra ha vinto, alla sua settimana che sarà migliore perché la sua squadra ha vinto”. Dal canto suo, Sérgio è sempre stato piuttosto indulgente verso il suo allievo prediletto, per cui non possiamo sapere davvero cosa ne pensasse.
Non sarà l’unica contraddizione per Manuel Sergio, che allo stesso modo negli ultimi anni della sua vita ha speso parole al miele per Cristiano Ronaldo, apparentemente cieche all’ego-riferimento compulsivo che da sempre ne rappresenta uno dei fattori della sua forza, anche questo dissonante con i richiami ai vincoli comunitari e solidaristici dell’esperienza sportiva. Quella con Mourinho e CR7 è forse l’unica concessione fatta da Sergio al nazionalismo portoghese, così nostalgico verso la sua epoca d’oro fatta di scoperte e conquiste da chiudere un occhio di fronte a chi è stato capace di restituire anche solo un briciolo di quella grandezza perduta.