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Indro Pajaro
Perché è così difficile confermarsi in Bundesliga
05 feb 2018
05 feb 2018
Ogni anno il campionato tedesco è caratterizzato da sconvolgimenti nella parte alta e bassa della classifica, con la sola eccezione del Bayern Monaco.
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La Bundesliga, se si esclude il perenne dominio del Bayern Monaco, è il campionato più imprevedibile tra le principali leghe europee. Quest’anno, al termine del girone d’andata, il neopromosso Hannover si trova a pochi punti da un piazzamento europeo; il Colonia, quinto nella precedente stagione, è ultimo con appena tre vittorie, mentre un gruppone di sei squadre è praticamente appaiato dietro l’irraggiungibile 

.

 

D’altra parte, è un rimescolamento che avviene praticamente ogni stagione. L’edizione 2016-17 è stata a sua volta una delle più sorprendenti degli ultimi tempi e non certo per il record di 5 titoli consecutivi del Bayern Monaco. C'è stato l’inaspettato secondo posto del neopromosso e

; l’Hoffenheim

è arrivato quarto; e, per l’appunto, il Colonia è tornato in Europa League a 25 anni dall’ultima volta. La scorsa annata è stata da incorniciare anche per Hertha Berlino e Friburgo, rispettivamente sesto e settimo, davanti persino ad altre squadre di maggior blasone: il Werder Brema ha chiuso ottavo, due posizioni sopra lo Schalke 04. Il dodicesimo posto occupato dal Bayer Leverkusen ha significato il peggior risultato delle “Aspirine” dalla stagione 2002-03. Il Wolfsburg, una delle squadre più ricche di tutto il campionato, è riuscito ad evitare la retrocessione solamente in post season.

 

Ma lo stesso discorso si può fare con la stagione ancora precedente, la 2015-16. Di tutti questi club, solo Bayern Monaco, Borussia Dortmund ed Hertha Berlino avevano confermato la propria posizione nei primi posti della Bundesliga, che danno accesso alle coppe europee. L’Hoffenheim, invece, era riuscito ad evitare lo spareggio e a salvarsi per un solo punto.

 

E andando ancora più indietro negli anni ci si accorgerà che queste oscillazioni nei risultati da un’annata all’altra sono tutt’altro che fenomeni isolati. La Bundesliga ha un ricambio generazionale senza eguali, e non è raro assistere a cavalcate epiche seguite da stagioni disastrose, o almeno al di sotto delle aspettative. Il campionato tedesco permette a tutti di sognare e pensare in grande, ma sono poche le squadre che riescono a gestire la situazione quando gli obiettivi e le ambizioni vengono disattese.

 

”, dicono gli inglesi. Un motto applicabile anche in Bundesliga, dove solamente due delle prime sette nel 2011-12 (Bayern Monaco, appunto, e Borussia Dortmund) hanno mantenuto il posto nelle parti alte della classifica nei successivi cinque campionati.

 

È una situazione ancor più impressionante se vista dall’Italia, che ha probabilmente il campionato più conservatore e statico tra i maggiori tornei europei. I primi sei posti generalmente sono assegnati tra Juventus, Milan, Inter, Napoli, Roma, Lazio e Fiorentina, le sorprese sono di solito isolate e senza seguito (una bella eccezione degli ultimi anni è ovviamente l’Atalanta di Gasperini, tempo prima il Sassuolo).

 



Questa variabilità nelle gerarchie della Bundesliga dipende in primo luogo da ragioni economiche. Vale ovviamente pure per l’egemonia del Bayern Monaco, che dal 2012 ad oggi fagocita l’intero campionato e sembra giocare solo per battere i suoi stessi record. Il merito in questo caso è di un fatturato mostruoso e costantemente in aumento (stimato nel

in 587.8 milioni nel 2016-17, quasi il doppio di quello del Borussia Dortmund), reso possibile anche dal peso delle entrate del merchandising e dagli sponsor, che da soli costituiscono il 58% del fatturato. I bavaresi sono una delle società più ricche al mondo, con un valore della rosa di 624 milioni secondo il

del Cies stilato nel novembre 2017: uno strapotere economico che si riflette nei valori dei giocatori messi sotto contratto, i cui stipendi rimangono inaccessibili alla quasi totalità delle concorrenti in Germania.

 


I giocatori dell'Hannover esultano dopo aver battuto l'Hoffenheim per 2-0 (foto di Stuart Franklin / Getty).


 

Per le altre, invece, il discorso è diverso. La Bundesliga garantisce una democratica ripartizione dei proventi televisivi che in parte impedisce la composizione di gerarchie consolidate e durature. In precedenza, i diritti negoziati dalla Lega calcio tedesca venivano ripartiti per il 79% alla massima divisione e per il 21% alla serie cadetta contando solo il merito sportivo, le classifiche dell’ultimo quadriennio e la partecipazione alle coppe europee. Il nuovo sistema di spartizione delle quote nazionali,

a novembre 2016 ed entrato in vigore quest’anno, ha invece portato benefici sia alle società con una presenza costante nella massima serie, sia a quelle che fanno giocare molti calciatori del vivaio.

 

Il 70% del montepremi totale viene diviso tra le squadre di Bundesliga e Zweite Liga tenendo conto del piazzamento su base quinquennale di ciascuna competizione; una quota del 23% considera invece i risultati ponderati degli ultimi 5 anni di tutte le 36 partecipanti; un ulteriore 5% valuta solo la classifica complessiva negli ultimi 20 anni, mentre il restante 2% è distribuito in proporzione ai minuti giocati dagli Under 23 cresciuti nel vivaio.

 

La Germania pone grande attenzione ai settori giovanili con progetti di formazione a lungo termine sviluppati a partire dal 2002. All’indomani della sconfitta nella finale dei Mondiali contro il Brasile quell’anno, la Federcalcio tedesca (Dfb) lanciò il

, un programma di ristrutturazione del calcio nazionale attraverso la creazione di 390 centri di formazione regionali in tutto il Paese destinati inizialmente ai calciatori tra gli 11 e i 17 anni, poi a quelli tra gli 11 e i 14 anni.

 

Ogni anno la Dfb investe 10 milioni di euro per mettere a disposizione 29 coordinatori e 1200 allenatori responsabili di individuare e allevare il talento di potenziali

. In cambio ai club viene chiesto di dotarsi di staff tecnici professionali e di strutture di allenamento all’avanguardia e di una selezione in tutte le categorie a partire dall’Under12, pena la revoca della licenza di partecipazione al campionato. L’avveniristica filosofia di lavoro ha segnato l’inizio di un nuovo corso: l’attenzione non si è più focalizzata sulla ricerca di atletismo e forza fisica, ma sullo sviluppo di qualità e tecnica individuali.

 

L’assenza di ricchi investitori stranieri – estromessi della regola del 50% +1 (secondo la quale i tifosi devono possedere la maggioranza delle azioni, il 50% più una, per l’appunto) – ha poi obbligato le società a fare di necessità virtù, sfruttando la materia prima rappresentata dal vivaio, che come abbiamo visto permette anche alle squadre di ottenere più soldi dai diritti TV. Affidarsi così pesantemente ai giovani comporta però inevitabilmente una maggiore oscillazione nel rendimento collettivo, perché il processo di crescita dei singoli giocatori non è ovviamente uguale per tutti.

 



Oltre a un sistema che politicamente ed economicamente tende ad avvantaggiare l’utilizzo di giovani calciatori, c’è poi una cultura radicata di forte sperimentazione tattica. In Bundesliga si concede grande fiducia ad allenatori giovani o esordienti, in alcuni casi senza alcun passato da calciatori.

 

Sono i cosiddetti “

, cioè tecnici di età compresa tra i 30 e 40 anni altamente specializzati e istruiti, figli del processo di rinnovamento e trasformazione avviato dalla Dfb. Sono allenatori che hanno sviluppato un approccio innovativo e ambizioso, compensando l’assenza di esperienza con le idee e uno studio maniacale della tattica, grazie anche alla raccolta e all’elaborazione di dati statistici.

 


Julian Nagelsmann parla ai suoi giocatori prima di una partita contro il Werder Brema (foto di Lars Baron / Getty).


 

È molto frequente che gli allenatori delle giovanili passino direttamente in prima squadra, per dare loro la possibilità di continuare a lavorare con quei calciatori di cui conoscono pregi e difetti e con i quali hanno già avuto a che fare nell’età più delicata dell’apprendimento. In questo modo i settori giovanili non sono soltanto un serbatoio da cui pescare ragazzi promettenti, ma diventano anche una risorsa per scoprire nuovi tecnici.

 

Come riportano il

e l’

, negli ultimi cinque anni ben 12 delle 18 società di Bundesliga hanno promosso in prima squadra allenatori delle giovanili, mentre alla vigilia dell’attuale stagione il 30% delle panchine era occupato da Under40.

 

Anche in questo caso, però, parliamo di una strategia non priva di rischi. Gli allenatori giovani, come i calciatori, sono di solito più spregiudicati nello sperimentare le proprie idee e hanno bisogno di più tempo per ottenere risultati costanti.

 



Il resto lo fa una classe dirigente di solito di alto livello, che riesce a coniugare risultati sportivi con investimenti molto contenuti. Una delle realtà che meglio ha saputo associare l’aspetto manageriale e quello sportivo è il Red Bull Lispia, il più grande upset nella storia recente del calcio tedesco.

 

Partito dalla quinta divisione, il club di proprietà della Red Bull ha ottenuto quattro promozioni in sei anni, fino a raggiungere la massima serie nel 2016. Se è vero che l’ascesa è stata agevolata dagli enormi investimenti della multinazionale che ha

, è altrettanto vero che la disponibilità economica da sola non basta a raccontare la strepitosa scalata di un club arrivato alla fine della scorsa stagione fino al secondo posto, dopo aver assaporato la vetta della classifica tra novembre e dicembre.

 

La vera fortuna del Lipsia è stata una società abile a costruire un

fondato sui giovani. L’età media della rosa non supera i 24 anni e anche gli investimenti sono stati diretti verso alcuni giovani dal grande potenziale, come Oliver Burke, Timo Werner e Naby Keita (quest’ultimo già venduto al Liverpool).

 

In panchina c’è stato l’avvicendamento tra il precedente allenatore Ralf Ragnick, tornato a ricoprire il ruolo di direttore sportivo, e l’austriaco Ralph Hasenhüttl. In un campionato dove il 60% dei manager è tedesco, la scelta di affidarsi a uno straniero del suo spessore non è stata casuale. Hasenhüttl era reduce da un ottimo triennio all’Ingolstadt, raccolto in fondo alla Zweite Liga e condotto fino all’11° posto alla prima stagione da neopromossa.

 


La festa della promozione del Lipsia (foto di Ronny Hartmann / Stringer).


 

Giunto al Lipsia nell’estate del 2016, Hasenhüttl ha unito ai propri dogmi tattici la filosofia di gioco del predecessore, rimasta immutata verso quel 4-2-2-2, una delle basi dei successi del Lipsia. Sono poi subentrate le abilità di scouting di Ragnick, principale responsabile nella scelta dei giocatori, che prima del Lipsia ha allenato anche l’Hoffenheim, l’altra grande sorpresa del calcio tedesco negli ultimi anni.

 

Passato dalla nona serie alla Bundesliga in soli 18 anni, con la promozione nel massimo campionato ottenuta per la prima volta nel 2008, l’Hoffenheim ha goduto soprattutto della buona gestione dell’attuale proprietario Dietmar Hopp, co-fondatore di una multinazionale tedesca attiva nel settore informatico, nonché ex giocatore delle giovanili.

 

Hopp ha iniziato a sostenere economicamente il club nel 1990 e da quel momento non si è più fermato, arrivando ad investire fino ad oggi più di 350 milioni di euro, oltre ai 100 milioni spesi per la costruzione del nuovo stadio, la Rhein-Neckar-Arena, inaugurata nel 2009. È stato proprio questo il primo passo verso l’innovazione identitaria di una società che ha smesso di sentirsi una piccola e anonima provinciale e ha iniziato a prendere consapevolezza del proprio ruolo nel calcio tedesco.

 

La prima stagione in Bundesliga, la 2008-2009, con Ragnick in panchina, è stata al di sopra di ogni previsione: 7° posto con un tridente offensivo formato da Ibisevic, Ba e Obasi, andato a segno 42 volte nelle prime 17 gare di campionato. Ragnick ha saputo scegliere atleti promettenti ma al tempo quasi sconosciuti, come Luiz Gustavo, prelevato a 20 anni dal Corinthians per un milione di euro, o come lo stesso Ibisevic, arrivato quando il club era ancora in Zweite Liga.

 

Ragnick, oltre a scegliere i giusti giocatori su cui puntare, ha cercato di installare una mentalità vincente, e questo l’ha portato anche a contrasti forti con il resto della società, rassegnando le dimissioni dopo la cessione di Luiz Gustavo al Bayern Monaco nel 2011, che secondo Ragnick avrebbe affossato le ambizioni europee della squadra.

 

L’Hoffenheim, comunque, negli ultimi anni ha cambiato strategia e le cessioni importanti hanno assunto un nuovo significato: non solo finalizzate ad una stabilità economica per il mantenimento della categoria, ma anche mirate ad investire al meglio per far crescere sportivamente la squadra. Significativo, a riguardo, il dato della stagione 2016-17: 26 acquisti, 24 cessioni e un bilancio complessivo di +13,56 milioni di euro (dati Transfermarkt).

 

Dopo le dimissioni di Ragnick, l’Hoffenheim ha visto alternarsi sulla propria panchina sei allenatori in cinque anni, prima

, che ha ridato brillantezza tattica a un progetto già ambizioso. Nagelsmann a 28 anni è diventato il secondo più giovane di sempre a sedere su una panchina di Bundesliga.

 

Arrivato nel febbraio 2016 per sostituire il tecnico ad interim Huub Stevens, dimessosi per problemi di salute, Nagelsmann non ha solo salvato un Hoffenheim pericolosamente vicino alla Zweite Liga, ma l’ha condotto fino al miglior risultato mai ottenuto in massima divisione, il quinto posto che ha permesso di disputare i preliminari di Champions League, uscendo per mano del Liverpool.

 



A 500 chilometri da Lipsia c’è un’altra città in cui l’unione di allenatore e direttore sportivo ha portato grandi risultati. Parliamo del Colonia, società passata dalla retrocessione nel 2012 (con tanto di tentata invasione di campo) al quinto posto del 2017, valso il ritorno in Europa League a distanza di 25 anni dall’ultima volta, fino alla crisi attuale.

 

I demiurghi in questione sono stati, ancora una volta, un tedesco e un austriaco, rispettivamente il ds Jörg Schmadtke e l’allenatore Peter Stöger, già diventato il più longevo nella storia del club. Entrambi al Colonia dal 2013, hanno avviato un progetto fondato sulla valorizzazione dei giocatori cresciuti nel vivaio (come, per esempio, Timo Horn, portiere classe ’93 partito dalle giovanili quindici anni fa e arrivato in prima squadra nel 2011).

 

Con Stöger sulla panchina del Colonia, sono stati spesi appena 70 milioni di euro. La rosa dello scorso anno è stata un concentrato di esperienza e gioventù, che a elementi di spessore come Neven Subotic, Jonas Hector e Artjoms Rudnevs ha unito l’estro e la fantasia di Leonardo Bittencourt e Milos Jojic.

 


I giocatori del Colonia provano a farsi forza prima di una partita con l'Augsburg, quest'anno (foto di Maja Hitij / Getty).


 

Stöger sembra aver puntato più sull’empatia che sulla tattica, ponendosi come un allenatore abile nel riconoscere quando era giusto essere intransigente e quando invece era preferibile essere più permissivo. All’inizio della passata stagione,

in una trasmissione sportiva sui motivi dell’ottima partenza del Colonia, Stöger aveva proprio sottolineato il feeling che si era venuto a creare fuori dal campo: «La squadra trascorre un sacco di tempo insieme anche nei momenti liberi – aveva aggiunto – tanto che dopo gli allenamenti in molti si sentono quasi in imbarazzo a tornare a casa dai familiari».

 

Al di là di questo approccio che potremmo definire ludico, lo spessore del Colonia si è rispecchiato anche nella perseveranza con cui trattenere i migliori giocatori persino di fronte a offerte monstre. A febbraio, infatti, la società

40 milioni di euro dal Tianjin per assicurarsi Anthony Modeste (dietro al rifiuto forse ci sono anche dei problemi personali). L’attaccante, arrivato nel 2015 dopo le buone annate al Bastia e all’Hoffenheim, ha poi concluso il campionato con 25 gol, terzo nella classifica marcatori dietro Aubameyang e Lewandowski.

 

Il trasferimento, però, si è concretizzato solo un paio di mesi più tardi, portando nelle casse del Colonia 35 milioni di euro (la cessione più costosa nella storia del club). L’assenza di Modeste però ha fatto crollare il fragile equilibrio su cui si basava il successo del Colonia: senza il principale terminale offensivo i gol hanno cominciato a scarseggiare, così come i punti in classifica. Dopo la sconfitta nel derby contro il Bayer Leverkusen, il Colonia è diventata la sesta squadra di sempre in Bundesliga a totalizzare appena 2 o meno punti nelle prime 10 giornate. A farne le spese sono stati gli artefici dell’ottimo risultato ottenuto lo scorso anno: a ottobre Schmadtke e la società hanno interrotto il contratto di comune accordo, mentre a dicembre Stöger è stato esonerato, venendo nominato una settimana più tardi allenatore del Borussia Dortmund al posto di Peter Bosz.

 



Ma il calcio tedesco è ricco anche di crolli rovinosi. Una delle storie che più esemplifica l’estrema fragilità su cui poggia il successo di determinati club è quella del Paderborn, che dopo le prime quattro giornate nel 2014-15 era in testa al campionato insieme a Hoffenheim, Mainz e Bayern Monaco. Tre anni e mezzo dopo, una triplice retrocessione consecutiva l’ha fatto sprofondare in quarta serie, risultato mai successo nella storia del calcio professionistico tedesco.

 

Alla guida del club che raggiunse la massima serie c’era André Breitenreiter, in carica dalla stagione 2013-14. Alla squadra, forse, mancava l’esperienza per competere a quei livelli: per molti giocatori si trattava della prima volta e solo uno aveva ottenuto, in tutta la sua carriera, almeno 15 presenze in Bundesliga.

 

A Paderborn, città di 150mila abitanti e sede vescovile dove è vietato giocare dopo le 22 per rispettare il silenzio della zona, hanno dovuto fronteggiare gravi problemi di inadeguatezza per la categoria: a carenze strutturali, come l’assenza di un centro di allenamento e una rete di scouting, si è aggiunto un budget esiguo, stimato in circa 15 milioni di euro, che ha obbligato la società a condurre un mercato al ribasso. Sono stati acquistati, spesso con la formula del prestito o pescando tra gli svincolati, una serie di giovani promettenti provenienti, tra gli altri, da Borussia Dortmund e Wolfsburg. La scelta non ha pagato e, dopo un buon 10° posto prima della sosta invernale, la squadra è sprofondata terminando la stagione 18° con 65 gol subiti e l’immediato ritorno in Zweite Liga.

 


I tifosi del Paderborn durante una partita di 3. Liga contro la Sportfreunde Lotte (foto di Joachim Sielski / Stringer).


 

La rosa è stata a quel punto smantellata: molti giocatori sono andati via, compresi i protagonisti della precedente doppia scalata, così come Breitenreiter, ingaggiato dallo Schalke 04. Dopo la sua partenza si sono susseguiti cinque allenatori diversi, ciascuno dei quali incapace di fronteggiare una caduta sempre più inarrestabile. I pochi soldi a disposizione sono stati spesi male dalla dirigenza, allettata dall’ipotesi di un immediato ritorno in Bundesliga. È stato acquistato per 1 milione di euro il centrocampista 20enne Kevin Stoger, che però non ha reso come ci si aspettava. Errori del genere in una competizione così equilibrata come la Zweite Bundesliga spesso non offrono una seconda possibilità per rimediare: se prive di una solida base economica capace di fronteggiare le mancate entrate garantite dalla Bundesliga, per realtà del genere il rischio di trovarsi invischiate nella lotta per non retrocedere si fa sempre più concreto.

 

Nel caso del Paderborn, quell’ipotesi è diventata realtà. Al termine della stagione 2015-16, un nuovo ultimo posto ha certificato l’approdo in terza serie. Il doppio salto all’indietro è stato tanto veloce quanto fatale, a causa soprattutto della brusca riduzione dei proventi assicurati dai diritti Tv: in Bundesliga garantivano circa 19 milioni di euro l’anno, cui aggiungere i ricavi da stadio di una Benteler Arena sempre esaurita nei suoi 15mila posti, in terza serie non superano i 736mila euro, mentre l’attendance stagionale è precipitata a 4mila presenze. Il crollo verticale ha determinato le sorti di una società così piccola e priva di esperienza, comunque ripescata a giugno in 3.Liga dopo la mancata iscrizione del Monaco 1860.

 

Ma questa grande volubilità può interessare anche club grandi e ricchi, come per esempio il Wolfsburg. Quello dei “Lupi” è sicuramente il flop più inspiegabile se paragonato ai traguardi recenti degli ultimi dieci anni. Vincitori del titolo nel 2008-09, l’unico nella loro storia, secondi nel campionato 2014-15, eliminati ai quarti di finale di Champions League dal Real Madrid nel 2015-16 dopo un doppio confronto molto equilibrato, l’anno scorso hanno evitato la retrocessione solamente in post season, sconfiggendo allo spareggio l’Eintracht Braunschweig, terzo in Zweite Liga.

 

Negli ultimi anni il Wolfsburg non è riuscito a reinvestire bene i soldi ottenuti dalle cessioni di alcuni dei suoi migliori giocatori. Le due cessioni più pesanti sono state quelle di Kevin De Bruyne - maggior artefice della splendida campagna conclusa alle spalle del Bayern Monaco campione nel 2015, venduto per 75 milioni di euro al Manchester City - e Ivan Perisic, venduto all’Inter per poco meno di 20. Il Wolfsburg ha provato poi a acquistare giocatori di primo livello, come Julian Draxler (dallo Schalke 04 per 38 milioni di euro) e André Schürrle (dal Chelsea per 30 milioni di euro), che però non hanno reso come ci si aspettava.

 

Ha inciso poi anche lo scandalo “Dieselgate” che ha travolto la Volkswagen, pesando molto sulle casse della società. Nonostante la voce, rivelatasi poi infondata, diffusa dalla

secondo cui «i soldi ricavati dalle cessioni di De Bruyne e Perisic sarebbero stati versati alla Volkswagen per sostenere il peso di multe miliardarie», la stessa casa automobilistica

le sponsorizzazioni, che da 80 milioni di euro l’anno sarebbero scese a 30 milioni di euro.

 

La situazione al Wolfsburg non sembra essere migliorata nemmeno quest’anno: l’acquisto da copertina del mercato estivo è stato Divock Origi, arrivato in prestito dal Liverpool. In panchina c’è stato l’avvicendamento tra Andries Jonker e Martin Schmidt, ma i risultati rimangono al momento abbastanza negativi con i "Lupi" che annaspano nella parte bassa della classifica a pochi punti dalla zona retrocessione.

 

Che si parli di incredibili ascese o spaventosi declini, comunque, la mutevolezza della Bundesliga è il risultato di una serie di condizioni strutturali proprie dell’intera competizione: dall’estesa presenza di giocatori e allenatori giovani al grande rischio imprenditoriale dei club, tutto contribuisce a rendere fragile qualunque gerarchia che non coinvolga il Bayern Monaco. Aspetti, alcuni dei quali riscontrabili anche in altri campionati ma che in Germania raggiungono tutti insieme l’apice della loro espressione, che rendono quello tedesco il campionato con il maggior tasso di imprevedibilità in Europa.

 

 

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