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Mattia Pianezzi

Perché alcuni grandi attaccanti non sono anche grandi rigoristi?

Alberto ci ha chiesto di un'apparente contraddizione. Risponde Mattia Pianezzi.

Cara redazione de l’Ultimo Uomo,

una domanda che mi faccio da tempo è: perché alcuni grandi attaccanti non sono grandi rigoristi?

 

Alberto

 

Risponde Mattia Pianezzi

 

Caro Alberto,

Gli attaccanti possono appartenere a due macrocategorie: quelli che sanno di avere una certa tecnica, e in seno a questa consapevolezza tecnica segnano; e quelli che invece sanno che devono segnare e quindi mettono al servizio del fine la propria tecnica. La sfumatura è sottile, quindi la essenzializzo ancora di più: segno perché posso vs. segno perché devo. Non necessariamente i primi sono tecnicamente più portati dei secondi: è una questione di consapevolezza, che può essere impercettibile o cambiare poco rispetto alla tecnica in sé (se non sai fare un passaggio lungo, anche se credi di poterlo fare, non ti riesce).
Quando si parla di rigori però le cose si complicano. Se una creatura extradimensionale arrivasse sulla terra e mi chiedesse una diapositiva del gioco del pallone probabilmente gli mostrerei un’istantanea di un rigore: è in qualche modo il gesto calcistico più rarefatto, o comunque quello in cui si semplifica meglio lo scopo di questo sport. Il penalty è praticamente un gesto tecnico puro, a cui si aggiungono vari strati di giochi psicologici, ansie e tensioni, per cui l’utilizzo consapevole dei propri mezzi è fondamentale. Zaza e Pellè, per dirne due, non hanno segnato nei fatidici calci di rigore contro la Germania ad Euro 2016 perché pensavano che dovevano segnare; non che, visti i mezzi tecnici, balistici e la chiara, crudele disparità tra portiere e tiratore che rende il rigore più simile ad una violenza che ad un duello, potevano farlo.

 

L’autoefficacia percepita svolge un ruolo fondamentale. In sostanza, la sicurezza e consapevolezza dei propri mezzi dal dischetto in relazione alla situazione e al peso della realizzazione stessa, decreta la riuscita o meno del gesto tecnico. Un grande attaccante con un enorme fiuto del gol “naturale” e famelico sotto porta può farsi prendere dall’ansia quando ha più tempo per realizzare ciò che sta avvenendo; uno scarpone può avere vita più semplice perché riesce a focalizzarsi sull’atto.

 

Sono andato poi a cercare riscontri più tecnici alle mie supposizioni e ho scoperto un discreto sottobosco di analisi sportive dedicate esclusivamente ai rigori, atte a fare chiarezza quando il caos delle situazioni di gioco si concentra sui due singoli partecipanti al gesto. Mark Wilson, Greg Wood e Geir Jordet, professori impegnati in uno studio sui penalties per l’università di Liverpool, sono stati decisamente più rigorosi (eheh) di me nella loro relazione, ma le mie supposizioni preliminari non erano distanti dal risultato.

 

Il loro studio si basa principalmente sulla psiche del tiratore. Le parti fondamentali che nella psicologia di ogni rigorista si mettono in moto dipendono dalla percezione della propria contingenza (questo atto è casuale o dipende da me?), competenza (che abilità ho dal dischetto?) e controllo (nell’ansia di questo momento quanto posso controllare le mie abilità?). I rigoristi poi si dividono in tre categorie: chi sa già dove tirare, guarda un punto e tira là; chi guarda un punto e tira in un altro; chi aspetta di vedere le mosse del portiere e tira di conseguenza (insidioso e fattibile solo con una certa tecnica, e ci si ricorda di averla quando si è sul dischetto).

In tutte e tre le situazioni ha la sua parte ciò che alcuni studiosi chiamano il quiet eye, la capacità dello sguardo dell’atleta di restare focalizzato sull’azione che sta per compiere, predicendone preparazione, svolgimento e andamento. C’entra la consapevolezza spaziale: in sostanza l’occhio, lo sguardo, predice il movimento, l’obiettivo, gli ostacoli, la traiettoria, il cervello elabora e pianifica in microsecondi la soluzione migliore per raggiungere il proprio scopo.

 

Questa “visualizzazione” dell’evento prima che avvenga ha due grandi benefit: prima di tutto diminuisce le distrazioni “esterne” e impedisce al tiratore di guardare altre cose – come i portieri, che desiderano farsi guardare durante i calci di rigore, perché come quando guidi si tende a tirare dove si guarda (vedi Dudek, finale Champions League 2005), per non parlare di tutta la serie di trucchi per rendersi più grandi (intimidire) o più piccoli (far pensare di poter tirare meno angolato perché non ci si arriverebbe). In secondo luogo crea una barriera contro la tensione e non fa pensare alla possibilità dell’errore, vero nemico di chi tira i rigori e principale alleata della sindrome del braccino.

 

Prima di andare in cantina a sacrificare gattini al totem di Martin Palermo per sperare che i nostri beniamini riescano meglio dagli undici metri è giusto quindi considerare che ciò che differenzia un grande attaccante da un grande rigorista è la disposizione psicologica al rigore. Quindi, per tornare a noi: alcuni grandi attaccanti non sono grandi rigoristi perché dipende, in linea di massima, da che tipo di attaccanti sono e da come approcciano il gioco e il rigore stesso.

 

Non c’è una risposta semplice, ma mi piacerebbe comunque darla: l’importante, semplificando all’estremo, è essere un po’ coatti: “sentirsela calda”. I grandi rigoristi, consapevoli del gioco di tensioni e ansie, hanno sviluppato una routine di tiro dell’estrema punizione ben specifica, che serve a scaricare l’ansia da sé (magari metterla sul portiere) attraverso gesti codificati e conosciuti,  magari facendo passare il tempo sistemando il pallone, che è una mossa un po’ coatta se ci si pensa. Mentre ad alcuni calciatori viene facile essere coatti sempre (Cristiano Ronaldo, Ibrahimovic, Balotelli – uno che il primo rigore l’ha sbagliato a 23 anni) e ricevere liberazione solo dal gol o dalla vittoria perché sono matti, o fissati, altri dubitano di più e lo stress lo rilasciano comunque, anche con un errore.

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Mattia Pianezzi scrive di pallone anche per Crampi Sportivi, di musica per Deer Waves e DUDE Mag, ispirato da Simon Reynolds e Zalayeta.