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Andrea Lamperti

Parigi è troppo grande per una squadra sola

Il Paris FC vuole tornare in Ligue 1 e contendere il dominio cittadino del PSG.

Per qualche settimana, prima della sosta natalizia, si è intravisto all’orizzonte il primo derby di Parigi nell’era delle monarchie del Golfo Persico. Quello era infatti il momento di maggiore brillantezza per il Paris FC, che allora era addirittura vicino al secondo posto. Nel frattempo, però, la squadra parigina ha avuto una flessione scivolando al settimo posto e assottigliando le sue chance di promozione. I playoff sono distanti però appena un punto (fino alla quinta classificata) e il girone di ritorno è ancora lungo. Comunque vada, i prossimi mesi non saranno un’ultima spiaggia, anzi.

 

Il cammino intrapreso dal Paris FC negli ultimi anni deve ancora entrare nella sua fase adulta, e pare quasi inevitabilmente destinato, prima o dopo, alla Ligue 1. A quel punto, rimanendo così le cose da un punto di vista societario, sarebbe quindi derby-nel-derby, visto che dal 2020 il Paris FC è in parte del fondo sovrano del regno del Bahrein: uno dei molti antagonisti della Qatar Investment Authority, e dunque dell’egemonia del PSG in Francia.

 

Siamo di fronte a una nascente, intrigante rivalità che affonda le radici negli anni ‘70; ma anche a un possibile scontro ideologico e in un certo senso di classe, tra due realtà che hanno condiviso poco, anzi nulla, nell’ultimo mezzo secolo; infine, una sfida dal retrogusto squisitamente geopolitico, con il vessillo qatariota (o qatarino, ancora non lo abbiamo capito) da una parte e quello bahrenita dall’altra, proprio come nei trenta chilometri d’acqua salata che separano Doha e Manama. Le maglie delle due squadre – con bene in vista le scritte Qatar Airways ed Explore Bahrain – sarebbero un promemoria perpetuo di tutto ciò, nell’ennesimo giorno in cui, volenti o nolenti, sentireste parlare di sportwashing.

 

I rapporti diplomatici tra i due Paesi, peraltro, sono stati piuttosto turbolenti nel recente passato. Alle tensioni (non nuove) generate dalla spartizione delle acque territoriali nel Golfo si sono aggiunte le crisi del 2014 e del 2017 tra il Qatar e i Paesi del Gulf Cooperation Council, tra cui lo stesso Bahrein; frizioni che hanno portato all’isolamento diplomatico (e non soltanto) di Doha, accusata tra le altre cose di sostegno a organizzazioni terroristiche internazionali e ingerenze nella politica interna degli Stati confinanti.

 

Nel 2023 i rapporti con il Bahrein sono stati ripristinati, nel contesto di un’ampia distensione con tutti i Paesi della regione. E dopo la stretta di mani dello scorso aprile tra il segretario generale del ministero degli affari esteri del Qatar (Ahmed bin Hassan al-Hammadi) e il suo corrispettivo bahrenita (Sheikh Abdulla bin Ahmed Al Khalifa), chissà che nel 2024 – o magari nel 2025 – non siano i capitani di PSG e PFC a raccogliere, simbolicamente, il testimone. Scambiandosi i gagliardetti, dandosi la mano al centro del campo, e poi battaglia per 90 minuti, in quel derby che la Ville Lumièr aspetta da tempo; decenni in cui ha guardato con una certa invidia alle rivalità cittadine di Londra, Madrid, Roma e altre capitali europee.

 

Promozione del Paris FC permettendo, tutto ciò potrebbe materializzarsi sul palcoscenico più prestigioso possibile, il Parco dei Principi; oppure nella più modesta casa dell’altra Parigi, per così dire, quello Stade Charléty che abbiamo visto più che mai popolato negli ultimi mesi, grazie a un’iniziativa molto particolare della dirigenza. Ovvero, rendere l’accesso allo stadio completamente gratuito per i propri tifosi, ogni domenica, per l’intera stagione 2023/24. 

 

La storia del piccolo club parigino, che in qualche modo è anche quella del PSG, è troppo particolare per non farci una rapida immersione. Così come l’arrivo di Investcorp, ovvero del Bahrein, e la scelta di “regalare” l’esperienza-stadio ai tifosi, altrettanto interessante e sui generis, che ci siamo fatti raccontare direttamente dal direttore generale Fabrice Herrault.

 

Lo strano viaggio del Paris FC

In questi anni si è parlato fin troppo del PSG e del progetto di Nasser Al-Khelaifi, e quindi dei faraonici investimenti della Qatar Investment Authority e dell’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani per portare il club ai vertici del calcio mondiale. Si è parlato decisamente meno, invece, della seconda scommessa parigina finanziata – ad ora parzialmente, considerando l’ingresso in società con una quota minoritaria (20%) – dal Bahrein. Per certi versi è inevitabile ed è (quasi) sempre stato così.

 

Tutto ha inizio nel 1969, anno di fondazione del Paris Football Club. L’atto notarile porta la firma di alcuni noti imprenditori e personaggi pubblici locali, ma prima ancora è un’iniziativa figlia del desiderio della Fédération Française de Footbal (FFF) di dare vita a una nuova realtà nella capitale. Il Racing Club de France è appena fallito, mentre il Red Star Football Club – la cui sede è in un piccolo comune pochi chilometri a nord di Parigi (Saint-Ouen-sur-Seine) – non è abbastanza purosangue, a quanto pare, per simboleggiare la città.

 

Nasce così il Paris FC, che inizialmente è poco più di un’idea, senza nemmeno una squadra, uno staff o un impianto sportivo, ma che già nel ‘71 mette piede nella prima serie nazionale, l’odierna Ligue 1. Ci arriva, però, dopo la fusione con lo Stade Saint-Germain – sì, quello che oggi in tutto il mondo chiamano “PSG” – e ancora una volta è il tema della “pariginità” a monopolizzare il discorso. Lo Stade Saint-Germain ha sede a Saint-Germain En-Laye, che è vicina ma evidentemente non abbastanza alla Tour Eiffel: soltanto un anno più tardi, allora, ecco la seconda scissione. Il Paris FC mantiene il nome, l’iscrizione alla prima divisione e il Parco dei Principi, mentre il PSG viene rispedito in periferia e in terza categoria. Ma è solo l’inizio, ed è un incipit che anticipa ben poco del proseguo della storia. Il rapporto di forza costituito allora, infatti, avrà una vita così breve, e si ribalterà in modo così repentino e drastico, che sarebbe riduttivo definirlo un punto di partenza per il Paris FC.

 

La città aspetta con ansia una squadra in grado di competere con le rivali ai vertici negli anni ‘60, ‘70 e ‘80: St. Etienne, Nantes, Marsiglia, Monaco, Bordeaux. La Federcalcio francese osserva con speranza l’evolversi della situazione e non fa mancare il proprio sostegno alla causa, ma non andrà tutto secondo i piani, anzi. A riuscire nella scalata sarà il Paris Saint-Germain, tornato nella massima serie nel ‘74 e laureato campione di Francia per la prima volta nel ‘86, e poi ancora otto anni più tardi. Il resto è storia: l’arrivo degli sceicchi nel 2011, e poi gli sbarchi di Neymar, Messi e tutti gli altri top player acquistati con spese fuori scala anche per i club più ricchi del vecchio continente; solide fondamenta per la conquista di nove degli ultimi undici campionati, che ne hanno fatto la società più titolata del Paese, affamata ora del primo storico trionfo internazionale.

 

E il Paris FC, in tutto ciò? Caduta libera, dal Parco dei Principi fino quasi a perderne le tracce, nel giro di qualche anno. Mentre i cugini festeggiano il primo titolo nazionale, nel ‘86, il Paris FC è reduce da una serie di retrocessioni – la prima nel ‘74 – fino alla quinta categoria, in cui milita per cinque stagioni. Le ambizioni sono di breve, brevissima gittata, per un club che frequenta a lungo l’orlo del fallimento. Da fine anni ‘80, però, inizia una lunga (e discontinua) risalita, che culmina con il ritorno in Ligue 2 nel decennio scorso. Passando, tra le altre cose, per una singolare sequenza di gite all’anagrafe, un cambio di nome dopo l’altro: Racing Paris 1 (dopo la fusione con l’RC Paris, nel 1982), Paris Football Club 83 (dopo l’ennesima scissione), Paris Football Club 98, Paris Football Club 2000, e infine Paris Football Club.

 

Si arriva ai giorni nostri. Nel 2012 la guida della società passa definitivamente da Guy Cotret a Pierre Ferracci, imprenditore corso già membro del CDA e da allora presidente del club. Il primo ritorno in Ligue 2 (2015) non è fortunato, ma al secondo tentativo, nel 2017, il Paris FC riesce a confermarsi, iscrivendosi anche alla lotta per la promozione nelle due stagioni consecutive.

 

Immagine Transfermarkt

 

Lo status di contender, però, viene meno con la difficoltosa salvezza ottenuta nel terzo anno, chiuso al diciassettesimo posto. È in questo momento che irrompe sulla scena Investcorp, società bahrenita (per il 20% del fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti) che gestisce oltre 50 miliardi di dollari di asset, diversificati in tre continenti e sei classi di attività; un impero che comprende grandi brand come Tiffany, Gucci e Dainese, e da luglio 2020 anche il Paris FC, o almeno una sua parte.

 

Un nuovo inizio

L’arrivo di Investcorp non coincide, come accaduto sull’altra riva della Senna, con una cascata di investimenti, operazioni di mercato e annessi proclami. Anzi, si mantiene un basso profilo dal punto di vista comunicativo (obiettivo: promozione in Ligue 1 “entro tre anni”) e un cauto approccio finanziario cauto: l’esatto opposto di quanto immaginato da media e tifosi all’arrivo della holding di Manama. Non è soltanto per la quota di minoranza (come detto corrispondente al 20% delle quote, costato 5 milioni di euro circa, che ha mantenuto come maggiore azionista al 77% Ferracci, che nel 2021 staccherà un ulteriore 10% in favore dell’imprenditore anglo-srilankese Allirajah Subaskaran), ma è anche per l’inesperienza di un fondo che si affaccia per la prima volta sulla scena calcistica europea e non vuole fare il passo più lungo della gamba, esponendosi finanziariamente con grossi investimenti. Non prima di raggiungere la massima serie, almeno.

 

Al posto dei soliti grandi nomi, dunque, l’aumento di capitale – consentito anche dal nuovo sponsor Explore Bahrain – porta a investimenti mirati sul settore giovanile, sulla squadra femminile (quest’anno in Champions League) e sulle infrastrutture; oltre che per rinforzare la rosa, ma senza stravolgerla, e tornare a competere per la promozione. Un obiettivo cui la squadra si avvicina già nell’anno-zero dell’era bahrenita, in cui la corsa si ferma al primo turno dei playoff, come anche l’anno scorso. Ora i giocatori di Stéphane Gilli, ex assistente nella Nazionale marocchina, ci stanno riprovando, con la consapevolezza che l’esito della stagione non dovrebbe condizionare il progetto a lungo termine della proprietà.

 

Tutto è nato dalla convinzione, più o meno la stessa degli anni ‘70, che Parigi sia troppo per una sola squadra: troppo grande, troppo ricca (di risorse e opportunità), troppo viva economicamente e calcisticamente per potersi considerare un mercato saturo. E dunque, per non fare spazio ad almeno un antagonista del PSG. «Non serve per forza guardare a Londra e alla sua pletora di squadre», racconta il presidente Ferracci, menzionando Madrid, Barcellona, Torino e Lisbona come termini di paragone («il nostro obiettivo a medio termine è diventare come l’Atletico»). «Pensare di vedere tre o quattro club parigini in Ligue 1 e Ligue 2 non è una forzatura, per un agglomerato da 12/13 milioni di abitanti; da qui proviene la metà dei giocatori nelle prime due categorie e un terzo della Nazionale campione del Mondo nel 2018».

 

Nessuna pretesa quindi, al di là della rivalità, di dover necessariamente scalfire il predominio cittadino e nazionale del Paris Saint-Germain, almeno non nel breve termine. «Il nostro obiettivo non è vincere la Champions League», conferma Fabrice Herrault, «Ma raggiungere la Ligue 1 e rimanerci a lungo, per creare una delle migliori academy in Francia e in Europa. Puntiamo molto sui giovani: la regione di Parigi è una miniera d’oro in questo senso, al livello di San Paolo in Brasile, per la quantità di talenti calcistici che sforna – e il PSG se ne lascia sfuggire tanti…».

 

Pur mantenendo i piedi per terra, comunque, la proprietà prevede di incrementare il volume dei propri investimenti, di pari passo con la crescita organica del club: «È chiaro che in caso di promozione siamo pronti ad aumentare il budget di almeno una cinquantina di milioni, che sarebbero stati 80 senza la crisi per la pandemia», spiega il presidente «E se saremo promossi, tenteremo di prendere almeno un giocatore di fama internazionale che simboleggi la nuova era, un po’ come il PSG fece a suo tempo con Pastore. Da interista, il mio sogno è Nicolò Barella».

 

Lo stadio di tutti

Si arriva all’11 novembre scorso, un sabato che propone la sfida casalinga contro il Bastia. L’inizio di stagione non è stato semplice per il Paris FC, sedicesimo in classifica con 14 punti raccolti nelle prime 13 giornate; ma quel giorno c’è una novità accolta con entusiasmo dal pubblico: l’accesso gratuito allo stadio. Attraverso un comunicato ufficiale, infatti, il club ha reso noto che per l’intera stagione in corso i cancelli dello Charléty saranno aperti senza costi, e contestualmente che tutti gli abbonati verranno rimborsati. L’iniziativa riguarda sia le partite di Ligue 2, sia quelle della squadra femminile in D1 Arkema, ed è “una grande novità in Europa e nel mondo per una squadra di calcio professionistica”, come sottolinea la nota. Senz’altro ha avuto un immediato effetto benefico sulla squadra, che ha ricomposto le proprie ambizioni grazie al filotto di risultati positivi iniziato a novembre. 

 

Così, mentre il Paris Saint-Germain segue il trend internazionale e aumenta di anno in anno i costi per i tifosi, il PFC va in controtendenza, sposando una visione che li accomuna a rarissimi casi nel panorama europeo. Il Fortuna Dusseldorf, ad esempio, che però ha garantito la gratuità solo per alcune partite e un numero limitato di settori; oppure il Desenzano, club lombardo che milita in Serie D, che ha recentemente deciso di “fare un atto d’amore per la città” e “restituire il calcio alla gente che lo ama”.

 

Lo stesso Paris FC sottolinea la volontà di ripristinare il sentimento e la dimensione popolare del gioco, oltre al desiderio di allargare il proprio seguito. «Ci sono due obiettivi», stando a Ferracci «Il primo è riempire maggiormente lo Charléty, che resta uno dei nostri punti deboli; la seconda questione è sociale: vogliamo rendere il calcio più attraente. I cittadini hanno problemi di potere d’acquisto, i giovani in particolare, e in questi casi cosa si fa? Si rinuncia alle attività ricreative, allo sport, al cinema. Noi vogliamo riconnetterci con l’essenza popolare del calcio e offrire uno spettacolo aperto a tutti».

 

Di questi tempi è naturale ascoltare queste parole con un pizzico di diffidenza. Una prospettiva troppo, forzatamente o fintamente, romantica? Può darsi. Ma in fin dei conti, dove se non a Parigi?

 

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Andrea Lamperti (1993) è fondatore di Around the Game, divide le sue giornate in porzioni di 24 secondi.