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Giovanni Timillero
Il Paese dove Serbia-Svizzera è stata una finale
05 dic 2022
05 dic 2022
Reportage da Tirana, dove la partita è stata seguita come quelle della Nazionale albanese.
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Giovanni Timillero
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse. Mezz'ora prima della partita piazza Skanderbeg è già gremita. L'amministrazione comunale di Tirana, in Albania, ha allestito un maxi-schermo e addirittura una fan zone, per permettere a chiunque di vedere l'ultima decisiva partita del gruppo G, Serbia-Svizzera, entrambe in lotta per il passaggio agli ottavi di finale. La scelta è sia pratica che simbolica: Piazza Skanderbeg è la più grande e la più centrale della città, e può quindi accogliere le molte persone che sono attese per questo appuntamento, ma è anche la piazza dedicata all'eroe nazionale, Giorgio Castriota Skanderbeg, principe albanese che nel XV secolo guidò la resistenza contro l'avanzata dell'Impero Ottomano nei Balcani. È dall'araldica dei Castriota che nasce l'aquila bifronte che oggi campeggia minacciosa sulla bandiera albanese. È da un po' di giorni che il nazionalismo albanese viene alimentato dalla politica locale anche se, come in tutte le storie balcaniche che si rispettino, in un modo in cui patriottismo, cultura pop e surrealismo si sovrappongono e si mescolano. Il 28 novembre 2022 è stato il 110° anniversario dell’indipendenza albanese, e in occasione della giornata di festa nazionale il primo ministro Edi Rama ha conferito la cittadinanza albanese a Dua Lipa, cantante inglese di origine kosovaro/albanese. La stessa sera Dua Lipa si è esibita in un concerto gratuito nella capitale Tirana davanti a circa 200mila persone. Il particolare che salta all’occhio però è che nelle foto pubblicate sui suoi profili social il premier indossa una felpa della Juventus, squadra di cui è notoriamente tifoso: un elemento bizzarro e anche funesto, visto che poche ore dopo l’intero CdA della squadra bianconera si dimetterà aprendo il vaso di Pandora che conosciamo.

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Non appena passato l’ingresso alla fan zone allestita al centro della piazza mi ritrovo all’interno di una densa coltre di fumo bianco: mi guardo intorno e stanno grigliando carne ad ogni angolo. Lunghe tavolate e panche di legno disseminate su tutto lo spazio fisicamente occupabile contribuiscono a restituire un'aria da sagra di paese. Fin da subito i drappi rossi delle bandiere albanesi mi saltano agli occhi. C'è chi la tiene sulle spalle come un mantello protettore, chi invece ce l'ha sotto forma di maglietta della Nazionale, tenuta sotto giacche e giubbotti. Se il Mondiale fosse stato organizzato in estate avrei sicuramente uno spettacolo diverso davanti a me e il rosso sarebbe il colore dominante. A creare il colpo d’occhio cromatico ci pensano gli allestimenti della piazza, con il rosso acceso di poltroncine, sponsor Coca-Cola e maxischermo che si integra alla perfezione con quello delle diverse bandiere albanesi presenti. La cosa più impressionante forse è che l’età media dei presenti è bassissima, sono quasi tutti ragazzi e ragazze dai 15 ai 20 anni, nati quindi quasi sicuramente dopo le guerre che hanno reso questa partita così importante qui.

Serbia-Svizzera è diventata motivo di orgoglio nazionale in Albania dopo i Mondiali russi del 2018, quando gli "albanesi" Shaqiri e Xhaka esultarono contro la nazionale serba ai mondiali di Russia nel 2018 facendo con le mani il gesto dell'aquila, che era ovviamente l'aquila della bandiera albanese (pochi si ricordano che in realtà il più invasato con l’esultanza dell’aquila era capitan Lichtsteiner, nessun rapporto conosciuto con la cultura albanese, un’abilità scientifica nell’alimentare gazzarre sui campi di calcio).

Shaqiri e Xhaka, presenti anche venerdì in Qatar, sono di origini kosovara ed il primo è addirittura nato in Kosovo, paese a maggioranza etnica albanese che, da provincia autonoma prima della Jugoslavia e poi della Serbia, a seguito del conflitto di fine anni ’90 ha unilateralmente dichiarato l’indipendenza nel 2008. L'indipendenza del Kosovo, com'è noto, non è mai stata riconosciuta dalla Serbia, né da un punto di vista diplomatico né da un punto di vista culturale, da una larga fetta della società che ancora lo vede come la culla del proprio mito nazionale. In Kosovo infatti nel 1389 ebbe luogo la celebre battaglia della Piana dei Merli, dove albanesi e serbi combatterono fianco a fianco contro l'avanzata dell'Impero Ottomano venendo sconfitti (il nonno di Giorgio Castriota Skanderbeg morì proprio in questa battaglia), e oggi vedono entrambi in questo piccolo Paese significati simbolici che vanno ben oltre la sua importanza reale.

Non è un caso, quindi, che la stessa nazionale serba, approfittando del palcoscenico mediatico offerto da un Mondiale già piuttosto controverso, abbia deciso di appendere nel proprio spogliatoio una bandiera raffigurante il Kosovo come parte integrante del territorio serbo, sovrastato dalla scritta “nessuna resa”. Un messaggio emblematico che si inserisce all’interno di un contesto di rinnovata tensione tra i due Stati, inasprita negli ultimi mesi a causa di problematiche legate al riconoscimento da parte del governo di Pristina delle targhe automobilistiche dei serbi residenti in Kosovo.

A questa pesante cappa di significati simbolici, si è aggiunto un andamento del girone che ha portato Serbia-Svizzera ad essere anche decisiva per il passaggio del turno. Come spesso accade, anche stavolta il karma ha agito in maniera ineluttabile, manifestandosi nei tre giustizieri venuti dal Camerun, Vincent Aboubakar, Eric Maxim Choupo-Moting e Jean-Charles Castelletto, che al termine di una delle partite più incredibili del Mondiale fin qui hanno bloccato la Serbia sul 3 a 3 nella seconda partita del girone. La Nazionale guidata da Dragan Stojkovic, per qualificarsi alla fase successiva, si trovava quindi costretta a battere una Svizzera decisamente poco neutrale, soprattutto nei suoi due interpreti di origine albanese/kosovara di cui sopra (Stephan Lichtsteiner purtroppo si è già ritirato) e nella loro volontà di infliggere un altro psicodramma ai serbi.

Mentre aspetto l'inizio della partita, avvolto dal fumo bianco gravido di grasso che proviene dalle braci, mi sento su Whatsapp con due amici, Giulia e Matteo, che al momento vivono e lavorano in Kosovo. Giulia si reca ogni giorno per lavoro nella parte settentrionale del paese, a maggioranza serba e al confine con la Serbia, dove monitora costantemente le relazioni tra le due comunità: è lei che mi avverte solitamente quando ci sono episodi di escalation almeno con un giorno di anticipo prima che questi vengano riportati dai media locali e internazionali. Entrambi vedranno la partita nella parte nord di Mitrovica, città attraversata dal fiume Ibar che simbolicamente separa la regione settentrionale a maggioranza serba dal resto del paese a maggioranza albanese. Le due sponde sono unite dall’iconico ponte costantemente sorvegliato dai nostri carabinieri nel quadro del contingente militare NATO presente nel Paese dalla fine del conflitto. Mentre la parte sud della città pullula di bandiere albanesi e kosovare, attraversato il ponte è un profluvio di bandiere serbe in bella vista su alberi, vetrine e balconi. Poster su cui campeggia la scritta “Qui è Serbia!”.

Foto di Matteo Mancini

Mentre chatto con loro quasi non mi accorgo che la partita è già iniziata. Si parte forte, con una enorme occasione per la Svizzera dopo soli 20 secondi che fa saltare tutti quanti in piedi. Nonostante questo sussulto iniziale, durante i primi 20 minuti l’atmosfera generale è calma e compassata; quasi tutti siedono in religioso silenzio in attesa di un episodio, un segnale. E chi se non lui, sentitosi chiamato personalmente in causa, poteva sbloccarla: la nemesi della Serbia che risponde al nome di Xherdan Shaqiri, che 4 anni dopo la notte di Kazan torna ad infestare i peggiori incubi dei rivali anche a Doha col suo mancino affilato. Questa volta niente esultanza con l’aquila, forse per timore di squalifiche postume, ma poco importa: la partita si apre, la piazza si accende.

A questo punto la meglio gioventù albanese comincia ad intonare un coro, solo uno, che verrà reiterato ad ogni buona occasione durante tutta la partita in un crescendo di decibel e trasporto. “Serbi, Serbi t'qifsha ropt!”, che in italiano si potrebbe tradurre con “Serbia Serbia li mortacci tua”. Qifsha ropt è un insulto molto diffuso in Albania che letteralmente significa "fanculo la tua famiglia", dove con famiglia si include tutta la linea di sangue (come "mortacci tua", per l'appunto, si riferisce ai "tuoi morti"), che viene usato anche alla leggera, ma che per via del suo significato letterale può assumere sfumature molto drammatiche. Nei 15 minuti successivi il coro riparte puntuale in occasione dei due gol serbi, condito non più dalla gioia iniziale ma da rabbia e gesti difficilmente equivocabili nei confronti di Mitrovic prima e di Vlahovic poi. Il primo tempo si chiude quindi con un ultimo allegro “Serbi, Serbi t'qifsha ropt!” in occasione del pareggio svizzero di Embolo. Chiedo un aggiornamento sulla situazione a Mitrovica Nord, dove Giulia e Matteo stanno intanto seguendo la partita con la comunità serba. Sembra che la situazione sia molto più compassata rispetto a Tirana e che intorno alla nazionale serba aleggi una pesante aura di pessimismo, dovuta principalmente all’operato del ct Stojkovic, considerato non all’altezza per gestire una tale quantità di talento.

Durante l’intervallo incontro la mia amica Nereida, albanese nata in Svizzera, alla quale chiedo banalmente qual è il sentimento prevalente in lei in occasioni come questa. Mi racconta di come, dopo anni e anni di difficile integrazione della comunità albanese e kosovara in Svizzera, negli ultimi tempi soprattutto con le seconde generazioni l’accettazione e il senso di appartenenza siano sempre più forti, tanto che quella che una volta era considerata una “patria provvisoria”, in attesa di un insperato ritorno nei paesi dai quali si era emigrati, ora è vista sempre più come una vera e propria seconda casa dove mettere radici e famiglia. Le chiedo quante generazioni ci vorranno prima che il fardello pesante di quanto accaduto negli anni 90 possa venire in qualche modo annacquato dal tempo, favorendo una distensione e un'apertura, ma mentre mi parla mi rendo conto che la risposta è già davanti a me: la stragrande maggioranza dei presenti in quella piazza è nata abbondantemente dopo il 2000, e il loro comportamento durante quei 90 minuti (letteralmente l’unico coro udito è stato contro i serbi) rivela in maniera inequivocabile quanto il rancore sia radicato già nei giovanissimi.

Foto dell'autore

Proprio mentre parlo con Nereida, quasi a voler suggellare una volta per tutte le mie impressioni, Remo Freuler segna il terzo gol della Svizzera mandando completamente su di giri tutta la piazza, e da lì in poi vale tutto: panche e tavoli diventano piedistalli su cui salire in piedi e cantare, gli “t'qifsha ropt” superano per numero quello delle salsicce sulle griglie e spuntano ovunque bandiere e aquile mimate con le mani. Una scena in particolare mi rende la dimensione di tutto ciò che sta accadendo, con protagoniste due distinte signore di mezza età, sedute davanti a noi e depositarie fino a quel momento di tutta la maturità e compostezza della piazza in un contesto di caos crescente. Verso il minuto 70 sul maxi schermo compare il volto del neo-entrato Djuricic, con una ferita insanguinata sul volto a seguito di un contrasto di gioco. Appena lo vedono, le due signore saltano in piedi all’unisono verso di me e, agitando il pugno in aria, esclamano “YES!!!”. Probabilmente si erano accorte che non ero albanese e che ero lì per testimoniare da fuori quanto stesse succedendo. Penso al clima opposto che stanno vivendo i miei amici a Mitrovica e mando un messaggio a Matteo, il quale mi spiazza così: “In un modo o nell'altro, a fine partita a nord o a sud qualcuno celebrerà”. Forse è la millenaria saggezza ellenica a parlare (sua madre è greca), più probabilmente la celebre acquavite balcanica, la Rakija, sta iniziando a sedare i sentimenti più forti.

In campo, invece, l’ultimo quarto d’ora del match è la sublimazione dell’essenza balcanica all’interno di una partita di calcio: provocazioni, fallacci, epiteti irripetibili nelle rispettive lingue e continui accenni di rissa mal sedati. Tra le due panchine c'è tensione continua, aizzata anche da una parte dei tifosi serbi, che cantano un coro che inneggia alla morte degli albanesi utilizzando termini discriminatori nei loro confronti. Su questo sembra esserci un confine molto sottile tra la parte più estrema del tifo serbo e la squadra di Dragan Stoijkovic, che dopo il gol di Vlahovic in panchina aveva esultato utilizzando quegli stessi termini per insultare in modo ancora più volgare gli albanesi. In questa tensione crescente penso a Stephan Lichtsteiner e a quanto sarebbe stato contento di giocare quei minuti finali.

La faccia della tensione albanese nei confronti dei serbi è sicuramente Granit Xhaka, che nei minuti finali della partita va a sfidare con un'espressione che dice tutto sia Vanja Milinkovic-Savic che Nikola Milenkovic, e infatti l’unico coro che finalmente dopo un’ora e mezza spezza la monotonia di “Serbi, Serbi t'qifsha ropt!” a Tirana è dedicato proprio a lui. Dopo la fine della partita Xhaka indosserà la maglia di un suo compagno di Nazionale, Ardon Jashari, e anche questo gesto sarebbe poco comprensibile senza un po' di contesto. Jashari è infatti anche il cognome del fondatore dell'Esercito di Liberazione del Kosovo, Adem Jashari, ucciso dalla polizia serba nel 1998.

Al fischio finale sembra che a giocare in campo sia stata a tutti gli effetti la nazionale albanese e che abbia compiuto un'impresa vera e propria. La fan zone è in estasi totale e volano bicchieri di birre piene in mezzo alla folla.

La piazza ci mette un po' a svuotarsi e ancora prima che questo avvenga iniziano ad arrivare le prime notizie sui social, con meme infarciti di aquile preparati a tempo di record. La follia collettiva si scatena anche a Pristina, con caroselli di macchine e clacson a dismisura.

Da una desolata Mitrovica nord, invece, Matteo mi informa che loro al termine della partita stanno proseguendo la serata in una tipica kafana - un luogo di ritrovo quasi esclusivamente per uomini per dissertare su più o meno ogni possibile argomento tra fumo e alcool - in mezzo ai volti scuri e i musi lunghi dei soli maschi presenti. Tra timidi tentativi di affrontare temi che vanno dai presunti colpevoli del fallimento calcistico della nazionale serba a delicate questioni di appartenenza territoriale, piano piano la rakjia inizia a fare il suo dovere, offuscando la delusione della sconfitta e della beffa subita, ristabilendo a tratti anche una parvenza di buon umore. Qualcuno, mi dice, ha addirittura l'ardore di intonare un qualche coro al tavolo.

A Mitrovica sud, a poche centinaia di metri da dove si trovano loro, nel frattempo hanno iniziato a sparare in aria dei fuochi d'artificio. Come mi aveva detto qualche ora prima, alla fine qualcuno avrebbe festeggiato.

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