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Il senso dell'aquila
26 giu 2018
26 giu 2018
I significati dell'esultanza che ha portato alla multa a Xhaka e Shaqiri.
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Dopo la vittoria della Svizzera sulla Serbia per 2-1 nell’ultima giornata del girone E, la FIFA ha multato Granit Xhaka, Xherdan Shaqiri e Stephen Lichsteiner per aver mimato con le mani le ali di un’aquila dopo aver segnato. La multa è arrivata a seguito di un’indagine che avrebbe potuto avere come pena massima la squalifica per due partite, privando la Svizzera di tre dei suoi giocatori fondamentali.

 

Per comprendere l’iniziativa della FIFA bisogna ricostruire il contesto intorno al gesto dei due giocatori svizzeri di origine kosovara, ma vale la pena fare una prima riflessione sull'atteggiamento di Lichsteiner (multato, tra l'altro, della metà dei franchi svizzeri rispetto agli altri due).

 

Perché anche lui, capitano della Svizzera, nato a Adligenswil nella svizzera tedesca, ha festeggiato "al modo dei kosovari"?

 




 

Lichsteiner non aveva nessun motivo politico o identitario per mimare l'aquila albanese verso gli spalti come Shaqiri e Xhaka. Magari è stata solo una reazione emotiva, di semplice imitazione, ma si potrebbe dire che in ogni caso simbolicamente finisce per comunicare i sentimenti complessi della squadra svizzera; ci dice, cioè, che l'identità kosovara della squadra - Shaqiri, Xhaka, Dzemaili e Behrami - è ormai talmente parte di quella svizzera che non c'è più distinzione, promuovendo un'idea di Paese diversa da quella che ci si potrebbe aspettare, e che a molti non piacerebbe.

 

La prima volta che Shaqiri mise la bandiera del Kosovo sui propri scarpini (come 

anche durante la partita contro la Serbia), fu messa in discussione la sua fedeltà alla Nazionale in Svizzera, un paese in cui il dibattito sull’immigrazione negli ultimi anni è stato particolarmente aspro: solo quattro anni fa il partito di destra SVP (Partito del Popolo) ha promosso e vinto un referendum per limitare l'immigrazione nel paese. In un pezzo per

, l’ala dello Stoke City

: «Penso che i media spesso fraintendono i miei sentimenti per la Svizzera. Sento di avere due case, è davvero così semplice».

 

In questo senso, l'esultanza con l'aquila a due teste di Shaqiri, Xhaka e Lichsteiner, è stata solo un gesto divisivo, di odio, meritevole di un'ammenda perché provocatoria nei confronti del pubblico serbo, o anche un gesto di unione, di solidarietà, di orgoglio, di integrazione?

 


Le famiglie di Xhaka e Shaqiri sono kosovare di etnia albanese ed entrambe si sono rifugiate in Svizzera per via della guerra esplosa in Kosovo all’inizio del 1998. Il padre di Xhaka, Ragip, è stato un prigioniero politico dell’ex Jugoslavia, per aver partecipato nel 1986 ad una manifestazione a favore dell’indipendenza del Kosovo, quando era ancora soltanto una provincia autonoma jugoslava. Dopo tre anni e mezzo passati a condividere una cella con altri quattro uomini ed aver subito maltrattamenti e percosse, Ragip Xhaka ha deciso di trasferirsi con la moglie in Svizzera, dove tra il 1991 e il 1992 nasceranno Taulant (anch’egli un calciatore, che ha scelto la Nazionale albanese) e Granit.

 



 

Shaqiri, invece, è nato in Kosovo. Nel 1995, quando aveva 4 anni, la sua famiglia decise di trasferirsi in Svizzera per quel deterioramento della situazione politica ed economica del Kosovo che avrebbe portato alla guerra solo pochi anni dopo. Nonostante il giocatore non abbia vissuto la guerra in prima persona, il conflitto ebbe comunque un effetto reale sulla sua vita. I genitori mandavano una buona fetta dei propri magri stipendi (il padre faceva il muratore, la madre la donna delle pulizie) ai membri della famiglia rimasti in Kosovo durante la guerra.

 

Nessuno dei due è propriamente un rifugiato di guerra, come è stato scritto erronaemante in questi giorni, ma entrambi hanno un passato che li lega direttamente al conflitto e più in generale alla complessa situazione politica del proprio Paese.

 

Il Kosovo si è dichiarato indipendente per la prima volta nel 2008, a circa 20 anni dall’esplosione del conflitto. Prima dell’implosione della Jugoslavia nella seconda metà degli anni ‘90, il Kosovo ha sempre fatto parte della Serbia sotto forma di regione autonoma per via della maggioranza etnica albanese che lo abitava (il conflitto esplose proprio nel momento in cui la Serbia tolse lo status di regione autonoma al Kosovo). Non c’è da stupirsi, quindi, che la Serbia, con il sostegno diplomatico della Russia, non ne abbia mai riconosciuto l’indipendenza, continuando a considerarlo una parte del proprio territorio. Ma anche una parte del mondo politico albanese, perseguendo il progetto nazionalistico della “Grande Albania”, considera il Kosovo parte del proprio Paese (insieme ad altri territori a maggioranza etnica albanese in Montenegro, Macedonia e Grecia).

 

Il gesto fatto da Shaqiri e Xhaka è un chiaro riferimento alla bandiera albanese, che mette un'aquila nera a due teste su uno sfondo rosso. Un simbolo presente sullo stemma della casata dei Castriota, che diede i natali all’eroe nazionale Skanderbeg, che nel XV secolo lottò contro il dominio ottomano nei Balcani. La stessa parola con cui gli albanesi chiamano il proprio paese, cioè Shqipëria, deriva dalla parola shqiponjë, che significa per l’appunto “aquila”.

 

Il gesto dell’aquila è molto diffuso sia in Albania sia, soprattutto, nelle innumerevoli comunità di etnia albanese sparse per l’Europa e nel mondo, come manifestazione di orgoglio nazionale.

 

Spesso viene fatto anche in contesti neutri, "non conflittuali", come semplice manifestazione della propria identità: Valon Berisha, attaccante norvegese di origini kosovare del Red Bull Salisburgo, lo fece dopo aver segnato alla Lazio nei quarti di finale d’andata dell’ultima edizione dell’Europa League. Il presidente della repubblica albanese, Ilir Meta,

Svizzera-Serbia in diretta nel giardino della sua residenza, festeggiando con il segno dell’aquila a fine partita.

 




 

Il gesto dell’aquila quindi non è assimilabile ad altri che in passato hanno attraversato il mondo del calcio balcanico e che sono spesso associati ad ambienti di estrema destra, come il gesto serbo delle tre dita (che fu utilizzato da molti giocatori serbi della Stella Rossa di Belgrado dopo la vittoria della Coppa dei Campioni nel 1991) o il coro croato “Za Dom Spremni!” (motto degli ustascia durante la Seconda Guerra Mondiale, utilizzato da Josip Simunic durante una partita con la Croazia nel 2013).

 


È evidente che per Shaqiri e Xhaka l’esultanza aveva un peso diverso, "conflittuale". E forse si spiega anche col fatto che la maggior parte del pubblico russo simpatizzava per la Serbia e che durante la partita alcuni tifosi serbi

gli ormai famosi striscioni “Kosovo is Serbia” (e per cui anche la federazione serba è stata multata dalla FIFA).

 

I due giocatori sono stati fischiati praticamente ad ogni palla toccata: il gesto dell’aquila, in questo senso, è stato anche l'ultima parola nella sfida psicologica che lo stadio gli aveva lanciato. E a quanto pare, Xhaka, dopo aver segnato il gol dell’1-1, si è anche rivolto verso gli spalti gridando “Kosovo”.

 

Per questo, l’obiettivo dell’indagine della FIFA era quello di accertare se le esultanze di Xhaka e Shaqiri fossero dirette a promuovere l’idea della Grande Albania, fatto che farebbe rientrare l’atteggiamento dei due giocatori all’interno delle violazioni previste dal codice etico dell’organizzazione, come incitamento alla violenza o all’odio, provocazione del pubblico, comportamento offensivo e discriminazione. Alla fine Xhaka, Shaqiri e Lichsteiner sono stati multati per comportamento anti-sportivo. Ma in casi come questo il confine tra un gesto provocatorio e uno d'orgoglio (la rivendicazione di un'identità negata) è labile.

 





 

I divieti della FIFA, com’è noto, si basano sul vago assunto che calcio e politica non devono mischiarsi. Una contraddizione tanto ironica quanto palese quando calata nel contesto di una competizione in cui si fronteggiano Nazionali che rappresentano Paesi diversi, in quella che è di fatto una rievocazione pacifica delle vere guerre.

 

Ai Mondiali tutto è fatto per rinsaldare il concetto d’identità Nazionale: dalla mano sul cuore durante gli inni alle magliette con i colori delle bandiere, fino ad arrivare ai tifosi con gli abiti tradizionali sugli spalti. Ai giocatori, in questa gigantesca rappresentazione del nazionalismo, viene chiesto di essere semplici figuranti, di recitare la propria parte senza uscire dal copione.

 

Ma la realtà è quasi sempre più complessa di quella che ci vogliamo raccontare. In questo senso, non bisogna nemmeno cadere nella trappola di beatificare una parte e demonizzare l’altra, come invece ha fatto una parte della stampa nazionale e internazionale. Innanzitutto, anche le reazioni della Serbia (che, non bisogna dimenticarlo, perse quella guerra dopo essere stata bombardata dalla Nato) sono giustificate da un passato doloroso, anche per molti civili che ne hanno pagato le conseguenze.

 




 

Il Kosovo, che ospita una consistente minoranza serba, è considerato la culla del nazionalismo serbo per esser stato lo scenario nel 1389 della

, dopo la quale iniziò la lunga dominazione ottomana. Una fetta dell’opinione pubblica serba accusa la comunità internazionale di aver preso le parti del Kosovo albanese in maniera faziosa dopo il conflitto, soprattutto nel giudizio dei crimini internazionali commessi, e sotto questa luce vanno lette le dichiarazioni del CT serbo Mladen Krstajic che dopo la partita ha dichiarato che avrebbe mandato l’arbitro all’Aia dove «lo metterebbero sotto processo come fanno con noi» (perché non aveva concesso un rigore su Mitrovic per una trattenuta evidente).

 

Sono cose di cui non si deve più parlare, che dovrebbero restare private? Questioni troppo complesse per entrare nel mondo del calcio? L'opinione di chi scrive è che situazioni come quella generata dalle esultanze di Shaqiri e Xhaka, in ogni caso, permettano di aprire una finestra sui pensieri e i sentimenti degli allenatori e dei giocatori, che sono persone in carne e ossa. Discuterne potrebbe addirittura permetterci di disinnescare la logica tossica del nazionalismo, di comprendere la complessità dietro gesti che non rientrano nella narrazione dominante.

 

I divieti della FIFA, in questo senso, non sono solo ottusi ma anche inutili, perché le idee politiche dei calciatori fuoriescono lo stesso, come erba tra le crepe di una strada.

 

Ad esempio,

, capitano della Serbia, i tifosi della Svizzera dovrebbero essere infastiditi dal fatto che «un loro giocatore esulti facendo il simbolo dell’Albania». Capire la differenza ideologica tra queste dichiarazioni, puramente nazionaliste e divisive, e i significati che potrebbero celarsi dietro il sostegno gratuito di Lichsteiner ai suoi compagni, potrebbe non solo essere più facile del previsto, ma forse anche interessante.

 

 

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