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Daniele Manusia
E chi se ne frega?
03 apr 2024
03 apr 2024
La nuova docuserie sul Manchester City non sembra avere nulla da dirci.
(di)
Daniele Manusia
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IMAGO / PA Images
(foto) IMAGO / PA Images
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Tutto ebbe inizio con Sunderland Till I Die (che d'ora in poi chiamerò STID per brevità), la serie TV prodotta da Netflix che doveva raccontare la lotta per tornare in Premier League di una squadra appena retrocessa e che, invece, raccontò un’inaspettata nuova retrocessione alla fine della stagione 2017-18. No, in realtà non iniziò tutto con quella serie. Non solo di documentari sul calcio se ne erano già fatti molti in passato (il Sunderland stesso aveva fatto un’altra serie nel 1998, Premier Passions, che accidentalmente raccontava un’altra retrocessione) ma proprio pochi mesi prima di STID era uscita la prima serie Amazon dedicata a una squadra di calcio, All or Nothing: Manchester City. E infatti il successo televisivo di STID, la grandezza e l’autenticità di un documentario che doveva raccontare una cosa e invece finì per raccontarne un’altra,fu subito confrontata con la “imbarazzante piattezza” del prodotto Amazon. Adesso, sei anni dopo, esce un altro documentario sul Manchester City: Together: Treble Winners, sulla passata stagione conclusa dalla squadra di Pep Guardiola, con la vittoria in finale di Champions League contro l’Inter.

Ma, appunto, sono passati sei anni e nel frattempo molte altre squadre hanno provato a replicare il successo del Sunderland o quanto meno a rifarsi l’immagine con una serie TV. Ci è riuscito solo il Wrexham (Welcome to Wrexham) e per ragioni molto specifiche, se non si considera come una vera squadra il Richmond di Ted Lasso. Raccontarsi, drammatizzarsi, ha funzionato a cambiare l’immagine della Formula 1 con Drive To Survive, oggi alla sesta stagione, mentre non ha funzionato con Break Point per il tennis, cancellata da Netflix dopo appena due stagioni. Chi sente il bisogno di un’altra serie sul Manchester City, e più in generale su una squadra di calcio come il Manchester City, vincente, di primissima fascia, che non rischia di retrocedere per la seconda volta di seguito? Quanti calciatori dobbiamo veder stonare canzoni per presentarsi alle nuove squadre? Quante pacche sulle spalle, quanti scherzoni tra compagni di squadra, quanti discorsi pre-partita, post-partita, in-mezzo-alla-partita dobbiamo vedere? Quanti risultati, quante rimonte, quante goleade, quante triplette, quante sconfitte che sembrano inconcepibili, delusioni cocente ma sempre momentanee, punti di partenza, trampolini da cui ripartire? Quanti Pep Guardiola dobbiamo guardare darsi manate sul petto per sottolineare un concetto - troppe manate, troppo forti, di sicuro Pep si è lasciato il segno della sua stessa mano sul pettorale per girare la prima scena del documentario - quante volte dobbiamo guardare allenatori comportarsi in un modo che, fuori da un campo da calcio, è tanto imbarazzante - Guardiola che in mezzo a un allenamento grida “It’s so good! Tiki, tiki, tiki-taka, tiki-taka, I love it guys!” - quanto non interessante?Ma non voglio tirarla per le lunghe anche io. Questi prodotti non hanno più senso per varie ragioni. La prima è che questo stesso genere di cose le vediamo sui social media, postate dagli stessi calciatori o da qualche rivista online brillante. Di scherzi, aneddoti, cazzatelle varie - Bernardo Silva che ha chiamato il proprio cane John per prendere in giro John Stones - sono pieni i nostri feed.Persino le migliori parti di questi documentari finiscono a pezzi sui social: non c’è bisogno di vedere l’intera serie, basta aspettare un paio di giorni che qualcun altro l’abbia vista al posto nostro per leggere che, nell’ultimo episodio, Guardiola dice che l’Inter non era una squadra solo difensiva - e magari mentre scrivo sta già girando quella clip, o un’altra simile.Oltretutto, spesso le parti migliori di questi documentari sono quelle lasciate involontariamente, sfuggite alla censura interna delle squadre. Tipo la clip di Ronaldo che sbrocca nello spogliatoio della Juve e Cuadrado che cerca di calmarlo, se qualcuno all’interno del club avesse intuito che quella scena poteva diventare semivirale come poi è stato, o se Ronaldo si fosse preso la briga di controllare il montato, sicuramente sarebbe stata tagliata. L’impressione è che, fosse per i club, si potrebbe tranquillamente tagliare il girato di ogni sconfitta. Lasciare solo le vittorie.Lo scopo delle squadre di calcio è quello di aprirsi mantenendo il controllo, una finta operazione-sincerità con cui manipolare la percezione dei tifosi, mettendosi in competizione per il loro tempo, dandogli un prodotto da consumare che sia innocuo, per loro, e che dia l’illusione di aver accorciato la distanza siderale che ormai li separa dai calciatori che li rappresentano e da quei club che sentono come una cosa di loro proprietà. Come si dice: senza filtri, ma fino a un certo punto. Al tempo stesso i tifosi del Manchester City non hanno bisogno di riassunti di pochi secondi delle partite più importanti della passata stagione per ricordarla, e se vogliono rivedere il gol di Haaland contro il Borussia Dortmund sono a due clic di distanza in qualsiasi momento. Il problema non è che dalla serie sia scomparso Joao Cancelo, o che non si faccia menzione delle infrazioni del FFP venute a galla proprio lo scorso anno, ma (da un punto di vista strettamente televisivo) che a un certo punto di Together ci viene spiegato che la Champions League ha una fase a gironi fino a dicembre e poi, dopo dicembre, una fase a eliminazione diretta. E viene da chiedersi a chi stiano parlando se non a persone con cui quel tipo di informazioni si possono dare per scontate. In realtà lo scopo della TV che produce il documentario, e in parte anche del club, è quello di creare un prodotto accessibile a più persone possibili, che attragga cioè anche nuovo pubblico. Il che però non può avvenire senza alienarsi parte del pubblico più fedele, o comunque creando un prodotto semplicemente scadente per molti dei propri potenziali spettatori. Insomma il problema è sempre lo stesso: e cioè che il mondo del calcio vuole comunicarsi senza comunicare veramente niente. Vuole mostrarci la superficie, la banalità del lavoro quotidiano - i torelli, i discorsi degli allenatori che decontestualizzati fanno inevitabilmente la figura dei pazzi - e la banalità dei loro stessi calciatori. D’altra parte non è quello che vorrebbero tutti i tifosi, poter entrare nei centri di allenamento, guardare i calciatori da vicino mentre pranzano, cose così? Sì e no. Una cosa è viverle davvero quelle situazioni - immagino che stare seduti di fronte a Pep mentre si prende a schiaffi da solo sia diverso che guardarlo mentre si lotta contro il sonno sul divano - un’altra è sentirle raccontate, o vederle attraverso uno schermo. Qui il filtro c’è per forza. C’è il montaggio, c’è la regia, c’è la scrittura (anche solo come selezione delle moltissime scene a disposizione). Il filtro, anzi, andrebbe rivalutato. Gli andrebbe data fiducia. Ma è quello che i club si stanno sforzando di eliminare o controllare, ben al di là di quanto facciano con le serie TV. Ricattando, implicitamente o esplicitamente, questo o quel giornale, questa o quella TV. Concedendo interviste con domande, implicitamente o esplicitamente, concordate, con risposte verificate o magari modificate. Con la presenza dell’ufficio stampa vicino al calciatore al momento dell’intervista neanche fosse un avvocato. Ma anche gli stessi giocatori e gli allenatori ne farebbero volentieri a meno, preferiscono comunicare direttamente con un post, con una storia.Questo tipo di racconto sportivo è scadente sia dal punto di vista giornalistico che da quello dell’intrattenimento. Nessuno ricorderà o riguarderà Together tra dieci anni - e forse neanche tra un paio di mesi - mentre rimarranno per sempre i profili scritti da grandi scrittori nel secolo scorso. Gay Talese su Joe DiMaggio, Norman Mailer su Ali o, per fare un esempio a noi più vicino, le interviste di Gianni Minà a Maradona, i pezzi di Brera su calciatori che poi lo leggevano, che magari non si sentivano lusingati da quello che scriveva ma che con lui, col suo mondo - col mondo - avevano un rapporto.Rimarranno i documentari più artistici - il ritratto di Zidane dell’artista Parreno - quelli partiti per raccontare qualcosa di “positivo”, di “successo” ma che sono finiti a raccontare un fiasco - An Impossibile Job, sulla mancata qualificazione dell’Inghilterra a Usa ‘94 - e persino quelli propagandistici ma che hanno conservato un minimo di autenticità - Les Yeux Dans Les Bleus, che racconta la vittoria del Mondiale ‘98 della Francia. Più a fondo va riscoperta l’importanza di uno sguardo minimamente autoriale o critico. Va restituito il rispetto necessario per far svolgere al meglio il proprio lavoro ai giornalisti, va data fiducia ad outsider che portino un punto di vista diverso, diagonale, a scrittori che magari non faranno un prodotto pubblicitario ma che riusciranno a far sembrare interessante qualcosa che non è detto per forza che lo sia. Niente è interessante se si resta troppo in superficie e Together: Treble Winners, racconto di una delle squadre e uno degli allenatori più straordinari di questi anni, se non altro serve a ricordarcelo.

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