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Michele Cecere
Gianni Minà, giornalista dell'empatia
28 mar 2023
28 mar 2023
Ricordo di un grande del giornalismo italiano.
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Michele Cecere
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Diego Armando Maradona è seduto su una poltrona rossa, con la mano destra regge il microfono mentre aspetta timidamente che gli venga data parola. Fa un certo effetto guardarlo così, con lo sguardo serio e trasognato. Indossa ancora la maglietta azzurra della Nazionale italiana. Solo l'ironia con cui Gianni Minà segna l'inizio dell'intervista stappa l'imbarazzo iniziale di chi è finito nella tana del nemico: «Questa è la faccia di Masaniello con la maglia di Baggio».

Sono passati pochi minuti dal fischio finale della semifinale di Coppa del Mondo. Maradona ha guidato l'Argentina alla seconda finale mondiale consecutiva, eliminando l'Italia padrone di casa ai rigori, è probabilmente diventato l'uomo più odiato del paese. Prima della partita, però, aveva promesso a Minà un'intervista esclusiva se l'Argentina avesse superato il turno.

Il più importante calciatore del mondo che offre un pezzetto di sé, del proprio godimento, della propria paura («Io non voglio finire malamente» dice Maradona quando Minà gli ricorda la fine di Masaniello) al pubblico attraverso un giornalista straniero con cui non dovrebbe avere niente a che fare, ma nel quale Maradona aveva riposto la sua fiducia: «Avevo spiegato al suo responsabile stampa che volevo parlare con lui non di tattiche ma della vita, di quello in cui credeva, senza pettegolezzi» ha scritto Minà nel suo ultimo libro Diego Maradona, non sarò mai un uomo comune. Nell'arco di una carriera inesauribile – cominciata a Tuttosport nel 1959 –, il giornalismo di Gianni Minà è stato innanzitutto questo: humour, schieramento, umanità. Un giornalismo dell'empatia, cioè, in cui la curiosità intellettuale non tracimava nel voyeurismo della sofferenza o della felicità.

Non possiamo dimenticare questa lezione. Se i grandi personaggi del Novecento si sono aperti a Minà, consegnandosi a lui nei momenti più bui (Maradona parlerà solo con Minà quando verrà squalificato dalla FIFA ai Mondiali di USA '94), è stato anche grazie alla sua capacità nel raccontarli. Grazie al piacere per scomparire nella dialettica con loro, facendo emergere la voce dei protagonisti. «L'aggressività dei giornalisti di oggi è cretina» ha detto Gianni Minà nel 2016.

Minà si ribella a un giornalismo pornografico, morboso per la crudeltà con cui insisteva sulle fragilità degli sportivi. Sempre in un'intervista del 2016 ha rivelato di essere in possesso di alcuni filmati privati di Diego Maradona, delle sue sedute con gli psicologi quando stava provando a disintossicarsi dalla cocaina. La domanda che a primo acchito sorge spontanea è: perché non ce li ha mai mostrati? Per qualunque giornalista, quel materiale avrebbe sancito una carriera. Come ha scritto Alice Oliveri su The Vision, però: «In realtà la bravura di Gianni Minà e del genere di giornalismo che ha coltivato durante la sua lunga carriera è proprio nella delicatezza dell’approccio con cui ha sempre condotto le sue interviste. Non c’è aggressività, né tantomeno giudizio, verso chi è seduto di fronte a lui, semmai ironia, gentilezza e interesse, tutti elementi che portano il personaggio oggetto del colloquio a essere ben disposto a rispondere, invece di sentirsi assalito dalla fame di sapere di chi lo sta guardando».

Per quindici anni, dal 2000 al 2015, è stato direttore di Latinoamerica e tutti i sud del mondo. Ha curato la collana Continente desaparecido per la casa editrice Sperling & Kupfer. Ha seguito dal vivo otto mondiali di calcio e sette Giochi Olimpici, oltre a decine di Mondiali di boxe – dove ha raccontato Muhammed Ali, prima di invitarlo a cena una decina d'anni dopo nell'iconica foto con Sergio Leone, Robert De Niro e Gabriel Garcia Marquez. Nel 1978 fu cacciato dal Mondiale in Argentina per una domanda sui desaparecidos. Insomma, non potremmo riassumere la sua carriera in un libro intero, ma possiamo interrogarci sull'eredità culturale di Minà, sul suo approccio unico al giornalismo.

Negli ultimi anni abbiamo ritrovato Gianni Minà attraverso le foto che lui stesso aveva iniziato a pubblicare sui social media – tra l'altro, aveva anche aperto un crowfounding per creare un archivio digitale e riappropriarsi dei diritti per i suoi reportage e interviste, ancora oggi alla RAI: si chiama Minà's Rewind. Tra il nuovo trend uber-istantaneo di Tik Tok e l'eterno video di gattini possiamo scorgere un uomo dalla faccia simpatica e fuori dal tempo, intorno a cui sfilando i Beatles, Martin Scorsese, Gabriel Garcia Marquez, Sergio Leone, Fabrizio De André. Nell'era in cui ci serviamo delle intelligenze artificiali per manipolare le fotografie del Papa per vestirlo con un piumino kitsch talmente irreale da diventare concreto per la massa, l'archivio di Minà ci ha invece ricordato l'esistenza di un'epoca giornalisticamente analogica.

Una parentesi della storia in cui il racconto della realtà era legato indissolubilmente all'esperienza concreta. Nelle foto Gianni Minà sorride come un bambino, spesso ha la testa inclinata sulla spalla di un intervistato. Eppure sono fotografie estremamente umane, prive di qualsiasi patina romantica. Minà tocca i corpi di De Niro, Mennea o Fidel Castro e attraverso quei corpi intesse la propria narrazione. Quelle foto, che per chiunque suonerebbero leggendarie, nello stile di Minà assomigliano a un quadro di Gustave Courbet: la realtà per com'è, non per come la vogliamo rappresentare.

In un celebre monologo durante il programma Alta Classe, Massimo Troisi diceva di invidiare a Minà la sua agendina telefonica: «È uno che se chiama Cassius Clay non è che gli sbattono il telefono in faccia. No, quello Cassius Clay va a telefono e dice "Hi Gianni! How are you?"». Com'è possibile? D'altra parte, però, se provate a pensare al prototipo di giornalista neutro o super partes forse non vi verrebbe in mente Gianni Minà.

Vi basterà pensare al punto di vista che fuoriesce da ogni suo libro, articolo o reportage. L'attenzione verso i radicali cambiamenti del Sud America del Novecento («Chico Buarque de Hollanda è stato un cantautore migliore di Bob Dylan» una delle sue sentenze più identitarie), il documentario su Fidel Castro o lo strenuo garantismo con cui ha difeso mediaticamente Maradona dall'assalto della FIGC dopo la squalifica per doping nel 1991 sono state prese di posizione politiche. Minà ci ha riconsegnato l'idea di un giornalismo schierato, semplicemente perché così è ogni uomo e ogni intellettuale, ma allo stesso tempo libero da ogni sovrastruttura. Una libertà che avranno respirato Gian Maria Volonté o Gregory Corso quando sono stati invitati a Blitz: «Mi hanno sempre attratto persone capaci di andare controcorrente, anche a costo dell'isolamento, della solitudine».

Eppure quella critica di cui parlavamo, la stimolazione intellettuale che le domande di Minà generavano negli intervistati è forse la prima risposta al successo internazionale di Blitz e del suo creatore. Provate a recuperare l'intervista a Muhammed Ali del 1975. A un certo punto quello prende Minà e lo trascina nell'inquadratura, e dice: «Vedete quest'uomo? Mi segue da dieci anni e lo farà per altri dieci, perché sa anche lui che io sono il migliore». I toni dell'intervista, però, erano stati tutt'altro che bonari, con domande affilate tipo: «Questo suo tono aggressivo mentre parla lei lo sceglie o le viene naturale?». Oppure qualche secondo dopo, quando aveva introdotto il topos della protesta e del dissenso: «Lei ha scelto questo modo di parlare perché va bene per farsi pubblicità o perché ha capito che un uomo della sua generazione per farsi ascoltare deve urlare?».

Arrivati a questo punto potremmo persino cambiare definizione e passare da "giornalismo dell'empatia" a un più totalizzante "giornalismo umanistico". È stato un privilegio abbandonarsi alla narrazione degli sportivi come veri e propri uomini rigettando la retorica o il sensazionalismo. E se abbiamo potuto farlo è stato grazie a Gianni Minà, che si è avvicinato a loro entrando dalla porta sul retro, che arrivava a essere lì con loro senza invadere il campo. Minà si è occupato dello sport come motore di cambiamento sociale, ha dato voce agli atleti nella loro funzione più controversa. Ha dato voce alla mente e alle idee di persone a cui di solito attribuiamo una grandezza puramente meccanica.

C'è una scena di Natural Born Killers in cui Oliver Stone dice: «Come si chiama quel giornalista italiano che intervistò Fidel Castro?». Forse è così che dovremmo conservare il ricordo di Gianni Minà, perché se era diventato amico di grandi sportivi e artisti, o comunque conservava con loro rapporti di stima reciproca, lo doveva proprio al giornalismo, al racconto, alla divulgazione. Se Gianni Minà è diventato Gianni Minà nella nostra cultura di massa – epitome di dolcezza e rispetto per gli intervistati, per lo sport, per l’umanità – lo deve, come ha detto più volte anche lui, al mestiere più bello del mondo.

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