Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Jvan Sica
Gianni Brera racconta Maradona
27 mar 2024
27 mar 2024
Come il celebre giornalista ha scritto del "Diez".
(di)
Jvan Sica
(foto)
Dark mode
(ON)

Scrivere di Brera e Maradona non è un percorso piano, è pieno di accidenti, di buche profonde e paesaggi incantevoli. Brera ha cercato anche troppo (oggi il peggiore redattore al mondo gli riderebbe dietro) di conoscere l’uomo, che per un caso fortuito era anche sportivo. Ha cercato di farlo anche con Maradona e questi sono i risultati.

Il primo accenno su La Repubblica, giornale per cui Gianni Brera scrive dal 1982, è del 16 giugno 1984. A Barcellona si sta vivendo l’avventura romanzesca del passaggio di Diego dal Barça al Napoli, ma Brera lo afferra un attimo solo per cercare di definire Scifo, brillante calciatore belga che stava ben facendo con la Nazionale venendo accostato a tante squadre italiane. Un momento insapore a dire la verità, ma si rifarà. Nelle idee breriane non mancava il coraggio delle opinioni e dei pronostici (usanza ormai scomparsa per paura del revenge-prediction sui social) e per spiegare calciatori mai visti e poco ammirati e capiti anche dalla sua testa, per spiegarli e spiegarseli quindi li associava ad altri, più noti. E in questo senso parla di Scifo, dicendo che "è stilisticamente a mezzo tra Maradona e Rivera: del primo non ha forse il genio goleadoristico, del secondo non ha la potenza del lancio", rilanciando poco dopo con focus più netto sul campione sudamericano e creandogli il primo appellativo "divino aborto". Genio, divino e aborto: i primi tre termini utilizzati rientrano nell’idea che non di campione totale stiamo parlando, ma anche con riferimento al corpo e alla testa, due elementi che per Brera vanno sempre a braccetto. Troppo corto e tozzo, oltre a essere poco universale nel pensare il gioco per essere divinità assoluta. Maradona poi sfonderà questi orizzonti corti e bui e per Brera la divinità assurgerà (anche se in questo pezzo già parlerà di "santa gamba" sbriciolata da Goikoetxea) verso l’altissimo. Poi passa l’1 luglio e la notizia dell’acquisto. Già il 3 dello stesso mese Brera decanta l’arrivo prossimo, esaltando la simmetria con l’hispanidad napoletana, arrivando a profetizzare, come cercava sempre di fare riuscendoci a spizzichi e bocconi, quello che accadrà il 5 luglio allo Stadio San Paolo e da lì in avanti in quella città: «Sappiamo solo che se un poeta-musicista vorrà cantare l’arrivo di Maradona in elicottero, fatalmente dovrà ricordarsi del Cigno di Sigfrido. Il romantico Wagner si rifaceva al mito: i napoletani irridono al suo genio facendo sgattaiolare Maradona da un mostruoso cervo volante. Sarà di notte, spero, e improvvisamente Vulcano risveglierà le fiamme del Vesuvio. Niente più di un tuono e di un trictrac rossiccio disegnato nel cielo. Poi Maradona chiederà una palla e incomincerà ad animare in terra la sublime armonia dei mondi». Si inizia a giocare e alla prima Briegel, definito da Brera "Re Armadio", ferma Maradona che però qualcosa mostra. L’analisi è lucida e non da cassazione.

La cosa che ancora una volta emerge è la preoccupazione breriana per quel fisico forse troppo esile o comunque non pronto per le disfide in Serie A. I termini che usa sono "omarino", "genietto", "negletto" (per l’abbinata pochezza della sua squadra). Molto interessante poi è l’analisi delle prime partite viste dal vivo con il 10 in campo. Dopo solo un’occhiata sa dire che "per marcato che sia, gli basta un passo di vantaggio, e sulla palla riesce a fare quel che vuole. Non è superbia, a pensarci, è umiltà: infatti, se non è protagonista si scoraggia ed abbioscia, dopo essersi inquietato sagrando", sempre ribattendo che "il genio di Maradona raggia felicissimamente, però in una specie di inquietante ammoina", in quel meraviglioso shaker in cui mette poche ma dosatissime parole che odorano di dialetto e parlesia. La parola che più utilizza dal 1984 al 1986 pre-Mondiali messicani è «genio» e ne spiega meglio il concetto nel paragone con Platini. "Quello disegna schemi euclidei, questo pattina bailando sull’erba", per sottolineare il sudamericano estro di chi cerca sempre l’altrove e spesso può non essere la vittoria. Il suo è un genio ancora acerbo, in divenire, anche se Brera non sa dove andrà e dove porterà il Napoli e il calcio. È un genio che "sfavilla arguzia e marioneria dai suoi occhietti criolli", sottolineando come da sua antica e mai persa prospettiva nella genìa razziale c’è tanto di quello che mostriamo e anche di quello che siamo. Una delle definizioni che preferisco e che sottolinea anche la capacità breriana, un’innata competenza nel decrittare in pochissimo tempo uomini, tempi e luoghi, è quella che sceglie dopo la partita con il Torino al San Paolo. Brera, in due righe di una delicatezza e profondità poetica meravigliose, scrive: "Il divino scugnizzo stringe i denti e ci mostra sublime distacco, oltre a inimmaginabile sicurezza stilistica, nel fintare di mezza punta il rigore del pareggio". Mette insieme gli estremi, "divino" e "scugnizzo", perché della stessa alterità rispetto al mondo sono fatti. E questa alterità dalle cose terrene troppo terrene chiama in causa il sublime distacco, figlio della sicurezza stilistica nel tirare un calcio di rigore. Maradona tira un rigore come un dio bambino, un dio scugnizzo appunto, che sa di farti piangere, ma lo fa con il sorriso della benevolenza caravaggesca.

Fino alla partita contro la Lazio del 24 febbraio 1985 di Maradona tutti coloro che ne hanno scritto intravedono l’unicità, la peculiarità e anche la grandezza, ma nessuno si era mai sbilanciato puntando alla straordinarietà che avrebbe portato frutto a una piazza come Napoli.

Quella partita in cui Maradona segna una tripletta con un tiro da centrocampo e un altro dalla bandierina modifica di quei pochi gradi la visione dell’astro e rende capace la messa a fuoco del personaggio-atleta. Siamo di fronte a qualcosa di veramente diverso e Brera è uno dei primi a percepirlo. Se prima infatti si limitava al concetto di genio, come tanti altri ne aveva visti con traiettorie molto diverse fra loro, dopo quella partita Brera inizia a scrivere che Maradona gioca attraverso "gesti minimi sulla palla che sono i più fulminei mai visti da quando esiste calcio". Dopo quella partita la critica giornalistica e la visione tout court di questo campione cambia e lo si inserisce già al limite massimo della storia del calcio, per adesso nei particolari tecnici e nella destrezza pedatoria, come avrebbe detto Brera, con l’occhio però verso l’orizzonte e quello che può accadere. Durante l’estate del 1985 non ci sono grandi tornei e l’attenzione scema. C’è però un pezzo da sbellicarsi per quello che è scritto e da ammirare per come è scritto, in cui Brera riporta un sentito dire e ricostruisce una piccola sceneggiatura due camere, cucina e un telefono. I protagonisti sono tre, Giovanni Agnelli, Italo Allodi e Corrado Ferlaino. Si parla di Maradona. "Sento altri insinuare che Allodi abbia ricevuto una delle solite mattiniere telefonate di don Giovanni: ‘Cavo Allodi, le pvopongo un affave che io stimo intevessante per me quanto per l’ingegnev Fevlaino: mi stia ben a sentive: io le mando Bonjek, Vossi e Tacconi per divettissima; voi mi mandate Mavadona e non un soldo di più’. Allodi connette a fatica: per lui è troppo presto, decisamente appartiene ai vagotonici della mia specie. Così traccheggia, risponde che il progetto è interessante ma lui, pover’uomo, non è certo il padrone: lui può solo riferire all’ingegnere Ferlaino… Don Giovanni si spazientisce un poco: s’indovina dall’arrotarsi più smerigliato delle erre: tuttavia è troppo signore per manifestare il proprio disappunto con uno che si dichiara, per mera astuzia, un umile dipendente. La risposta precisa di Ferlaino non è nota. Io ne vedo le palpebre strizzate del furbo, il labbro inferiore un po’ tumido, ma piegato come esige un modico sarcasmo. ‘Avvocato, buongiorno. Mi ha riferito Allodi…’. Il resto è Mavadona. E credo che don Giovanni sia fortunato anche in questi fantasiosi insuccessi: perché vorrei tanto sapere da lui – posto naturalmente che ne fossi degno – chi correrebbe nel centrocampo della Juventus, se i due interni si chiamassero Maradona e Platini".

In leggerissime pennellate sono ben dipinti anche i tipi umani ed è questo che lo faceva davvero grande. Sempre in quell’estate torrida si torna su chi è Diego Armando Maradona, cosa si è capito dopo un anno italiano. Brera lo dice subito: "Maradona sa fare tutto", intuendo il tuttocampismo dell’argentino e non la sua presupposta incidenza solo negli ultimi metri, "è il giocoliere più rapido e completo che mai abbia prodotto il calcio: le sue invenzioni sono uniche (non le produceva neppure Pelé)", rinnovando l’idea che i suoi occhi hanno visto qualcosa di speciale, di originale e di altissimo, addirittura in cima a tutto il resto. Questa idea di Maradona molto più coinvolto nella manovra della squadra e presente a centrocampo, viene anche dagli acquisti che sta facendo Italo Allodi, nuovo Direttore generale, e di uno in particolare, quello di Bruno Giordano dalla Lazio che prende il posto di centravanti e avrebbe potuto permettere a Maradona di costruire l’azione più in basso. Per creare un parallelismo, Maradona e Giordano per Brera avrebbero dovuto subito parlarsi proprio come avevano fatto Meazza e Piola nel 1937: "Io so ancora che Maradona ha assicurato Giordano che si può fare gol senza scavezzarsi a esplodere bombe: basta un tocchetto, però nell’angolo giusto.

Qualcosa di simile avevo sentito dire da Meazza nei confronti di Piola: alla terza o quarta palla-gol sprecata contro la Francia (zero a zero nel 1937), el Peppin afferrò Silvione per un avambraccio e gli disse: così si fa! Aprì il palmo e lo fece avanzare piano, come se infornasse un panino. Piola deve avere scosso il capo. Per un lomellino pavese purosangue, un milanese è sempre un po’ ciolla. Di far così (cioè di avanzare il palmo aperto) sono buoni anche i fotografi, deve aver ringhiato Silvione. Non ho idea di cosa dirà Giordano a Maradona". Un tocco di maestria giornalistica, in cui realtà, finzione, storia e quotidiano si univano allegramente e con un fascino mai più visto. Non il solo pennino augusto Brera usa per descriverlo, perché quando sbaglia, nota delle piccole debolezze ancora troppo umane. A Pisa sbaglia un gol e punge, scrivendo che "forse scarsamente irrorato di capa per l’insolita veemenza dello scatto", ribadendo che il troppo può stroppiare, sottolineando ancora contro l’Atalanta che il "prodigioso Maradona ha giocato come si può sopportare che facciano i geni, per gloriose intermittenze", indicando anche le sue troppe responsabilità, facendo piccoli piccoli gli altri che si sentono smarriti senza di lui. Infatti fin da subito in questa stagione marchia il Napoli come una squadra ancora "abbastanza qualsiasi", però con un genio-genio capace di farla cambiare. "I suoi limiti sono al momento ignoti". Resta quel velo di mistero che abbraccia un calcio già televisivo ma non pervasivo, non assaltante anche per chi vive di calcio, scrivendone come Brera. Ha da scrivere di un calciatore che può essere il migliore eppure vuole restare proprio in mezzo a quel mistero, tanto è vero che nello stesso articolo dice che quell’anno non lo ha ancora mai visto dal vivo. È un suo modo assolutamente inconcepibile oggi in cui del calciatore misuriamo il talento più che pesarlo, o addirittura lo immaginiamo.

Poi accadono due cose, o meglio due partite, o ancora meglio Maradona dà due calci al pallone e Brera lo inizia a inquadrare ancora da un altro punto di vista. Il 20 ottobre 1985 segna con un pallonetto da quasi cinquanta metri contro il Verona e il 3 novembre 1985 con uno scatto di malleolo contro la Juve su punizione in area di rigore. Maradona per Brera diventa colui che "possiede velocità nei gesti minimi, magia nell’interpretare e sfruttare il minimo effetto della palla". Un virtuoso in pratica, che come Platini è un battitore "di calci franchi improntati all’effetto demoniaco, cioè al gioco vizioso della palla indotta ad urtare l’aria quanto basta per esaltarne l’opposizione" (articolo profeticamente scritto prima della "punizione alla Juve"). E per descrivere poi il giorno dopo quello che per fortuna ha visto, annota: "Lo stesso Maradona, che avvalora ai miei occhi la teoria secondo cui l’uomo non deriverebbe solo dalla scimmia, bensì anche dall’orso, ha sbagliato più del debito nel primo tempo: appoggi incongrui, lanci imprecisi e poi, la dissennata pretesa di bailar fùtbol, dribblando in quel fradiciume. Il senza collo Maradona era giusto un orsetto panda infregolito dalla pioggia sciroccale. E quando finalmente ha preso confidenza con la viscida saponetta che era diventata la palla, allora ha confermato di essere il meglio di tutti. Ha scucchiaiato di mezza punta interna la palla d’un ‘due calci’ sopra l’incombente barriera degli avversari, l’ha fatta volitare ambigua verso la porta e poi, improvviso, piegare e picchiare a destra, dove i due pali si congiungono in alto, alla sinistra di Tacconi… A questo prodigio sono svenuti ben sette napoletani, due dei quali hanno rischiato l’infarto. La gente è sbucata urlando ossessiva di sotto gli ombrelli. Non dimenticherò mai simili scene di amenissima follia collettiva". Quando accade qualcosa di magico, così come lo stesso Brera scriveva per Il Giorno la sera di Italia-Germania 4-3, bisognerebbe fare letteratura e "trattandosi di un tentativo nuovissimo, non dovrei neanche temere di passare per presuntuoso", secondo l’atavico marchio che scrivere di sport non vuol dire poetare ma solo descrivere e intrattenere durante un caffè. Per "LA partita" dice di rinunciare "perché sono stremato, non perché non senta granire dentro la voglia di poetare", ma in fondo per quel momento e per questa punizione di Maradona va incontro a quegli umori gaddiani che tanti gli riconoscono. La partita successiva è a Milano con l’Inter e appare per la prima volta il soprannome "divino scorfano", l’ossimoro definitivo per trattenere in lettere la complessità dieghesca. Prende dimestichezza con la nuova dicitura e la riutilizza anche nel descrivere i fatti della partita successiva contro l’Udinese, in cui vola alto anche per fatti di corna, come si potrà leggere: "Dopo tanta prodezza, il divino scorfano è stato puntualmente arronzato da un avversario: rialzatosi dall’inevitabile toma, egli si è diretto verso il reprobo e l’ha incornato come usano i caproni. L’avversario ha fatto vistosi lazzi di morituro e l’arbitro ha espulso l’incornatore". Ancora vagiti di meraviglia, ma appena Diego flette, Brera gli imputa sempre la stessa cosa: è divino da solo, altri sono celestiali per la squadra. Lui è ancora un angelo che sta per i fatti suoi, un hombre-equipo come alcune volte scrive tenendo ben presente che viene prima l’hombre e poi l’equipo. Gli riconosce però che sa scatenare una vis polemica che inizia a intravedersi per poi deflagrare completamente negli anni a venire. "Cauto semmai col ginocchio, non certo con la lingua", scriverà Brera nel mezzo della stagione che portava al Mundial del Mexico. È in questa stagione che inizia anche la sua solita categorizzazione etnica, che a Brera serve per tratteggiare dei punti di forza o delle debolezze congenite, per creare ponti con antenati e coevi, per costruire enormi volute in cui la genetica razziale decide di far fare o non far fare qualcosa a qualcuno. È un tema di vigoroso dibattito anche perché leggerlo oggi, con ogni categoria che grazie a Dio sta definitivamente sfumando, suona davvero male. Però quando dà del criollo o dell’araucano (alterna i due termini e ne fa un uso parallelo a volte) a Maradona, oltre all’etichettatura di cui abbiamo scritto, Brera vuole anche far prefigurare un’immagine, una sensazione oculare e non solo semplicemente descrittoria. È come se, venendo da epoche in cui l’immagine del campione era occultata e occulta per la massa, con una parola voglia mostrare, far intendere visivamente un fenotipo umano.

Questo struscio gli resta per tutta la carriera e quando la razzialità identificativa inizia giustamente a disturbare, la attenua ma non la molla. Preferisce sempre metterci davanti un tipo umano, con le sue forme fisiche e comportamentali che per lui sono standardizzate o solo in minima parte modificabili attraverso l’apprendimento e il contatto con altre culture. Continua a usare la razza per disegnare. Poi dipinge. Se poi oggi tutto questo per alcuni è anche disturbante, capisco benissimo il fastidio. Finito il campionato vinto dalla Juventus, arrivano i Mondiali del Messico. Quei Mondiali del Messico in cui Maradona fa tutto quello che un calciatore sulla Terra può fare (forse parare un rigore era l’unico elemento aggiuntivo possibile). Brera è sull’Italia e Maradona lo sfiora poche volte. Quando giochiamo contro l’Argentina dà alcuni consigli ex-post a Bearzot anche se lo tratta sempre da monumento, come è giusto che sia dopo Spagna 1982. La "furia demoniaca" di Maradona doveva essere fermata con un difensore di ruolo e istinto e non col compagno di squadra Bagni. Ma è un commento che si lascia quasi scappare, nell’attesa di capire come va a finire per gli Azzurri. Noi usciamo presto contro la Francia di Platini agli ottavi e un occhio più attento a Maradona, Brera lo dà. Dopo le due partite incredibili contro Inghilterra e Belgio, che portano l’Argentina in finale, cerca di inquadrare il fenomenale Diego anche all’interno della storia calcistica del Paese. "Per quasi cento anni hanno sprecato genio calcistico non ritenendo di doversi curare della difesa come i poveri pidocchiosi uruguagi. Poi è arrivato un medico realista, e Maradona è per giunta venuto in Italia a studiare pragmatica. Oggi l’Argentina si difende e gioca in centrocampo con fervida fantasia, avendo Maradona a far gioco per tutti e per giunta a goleare con tutti gli arti, ivi compresa una piolesca manina. Maradona è un indio-napoletano di genio. Ha capito di dover sublimare spartanamente un furto compiendo la prodezza di fare irresistibile slalom fino al secondo gol. Nessuno osa dire che abbia rubato: è solo stato graziato da Mercurio, che di furti se ne intendeva ma… era pur sempre un dio". Unisce qui diverse opinioni di cui ha sempre scritto negli anni. Prima di tutto che brasiliani e argentini hanno vinto quando hanno iniziato a pensare a come difendersi, come appunto hanno fatto nel corso del tempo gli uruguagi i quali hanno un Paese molto più piccolo ma una tradizione calcistica almeno di pari livello. A far pensare in maniera diversa gli argentini di sicuro conta il «medico realista» Bilardo, ma tanto fa anche Maradona che non solo in Italia ha imparato come si difende, ma essendoci lui che immagina calcio per tutti, gli altri possono serenamente dedicarsi al "non prenderle" così da equilibrare le due spinte. Se poi il 10 fa anche i gol che fa, allora siamo ai massimi livelli possibili, livelli che ti consentono di vincere la Coppa del Mondo. Prima della finale aggiunge qualcosa che spesso faceva, ovvero riportava tutto a una contabilità spiccia. Alla fine di tutto il poetare, si chiedeva, ne è valsa la pena? E nell’articolo che segna lo spartiacque tra un prima e un dopo che intitola o fa intitolare Pelé va in soffitta?, inizia con queste parole crude, come stesse dal macellaio: "15 miliardi spesi bene". Quando per uno come Brera sono ben spesi 15 miliardi, vuol dire che il valore è inestimabile. E nel pezzo a chiusura del Mundial messicano, il volo d’uccello sul calcio argentino, su quello che si deve imparare in questo mese di calcio e su cosa potrà fare in Italia Maradona, sono tutti elementi che vengono messi in fila per tratteggiare un bellissimo quadro d’autore. "Nessun Paese al mondo ha mai prodotto tanti campioni quanti l’Argentina: ma sempre aveva perso i grandi appuntamenti con la storia per innata stronzaggine dei suoi prodi".

Un giudizio netto sulle confuse volute del calcio e dei campioni argentini, mai pienamente dentro un progetto per sentirsi magari meno bravi degli altri ma più utili alla causa comune. La morale che cita nel titolo del pezzo è ancora una volta la sua morale, quella che dispiega da decenni, ovvero che nel calcio vince chi sa essere accorto e vorace, non chi si bea o arde di passione. "Il povero dottor Bilardo veniva perseguitato perché si apprestava a snaturare (?) el gran juego argentino. Roba da vomitare, pensate un po’: quel rozzo voleva un libero fisso alle spalle dello stopper (o degli stoppers): non voleva Passarella, gran cannoniere al cospetto del Signore; sopportava il solo Maradona, e gabellandosi per fine psicologo lo induceva a farsi più uomo, a ragionare da uomo-squadra, non più da solista mero. Il dottor Bilardo verrà presto imprigionato come indegno. Ha vinto ma ha smentito gli imbecilli, in un paese che ne vanta a milioni (Italia e Spagna sono buonissime fornitrici). Presto rimetteranno fuori il capino fatuo gli amatori del ‘bel gioco’, dello spettacolo fine a se stesso: il calcio pratico verrà deplorato come si merita. Gli argentini ricominceranno a mancare appuntamenti con la storia. Finché non rinascerà un Bilardo dalle ceneri inconsunte dell’intelligenza". Maradona in questo quadro è il tassello che fa muovere l’ingranaggio nel modo giusto ed è la sua disponibilità per la squadra ad aver determinato la vittoria. Ancora una volta Brera vuole sottolineare come il genio indio vince quando fa "con gli altri" e non "per gli altri", come è accaduto spesso nel Napoli fino a quel momento. "Maradona è stato salutato come il dio della pelota in terra. In certi acuti ha superato Pelé, che nel complesso non valeva (ripeto, per me) Alfredino Di Stefano", ribadendo ancora una volta la sua classifica all-time che terrà certa per tutta la vita.

Ma prima aveva chiamato Diego "L’immenso" e un motivo ci deve essere. La sbornia mondiale finisce, ma nel giudizio, anzi nello sguardo stesso qualcosa è cambiato. Brera assurge Maradona tra i grandi perché vincere un Mondiale come ha fatto non è la quisquilia di un’estate. Questa nuova considerazione gli fa scrivere la massima che diventa stele, come gli è accaduto spesso: "Napoli è la sola grande città protagonista che non abbia ancora vinto uno scudetto: non è pensabile che non debba vincerlo, un anno o l’altro". Lo scrive il 13 agosto del 1986 e se ne ricorderà di lì a poco. E dopo aver visto e capito il Mundial messicano, sa che tutto dipende dalle "ginocchia juppiterine" di Maradona, alzatosi verso gli astri e le divinità pezzo per pezzo. Quando arriva il giorno della prima di campionato però, mette i partenopei solo in terza posizione per la vittoria, prevedendo un campionato «ambiguo» e difficile da decifrare anche per il "famosissimo Maradona", che ritorna a essere soprattutto un nome da dare in pasto ai tifosi e non un comandante che può condurre in porto la nave. Ma già il gol alla prima di campionato, quando Diego supera in dribbling fulmineo un paio di difensori del Brescia al limite dell’area per poi piazzare di giustezza, gli fa scrivere: "Maradona assurge come dovrà e dovette spesso a Deus ex machina d’un Napoli privo di perni fra loro accordati come esige Euclide", sottolineando ancora una volta la capacità dionisiaca ma allo stesso apollinea dell’argentino. Alla sesta giornata, dopo la sfida contro l’Atalanta, usa un nuovo termine per definirlo: "patriarca de oro". Resta il complemento di specificazione classico, ma introduce il concetto di patriarca, secondo l’accezione breriana una sorta di grande riferimento della chiesa di un determinato territorio, che ha sotto di sé tutti i metropoliti, ma che non può essere considerato il capo dell’intero campionato perché altri patriarchi, come lui, hanno nelle mani squadre e territori in lotta per lo scudetto. Arriva il 9 novembre, Comunale di Torino, Juve e Napoli prime a 12 punti.

Il Napoli vince 1-3, la partita che verrà poi ricordata come "La presa di Torino" e Brera parla di un doppio genio al comando degli azzurri, da una parte quello pragmatico di Ottavio Bianchi, "conciso come un illuminista del XVIII secolo" e quello magico di Maradona, che torna "divino scorfano" perché con soprannaturale condotta la squadra del 10 ha ribaltato il risultato dopo il gol di Laudrup. Questa vittoria dà grande slancio al Napoli che deve smentire "il tabù afro-mediterraneo, come già fece il Cagliari, unico esempio in quasi cent’anni". E tutti sanno che non è così semplice, che tutto o quasi dipende da Diego, il quale "non può ragionevolmente illudersi di avere costante diritto all’apoteosi (cioè alla intangibile condizione degli dei)", e per questo motivo dovrà sudarsi lo scudetto, che però sembrava molto possibile dopo il secondo gol realizzato all’Udinese, capace di smuovere gli animi di tutti, in quanto "con una bestia simile, esclamò rassegnato un furlan nella sua musicalissima lingua, non c’è più niente da fare. Annuii in ammirata mestizia, che è un ossimoro doveroso". Quel gol smuove tanto nella testa e nelle mani di Brera e troviamo a corredo di questa partita contro i friulani il primo vero stralcio descrittivo in cui l’autore cerca di fare un sunto di quel che ha capito e vuole trasmettere di Maradona: "Maradona è la bestia iperbolica, nel senso infernale, anzi mitologico di Cerbero: se fai tanto di rispettarlo secondo lealtà sportiva, lui ti pianta le zanne nel coppino e ti stacca la testa facendola cadere al suolo come un frutto dal picciolo ormai fradicio. È capace di invenzioni che forse la misura proibiva a Pelé, morfologicamente irregolare nei soli piedi piatti, peraltro funzionali nella bisogna pedatoria. Maradona è uno sgorbio divino, magico, perverso: un jongleur di puri calli che fiammeggiano feroce poesia e stupore (è dei poeti il fin la meraviglia).

Talora uno dei suoi piedi serve fulmineamente l’altro per una sorta di paradossale ispirazione atta a sorprendere: ma quando vuole, questo leggendario scorfano batte il lancio lungo che arriva, illumina, ispira: capisci allora che i ghiribizzi in loco erano puro divertissement: esibizione per i semplici: se il momento tecnico-tattico lo esige, in quelle tozze gambe animate dal diavolo entra solenne il prof. Euclide. E il calcio si eleva di tre spanne agli occhi di coloro che, sapendolo vedere, lo prediligono su tutti i giochi della terra. Questi cantari modulati sulla solenne intronatura di Udine dedico al Napoli finalmente maturo per lo scudetto". Un pezzo di meravigliosa prosa che aspira in alcuni tratti alla poesia. Quando poi lo scudetto diventa concreto il 10 maggio 1987, Brera lascia scrivere al suo animo, parlando di Maradona "l’immenso" e il "criollo di infinite virtù", scavando nell’immensità appunto per poter capire il peso di quella vittoria. Lo scudetto ha dato l’impossibile a Napoli, impossibile che Napoli ha avuto grazie a Maradona. Il divino scorfano in estate continua a giocare con l’Argentina e Brera, con l’attenzione di chi vuole sempre lo show migliore, ha paura perché Diego "è un goffo orsacchiotto miracolato dal buon Dio, però non abbastanza da assurgere a macchina", un complimento per Brera, che aggiunge: "Un orso stanco non è più di una vacca".

La stagione andrà poi davvero in vacca e anche in questo caso la profezia breriana aveva qualcosa di vero. Nel 1987 capitava che ti giocavi la stagione il 16 settembre, cosa che successe al Napoli perché in Coppa dei Campioni prese il Real Madrid al primo turno. Quando Brera voleva essere asciutto, era il migliore: "Il Napoli ha giocato sotto l’acqua", per sintetizzare in sei parole quello che una squadra novizia a quel livello aveva vissuto nel gelo del Santiago Bernabeu vuoto per colpa di disordini nella stagione precedente. Maradona che "inseguito con puntigliosa e isterica falcata da nano Chendo" è la cartolina opaca di quella sera, non ribaltabile nella notte del ritorno di Napoli, anche perché "Maradona è umanamente sbollito e deve rigenerarsi come un pneumatico liso". Senza Coppa dei Campioni, in Serie A il Napoli inizia a carburare, così come Maradona, che la squadra si porta "su una spalla, come accade ai genietti maligni". Quando serve, basta strofinare et voilà, tutto si risolve in un attimo, in quanto "il pibe patriarca ha intuito che il Napoli era tutto sulle sue spalle ed ha accettato il peso con una dedizione da tempo dimenticata". Interessante il concetto di patriarca, ribadito dal titolo del pezzo, Maradona padre nostro. Maradona non sembra avere più nulla del geniale figlio ribelle, è lui che chiede di essere seguito e obbedito, in pochissimo tempo è la lampada che rischiara la notte. Il Napoli perde a Milano con i rossoneri di Sacchi, ma procede spedito, vincendole tutte, tanto che a febbraio Brera scrisse e fece titolare Dietro il Napoli nessuno resisterà. Maradona per il giornalista aveva raggiunto la maturità, anche grazie al Mondiale vinto e non gli restava che "snobbare i pazzarielli della statistica" in quanto per "uno dei paradossi che illuminano la vita degli eroi e dei santi, degli artisti e dei balordi, a prodigarsi più di tutti fra i campioni" era proprio Diego a doversi sobbarcare buona parte del lavoro, ma allo stesso tempo avere tutte quelle facce che Brera riconosce solo ai più grandi e a chi dedica se stesso per la squadra. Poi all’improvviso arriva il giorno del "Tutto vero, tutto da rifare", ovvero di un campionato finito ma improvvisamente riaperto come da titolo di Repubblica del 19 aprile perché il Napoli perde punti e il Milan vince tutte le partite. Brera riconosce che Maradona è l’unico non cotto nel "brodo e purpess’", ma quando il sommo poeta è costretto a fare lo sterratore, la cosa non va. Il 2 maggio 1988 farà titolare "Non basta Maradona", una frase semplice che ne esprime la sorpresa e anche in qualche modo il fastidio per vedere il suo amato Bianchi essere superato dal non compreso Sacchi.

Questa stagione maledetta ha però avuto il merito di cambiare prospettive nelle intuizioni mnestiche di Brera. Se prima Maradona è stato scorfano, ancorché divino, ora prima dell’inizio del 1988-89 è Re Puma, un po’ per la voracità con cui vuole parlare oltre che giocare, ma anche perché anche se perde, comunque tutto gira intorno alla sua volontà. "Intanto, guai a leggergli la vita. È un despota, lo sanno tutti: finché gli gira, comanda lui. E gli altri, zitti", scrive con quella sana e inascoltata verità che scopriremo poi, mentre già sapevamo a meraviglia che era il "pupillo prediletto di Eupalla" e le vittorie 3-5 sulla Juve e 4-1 sul Milan lo confermavano. Si è iniziato prima con la Coppa Italia, poi con la Coppa UEFA (nel "delirante porcile del Paok") e poi la Serie A, che ha aspettato i Giochi di Seoul 1988. Il Napoli va bene, l’Inter benissimo. Per un po’ regge, poi "il suo scheletro glorioso di botte e di soprossi prende fatalmente a dolere quando Orion dal cielo declinando imperversa" (oggi si scriverebbe: calo invernale dovuto a un cattivo load management) e anche la squadra si mette in scia dei nerazzurri, sapendo che il sorpasso diventa ogni domenica più difficile. C’è però la Coppa UEFA e lì che i napoletani si concentrano, ma non Brera che non la segue per La Repubblica e mancano i suoi paesaggi. La stagione successiva inizia molto male, con Maradona che resta in Argentina a pescare dorados per un motivo molto semplice: vuole andare all’Olympique Marsiglia di Bernard Tapie e Ferlaino glielo aveva promesso. Sul prato del Neckarstadion con la Coppa UEFA in mano gli dice che non se ne parla, aveva detto sì come si fa con i bambini rompipalle. Brera tutte queste cose le conosce e le spiega d’estate. Prima di tutto dà un motivo a Re Puma, così da sciogliere i dubbi. "Ho chiamato Re Puma Diego Armando Maradona quando Paolo Casarin mi ha giurato che l’asso indio-napoletano fosse per costituzione fisiologica e podologica un vero leone a

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura