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Daniele Manusia

A Marco Verratti non abbiamo mai perdonato niente

In Italia è stato criticato per le sue scelte, eppure Verratti si è costruito una…

La prima volta che ho visto Marco Verratti non su uno schermo era in un hotel di Roma in cui era in ritiro con la Nazionale prima di un grande torneo poi finito male. Mi aveva invitato un amico parte dello staff dell’allenatore e ovviamente non potevo parlare a nessun giocatore anche se erano tutti al piano terra immersi in un bagno di familiari da salutare. Verratti spingeva una carrozzina e io avevo l’impressione che fosse lui stesso un bambino, la parodia di quei padri adolescenti che avevo visto in tuta spingere carrozzine per le strade di Edimburgo. Un po’ perché era ancora giovanissimo, un po’ perché Verratti sembra sempre un bambino con le ciglia troppo lunghe, anche adesso che ha trent’anni, anche quando ha provato a farsi crescere baffi e pizzetto. Ricordo che gli stava persino larga la tuta della nazionale. Sembrava che il calciatore fosse qualcun altro e che lui fosse il fratello minore a cui aveva momentaneamente affidato il figlio.

 

La seconda volta che ho visto Marco Verratti è stato a Parigi, per un’intervista con una rivista sportiva italiana. Prima che Marco arrivasse, l’intermediario che mi ha accolto ha provato a mettermi fretta dicendo che il giocatore sarebbe stato disponibile per una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo. Io avevo perso un aereo il giorno prima (ero andato all’aeroporto solo con la patente) e a mie spese ne avevo dovuto prendere un altro che mi aveva portato a Parigi all’alba, quella mattina stessa, con un colpo di nervosismo mascherato da orgoglio ho insistito per avere almeno mezz’ora, in fondo dovevo fare il pezzo di copertina, e l’intermediario ha detto solo: “Decide il giocatore”. Il giocatore, Verratti, è rimasto quasi un’ora senza dare segno di annoiarsi, ha risposto alle domande che gli ho fatto la prima volta un po’ superficialmente, la seconda iniziando a riflettere, la terza dandomi risposte interessanti che poi sono andate in stampa. Alla fine è arrivato il fratello e dato che c’era una palla ci siamo messi a palleggiare. 

 

La terza volta che ho visto Marco Verratti, in questo caso ho visto il suo valore, il suo potere sull’immaginario, è stato per le strade di Parigi. L’ho visto sulle schiene dei ragazzi nei quartieri nord di Parigi. I coatti avevano le sue maglie e quelle di Zlatan, per lo più. Dello sconosciuto arrivato insieme al campione e del campione. Del bambino italiano e della megastar che, come tutte le megastar dopo un certo tempo, sembrava sceso sulla terra da un’astronave. Di Verratti, a me e ai coatti parigini piaceva la stessa cosa: la leggerezza che confina con l’arroganza con cui gioca, il coraggio di tenere palla anche sotto pressione e di entrare in scivolata contro gente grande il doppio, con il rischio di andare corti con le sue zampe da gufetto. Verratti era una sorpresa, un outsider assoluto, un campione improbabile. E in molti ci si riconoscevano. Verratti era diventato in pochissimo tempo l’uomo immagine di uno dei club europei più ricchi, di una delle città più fiche, con una cultura “street” autentica e viva.

 

Tutto questo in Italia non è arrivato. Ci siamo tenuti un’idea vecchia di Verratti, abbiamo continuato a vederlo come il ragazzino abruzzese che qualche potere occulto aveva rapito e portato a Parigi. Quello che quando gli chiedevano qualche parola in francese rispondeva in dialetto: «Ma io non so parlare l’italiano, figurati il francese». Sono passati undici anni da quell’estate in cui Verratti se ne è andato e per noi è rimasto sempre lo stesso. Come se lui fosse quello che non si è mosso dal suo paesino mentre noi abbiamo viaggiato, conosciuto gente, visto cose. In realtà è vero il contrario. Siamo noi ad essere rimasti fermi mentre Verratti faceva la sua vita a Parigi, una città dove «sei immerso in più culture», parole sue, e dove è arrivato «a un’età in cui si forma il carattere, la personalità». 

 

Per noi italiani, lontano dagli occhi lontano dal cuore, è come se non avesse fatto nulla. Lo vedevamo quasi solo con la Nazionale, come un cugino o un nipote che torna solo a Natale (l’Europeo vinto) e ai funerali (le mancate qualificazioni al Mondiale con Svezia e Macedonia). Adesso che il PSG lo ha ceduto alla squadra qatariota Al-Arabi, per 50 milioni che escono da una tasca ed entrano in un’altra della stessa giacca, e per uno stipendio più che raddoppiato che dovrebbe arrivare a 35 milioni annui, per noi è come se fosse passato direttamente dall’Abruzzo al Qatar. Non lo conosciamo, non sappiamo veramente quanto è cambiato in questi undici anni, ma non ci interessa neanche. In fondo in fondo gliene vogliamo per essersene andato a Parigi così giovane, senza neanche giocare una partita in Serie A, e averci fatto sentire sudamericani. Gliene vogliamo non solo perché è andato a Parigi ma soprattutto perché contro tutte le aspettative ci si è trovato bene. Gliene vogliamo anche perché dice cose che qui non si dicono, tipo: «Mi sento molto francese, pur restando italiano». 

 

Calcisticamente gli si chiedeva di più, di accentrare maggiormente il gioco su di sé, anche se in alcuni periodi faceva più di cento passaggi a partita. Gli si chiedeva di cominciare e finire l’azione, anche se né la rifinitura, gli assist, né gli inserimenti senza palla in area, erano cose nelle sue corde. La scorsa stagione, secondo Statsbomb, è stato nell’1% dei migliori tra i centrocampisti in Europa per precisione nei passaggi, per conduzioni palla al piede nell’ultimo terzo di campo, per partecipazione ad azioni pericolose, e nel 2% migliore per tackle, nel 3% migliori per palle recuperate in pressione. Non ha imparato a fare tutto, ma quello che sapeva fare lo ha fatto meglio praticamente di chiunque altro. E lo ha fatto in Ligue 1, in partite che il PSG avrebbe vinto anche se avessi giocato io a centrocampo, ma anche contro grandi squadre europee. 

 

Non faccio fatica a ricordare un’azione in particolare in cui Verratti è stato capace di sorprendermi. Di battere le quote dei bookmakers che dentro di me stavano scommettendo contro di lui, e che lo davano per sconfitto in un duello individuale con un giocatore di spessore come Vinicius Jr. Era quel Real Madrid-PSG che valeva “solo” per il passaggio ai quarti di finale di Champions League (marzo 2022) in cui la squadra francese è stata in vantaggio per una partita intera e due terzi della seconda. Uno a zero a Parigi e uno a zero a Madrid fino al sessantesimo, finché non si è svegliato il demone di Benzema. È la partita in cui segna il primo gol rubando palla a Donnarumma con fallo-non-fallo e poi segna due gol in due minuti.

 

Al venticinquesimo del primo tempo, quando il PSG era ancora una squadra, ha rubato una palla a Vinicius con una specie di mezza scivolata in cui è rimasto inginocchiato arpionando il pallone e girandosi con un solo movimento. Era al tempo stesso una giocata naturale e un piccolo miracolo. Non sembrava poterci arrivare, almeno non senza fallo (136 cartellini gialli in questi undici anni), eppure ci è arrivato in modo pulito, cogliendo di sorpresa Vinicius che pensava di essergli sfilato di fianco. Quando Verratti si è alzato, con la palla al piede, era piccolo come quando l’ho visto spingere quella carrozzina. 

 

Quello che ha ottenuto Verratti con le sue qualità fisiche e tecniche non può passare inosservato. È diventato il secondo giocatore della storia del Paris Saint-Germain con più presenze (419). Quello ad aver vinto più trofei (30). Quello ad aver vinto più campionati (9) nella storia del calcio francese. Con la Nazionale, beh, ha vinto un Europeo da protagonista. Forse ce lo siamo dimenticati, ma in finale con l’Inghilterra Bonucci ha segnato il gol del 1-1 mettendo in porta una palla che Verratti aveva colpito di testa, in tuffo, anticipando Mason Mount, e che aveva colpito il palo. Stavamo per vincere un Europeo, cioè, con un gol di testa di Marco Verratti su calcio d’angolo. 

 

Però, secondo qualcuno, avrebbe dovuto imparare a giocare più vicino alla porta avversaria, cambiare ruolo, anche se in realtà il ruolo glielo aveva già cambiato Zdenek Zeman arretrandolo, era stato l’inizio della sua carriera. Non è diventato Messi. Peccato. E neanche Neymar, o Zlatan. Però è stato alla loro altezza, e di tutti quei compagni e avversari che nelle interviste citano stupiti le sue qualità. Di quanti giocatori italiani possiamo dire una cosa simile? Per i tifosi del Paris Saint-Germain, fino all’altro ieri, è stato più importante di tutti e tre i campioni appena citati. L’unico a non averli offesi andandosene (Neymar, accolto come un profeta, ha detto di aver vissuto un inferno a Parigi) anche se loro hanno offeso lui

 

Come parenti che parlano di lui al telefono, lo abbiamo criticato persino per non essere andato al Barcellona nel 2017. All’inizio lo criticavamo perché era stato troppo ambizioso andando al PSG anziché scegliere una squadra italiana, alla fine lo abbiamo criticato perché non è stato abbastanza ambizioso, anche se in fin dei conti di squadre di livello superiore al PSG non ce ne sono molte e non è che il Barcellona se la sia passata benissimo in questi anni. 

 

Donato Di Campli, il suo ex agente, ha parlato del Paris Saint Germain come di una prigione – «Sono sicuro che Marco ha avuto paura» – ma Verratti non ha mai parlato male del suo club. Anzi quando ha rinnovato, lo scorso dicembre, diceva di essere contento di poter restare “a vita” nel PSG, paragonandolo al Pescara in cui è cresciuto. Nove mesi dopo se ne va contro la sua volontà, per scelta di Luis Enrique o di qualche dirigente (la stampa francese è divisa al riguardo), e ingiustamente i tifosi lo mettono nello stesso panier di Messi e Neymar. A noi, comunque, della lealtà di Verratti nei confronti di Parigi non interessa, anzi la associamo alla sua mancanza di ambizioni. Lo accusiamo di essersi messo le pantofole – cosa, peraltro, molto italiana. 

 

In quella partita con il Real Madrid del 2022 l’ultimo gol, quello del 3-1, Benzema lo segna dopo che Verratti si è fatto intercettare un passaggio per Gueye immediatamente dopo aver rimesso la palla in gioco dopo il gol del 2-1. O forse è stato Gueye ad aspettare da fermo quella palla anziché andarle incontro, dalle immagini non si capisce bene, ma la sciatteria di Verratti viene data per scontata. Forse è proprio l’aspetto da bambino di Verratti che spinge chi lo guarda a non perdonargli nessun errore, con un paternalismo severo e ingiusto. Lo stesso che in Francia ha fatto parlare di una scarsa “igiene di vita”. Come se più che gli infortuni il problema fossero le foto con la sigaretta in bocca o il fatto che andasse a qualche festa: i bambini non fumano, i bambini vanno a letto alle otto.

 

Quando la passata stagione, contro il Bayern Monaco, un altro ottavo di finale deludente che resterà la sua ultima partita in Champions League, ha perso palla vicino all’area di rigore su pressione di Muller e Goretzka, sembrava fosse il suo centesimo errore di quel tipo; anche se in realtà e senza timore di poter essere smentito posso dire che Verratti è stato insieme a Sergio Busquets il miglior giocatore a proteggere la palla degli ultimi dieci anni, un playmaker praticamente inutile da pressare, di quelli che sembrano giocare con un drappo rosso che nasconde la palla e attira gli avversari come tori fumanti. “So quando sbaglio”, ha detto lui dopo la partita col Bayern, “ho le spalle larghe e una passione incredibile per il calcio. Le critiche non mi fermeranno”. E chi si è accorto che Verratti aveva le spalle larghe?

 

Ci mancano gli ultimi undici anni di Verratti. Così concentrati sul risultato non ci siamo neanche accorti che è cresciuto, invecchiato. Così preoccupati di immaginare al suo posto le squadre in cui sarebbe dovuto andare, i modi in cui avrebbe dovuto giocare per realizzare davvero il suo potenziale. Di fondo per tutto questo tempo abbiamo coltivato l’idea che il talento gli sia piovuto dal cielo, magari “da Gesù Bambino” come ha detto Spalletti (parlando di Donnarumma) a un’intervistatrice che – in diretta sulla principale rete nazionale – parlava di “essere all’altezza del talento che ci viene donato”. 

 

Gesù Bambino, o i pomeriggi passati a giocare con i rimbalzi della fontana in piazza a Manoppello e degli angoli dei marciapiedi? Certo c’è qualcosa di miracoloso nel modo in cui Verratti si è fatto strada dalla ruvidezza della Serie B fino al lusso del PSG, e nella sua resistenza in un calcio muscolare e ipertrofico, in cui le cosce dei giocatori somigliano a quelle dei cavalli da corsa. In un calcio di supereroi, vicino a Thor e Capitan America, Verratti era – è – Gigi la Trottola, il detective Conan, il Goku delle prime stagioni ancora con la coda da scimmia. Goku che però non diventa mai Super Sayan. 

 

Ma Verratti in questi anni è cresciuto, anche se noi non ce ne siamo accorti. Poco prima che ci finisse lui, a Parigi ci avevo vissuto anche io qualche anno. Avrei potuto rimanerci e ogni tanto mi chiedo ancora che persona sarei diventato, in caso. Magari c’è una versione di me che vive ancora a Parigi ed è completamente diversa da come sono io oggi. E Verratti? Come è cambiato in questi dieci anni, come lo ha cambiato vivere a Parigi, giocare con quei campioni, vincere un Europeo? Non lo sapremo mai. E come sempre, quando c’è un mistero, significa solo che ci manca la curiosità.

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).