Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Volevo far arrivare qualcosa alla gente, intervista a Javier Pastore
16 mag 2024
Con il "Flaco" abbiamo parlato di passato, futuro e serenità.
(articolo)
4 min
(copertina)
IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
(copertina) IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
Dark mode
(ON)

Javier Pastore non gioca una partita da più di un anno. Era il 9 maggio del 2023 e "el Flaco" scendeva in campo per 45 minuti con la maglia del Qatar SC, in un dimenticabile e dimenticato 0-0 contro l'Umm Salal. Nonostante gli ultimi anni di decadenza, contraddistinti più da parole malinconiche e infortuni, Pastore però non si è ancora ufficialmente ritirato. Soprattutto, continua ad esercitare su di noi un fascino malinconico, la nostalgia per un mondo perduto.

Ho conosciuto "el Flaco" circa un mese fa durante l'inaugurazione del nuovo centro sportivo del Palermo, a cui io ero stato invitato come giornalista, e lui come leggenda del club. Per una serie di coincidenze sono riuscito a rincontrarlo qualche giorno fa a Milano. Questa è la trascrizione della chiacchierata sulla sua carriera che ci siamo fatti.

L’anca come va?

Adesso va bene, sto bene. Mi sono operato, ho messo una protesi all'anca sinistra e mi ha cambiato completamente la vita: non ce la facevo più ad alzarmi con dolore ogni giorno, avere sempre male. Adesso non lo sento più, piano piano mi sto allenando e tra un mese o due comincio a correre, per vedere come procede e provare le sensazioni in campo. Finalmente, ho voglia di tornare a giocare a calcio.

Ti manca la tua routine di sempre?

A dire la verità no, non tanto. Ho sempre fatto fatica a immaginare il “dopo”, come sarebbe stato non allenarmi tutti i giorni, avere gli orari e il calendario della squadra, fare la vita che faccio praticamente da quando ho sei anni. In qualche modo mentre giochi sembra che sarà così per sempre, non ti immagini qualcosa di diverso. Ma ora che sto vivendo a pieno la mia vita da genitore, passando tempo con mia moglie, a casa, viaggiando… sono cose che non ho mai fatto, e che mi sto godendo.

Ritiro imminente, quindi?

Non ci sto pensando adesso. Non ho ancora deciso, però riprendere mi sembra una cosa abbastanza lontana e difficile, ad oggi. Poi ad agosto tornerò in campo, e chissà, magari mi sentirò incredibilmente bene e mi tornerà quella spinta. Non lo escludo, vediamo. So solo che a calcio giocherò sempre, in ogni caso, anche quando sarà solo per passione: livello più basso, tranquillo, per divertirmi io…

Sembri molto sereno, parlandone.

Penso di essere così tranquillo perché non ho rimpianti di nessun tipo: qualcosa che non ho fatto, una decisione che non ho preso, un torneo che dovevo vincere per forza. Sono felice del mio percorso nel calcio, e anche se non è stato tutto perfetto, non rimpiango di non aver vinto una Champions, per dire. Ognuno ha il suo percorso e io sono contento del mio.

Come immagini la tua vita dopo il ritiro?

Sempre nel calcio, ma vediamo. Proprio oggi mi sono iscritto a un corso FIFA di club management, inizio a fine mese. Per ora immagino più un percorso del genere che da allenatore, per dire. Sento che un po' i tempi sono cambiati per me: un allenatore deve passare dieci ore al giorno in campo, dedicarci tutto il proprio tempo e un sacco di energie - e per come vivo oggi, con la mia famiglia, i miei tempi, le mie cose, non mi ci vedo. Non è detto che sarà sempre così però, credo anzi che il corso da allenatore lo farò prima o dopo, perché voglio capire anche quel punto di vista. Senza fretta.

Quanto pensi che ti aiuterà l’esperienza da calciatore?

Dico sempre che quando hai una carriera di un certo livello, magari arrivi a pensare che dopo il ritiro potrai fare quello che vuoi nel calcio, perché sei abituato così. Puoi aver giocato in Nazionale, essere amato dai tifosi, aver fatto 150mila gol e avere tutti i contatti del mondo, ma non è automatico. Devi fare lo stesso percorso che hai fatto per diventare un calciatore: capire e imparare le cose, una per volta. Uno può portarsi dietro tanto dalla propria esperienza e io ho avuto la fortuna di lavorare con grandissimi allenatori, poi però ci sono cose che vanno studiate. E lo stesso per diventare un dirigente: da calciatore vedi alcuni aspetti, capisci come funzionano alcuni contratti, un po’ di logiche di mercato e costruzione della rosa, ma tutto il resto lo devi imparare. Perciò io penso a prepararmi e capire prima di tutto se è una cosa che fa per me, se ho il carattere per farlo, se mi piace. Mi prenderò un paio d’anni per imparare, tranquillo, e intanto fare esperienze viaggiando con la FIFA e lavorando con i club. Come dicevo, senza fretta.

Guardando invece al percorso che hai già fatto nel calcio, in cui hai fatto veramente esperienze di ogni tipo: fino a che punto hai rispettato le tue aspettative, e da che momento la tua carriera è andata oltre?

Ho vissuto tutto come se fosse normale, sempre, te lo può confermare chiunque nella mia famiglia. Per tutta la mia carriera, ogni cosa che mi è successa era qualcosa a cui avevo pensato. Avevo 13, 14 anni e già pensavo a giocare in Europa. Ma come in Europa, se ancora non hai neanche giocato in prima squadra? Ma era così che io mi ripetevo sempre, e che dicevo ai miei, a tutte le persone vicine. Dove volevo arrivare, con chi volevo giocare, e piano piano le cose succedevano.

Non sempre piano piano in realtà.

In Argentina, quando ero all’Huracán, è successo tutto molto velocemente in effetti: sono esploso in sei mesi, ho fatto 8 gol e ho giocato molto bene, mi chiamavano il Milan, il Chelsea, tanti grandi club europei… però io normalizzavo tutto nella mia testa. Mi sono seduto con il mio procuratore, che mi diceva: guarda, ci sono tutte queste squadre che ti vogliono, dove vuoi andare? Io ne ho parlato con i miei, ci abbiamo pensato insieme, e alla fine ho deciso: la scelta migliore era Palermo.

Una scelta “paziente”.

Sì, assolutamente. Era appena arrivato in Serie A, c'era un presidente che mi voleva molto e l'allenatore era consapevole di quello che voleva il presidente. Io penso che la carriera di un calciatore deve essere continua, facendo un passo alla volta, senza fretta. Quando salti dieci passi, senza fare il percorso in mezzo, può arrivare un momento in cui vai giù. Io ho sempre pensato così, ho sempre voluto andare piano piano in questo senso. Mi sentivo più a casa andando a Palermo che all’idea di venire qui a Milano, ad esempio: avevo 18 anni, mi avrebbero mandato a giocare in una squadra più piccola e mi sarei chiesto perché, se fosse una buona cosa per la mia carriera, se stessi rischiando di bruciarmi. Il Palermo invece mi voleva davvero, e credo di aver fatto una scelta giustissima andando lì. Perché tutto quello che è successo, è arrivato un po’ alla volta, mese dopo mese; sì, finita la prima stagione era già arrivata la chiamata in Nazionale, e dopo il secondo anno - che per me è stato incredibile - avevo una grande occasione, ma sentivo di star facendo un passo alla volta, senza forzare i tempi.

A quel punto, ti sentivi pronto per un top club.

Sì, ma anche in quel momento sarei potuto andare in tanti grandissimi club, mi voleva ancora il Chelsea ad esempio, ma ho scelto Parigi, che è una piazza molto bella, aveva un progetto serio, e mi ha convinto perché sarei partito con una squadra di metà classifica più o meno. Quella stagione abbiamo fatto molto bene, siamo andati in Champions, sono arrivati i primi acquisti che avevano promesso ed è iniziato tutto.

Prima dicevi: «Felice del mio percorso, anche se non è stato tutto perfetto».

Ho avuto momenti positivi e momenti negativi, come normale. Mi dispiace per come sono andate le cose a Roma, sicuramente: speravo di avere un percorso più lungo lì, di riuscire a dare di più. Ho fatto delle partite buone, la gente si ricorda alcune giocate di qualità, ma avrei voluto fare molto di più. Purtroppo tra i problemi che ho avuto, gli otto mesi fermo per recuperare dall’intervento all’anca, è andata così. Peccato.

Anche per come è finita.

Sì, quando c'è stato il cambio di proprietà. Nel momento in cui la Roma è stata venduta, io ero infortunato da mesi, dopo l’intervento all’anca: dovevo capire se sarei potuto tornare in campo, quando, in che condizioni. Loro purtroppo sono arrivati proprio in quel momento, e mi hanno detto fin da subito di non volermi. A me rimanevano due anni, ed era il mio ultimo contratto importante, quindi era una situazione difficile anche dal punto di vista economico. Io però capivo la loro prospettiva e conoscevo la mia condizione fisica, e alla fine ho pensato più con il cuore che con la testa: mi sono svincolato durante l'ultima settimana di mercato, per cercare un posto più tranquillo dove testare il mio corpo e capire se potevo tornare a giocare.

La scelta di scaricarti è firmata più Friedkin che Mourinho, quindi. Come l’hai presa?

È stata sicuramente una scelta della società, anche perché già prima che arrivasse Mourinho erano stati chiari con me su questo punto. Mi è dispiaciuto molto perché io mi ero operato e avevo fatto sette mesi di riabilitazione per cominciare quell'anno con la squadra, fare la preparazione estiva e le amichevoli con il gruppo, dimostrare che potevo tornare bene dopo l'operazione all’anca. Non mi è stato permesso, però: sono stato un mese e mezzo ad allenarmi da solo, lontano dalla squadra, e quella non era una reale opportunità per me. Mi sarebbe piaciuto almeno avere un confronto, parlare con un allenatore che mi dicesse - in faccia, di persona - «preferisco un altro tipo di giocatore», o «ho dovuto scegliere tra lui e te». Io invece con Mourinho non ho mai parlato, nemmeno una volta.

Ti aspettavi un trattamento diverso da Mourinho?

Non saprei, ho tanti amici che hanno giocato per lui ma a me non è mai capitato. So che ognuno ha la propria esperienza con lui, e credo che il suo rapporto con i giocatori ultimamente sia cambiato molto, almeno per quello che ho saputo dei suoi anni al Chelsea e al Manchester United, gli ultimi grandi club dove ha allenato. Non si fa problemi ad andare contro i “veterani”, a dare più responsabilità ai giovani. A Roma c’eravamo io, Fazio, Pedro, Nzonzi, giocatori di grande esperienza che la società non voleva più e che lui non ha voluto “proteggere”, diciamo. Mi è dispiaciuto, lo dico sempre, ma nel mondo del calcio sono cose che succedono.

A Roma i problemi fisici non ti hanno dato tregua, hai giocato solo 36 partite in tre anni: quanto era frustrante per te, in tutto ciò, leggere anche le tante critiche che hai ricevuto?

Un po' era difficile, sì, ma lo capivo. Sul momento la gente e soprattutto il tifoso pensa solo: «Perché non gioca Pastore? Se perdiamo è perché lui non c'è, o se vinciamo, comunque, perché lui non c'è?». Il tifoso vede il momento, vede adesso, ma a questo noi calciatori siamo abbastanza abituati. Alla gente di Roma comunque non rimprovero niente, anzi. L’affetto dei tifosi e la voglia di ripagarli mi davano tanta forza, anche nei momenti più duri, ma era molto faticoso per me. Non ce la facevo davvero più: se mi allenavo al 100%, i giorni dopo sentivo dolore anche soltanto a scendere dal letto e camminare, quindi dovevo gestirmi. Mi allenavo praticamente un giorno sì e uno no, lavoravo a parte rispetto alla squadra, per riuscire a giocare nel fine settimana.

È arrivato un momento in cui hai detto “basta”?

Sono stato due anni convivendo con il male all’anca, e dopo quattro mesi senza allenarmi, chiuso in casa per la pandemia, è arrivato il punto in cui ho cominciato a pensare: basta. Ma è stato il corpo, non la testa, a farmelo pensare: io avevo tanta voglia di tornare in campo, dimostrare il mio valore e aiutare la squadra, ma il mio corpo non mi era d’aiuto. Per mesi mi ero allenato prendendo medicinali e facendo infiltrazioni ogni singolo giorno, con i medici della Roma che dicevano al mio procuratore: «Fallo fermare per favore, non possiamo vederlo così». Zoppicavo, avevo male, però non volevo fermarmi, anzi mi allenavo duramente per tornare in forma. Mi dicevano: «Flaco, fermati, non puoi andare avanti così».

Non ne volevi sapere, eh?

Assolutamente. Alla prima partita quando torniamo dalla pausa per il Covid, io c’ero, ho giocato 80 minuti con l’anca distrutta, dopo mesi fermo. Perchè quelle settimane che eravamo tornati ad allenarci, io mi ero ammazzato in campo, avevo una voglia incredibile. Ho giocato e pure molto bene, ma il problema è stato il giorno dopo: non riuscivo nemmeno a camminare. Mi sono fermato altri due o tre mesi, e il corpo piano piano ho visto che è cambiato. Da quel momento ho cominciato a sprintare meno, a girarmi solo su un lato perché l’altro mi faceva male, ad evitare di saltare perché l’impatto a terra era doloroso. Insomma, stavo in campo e pensavo a come non farmi male anziché a giocare, ed è brutto quando diventa così.

Da lì in Spagna. Che scelta è stata per te l’Elche?

A Elche mi sono trovato molto bene. Per me era praticamente un test, ne ho parlato dal primo momento con il presidente quando mi ha cercato, in estate; ho spiegato le mie condizioni e il periodo da cui venivo. Per loro non era un problema, anzi sarebbero stati contenti in ogni caso di avermi in spogliatoio. Dal punto di vista umano ho passato un periodo bellissimo a Elche: ho trovato un bel gruppo e uno staff che mi ha aiutato tanto a tornare in forma, un pubblico fantastico che mi ha sempre dimostrato affetto, in uno stadio pieno e vicino alla squadra anche nei momenti negativi. Poi Elche è una bella città, in cui si vive come in un paesino, io e la mia famiglia ci siamo trovati davvero bene. Ho tanti bei ricordi, anche se non sono riuscito a giocare molte partite.

Un po’ all’improvviso, poi, l’ultima fermata in Qatar.

Ho rescisso il contratto con l’Elche e sono andato lì, sì. Io in quel momento non giocavo in Spagna, stavo recuperando da un problema fisico e c’era stato un cambio di allenatore. Il suo primo giorno era un lunedì libero per la squadra, ma io ero lì ad allenarmi da solo, perché volevo tornare. Lui passa, mi vede in palestra e non si ferma neanche a salutarmi. Penso: «Non partiamo bene». In quei giorni poi mi chiamavano dal Qatar, mi dicevano: «dai Flaco, vieni qui per il Mondiale». E alla fine sono andato, ho fatto tutto il mese lì, mi è piaciuto, e a gennaio ci sono rimasto a giocare.

Hai mancato di pochi anni il ritorno dell’Argentina sul tetto del Sudamerica prima (2021) e del mondo poi (2022), proprio in Qatar. È un pensiero che hai, e come ci convivi?

A dire il vero il Mondiale in Qatar l’ho sentito come se fosse un po’ anche mio. Ho festeggiato, perché c’erano Messi, Di Maria, Otamendi e altri con cui abbiamo vissuto dei momenti brutti in Nazionale, grandi giocatori che sono stati massacrati per non aver vinto con l’Argentina. Io non ho davvero nessun rimpianto, però. Ho giocato tante partite in Nazionale, negli anni di Messi, mi ha pure allenato Maradona… non capita a tutti, penso di essere fortunato. Certo, mi sarebbe piaciuto esserci in una delle due Nazionali che hanno vinto, ma non è davvero un pensiero che ho. Per me alla fine restano le esperienze, i rapporti, molto più che le coppe.

A proposito: il mese scorso a Palermo ti ho incontrato all’evento per l’inaugurazione del centro sportivo, e sono rimasto colpito - anche se me lo aspettavo - dall’affetto con cui sei stato accolto. Anche dai più giovani, ragazzi che magari non erano neanche nati quando giocavi lì.

È sempre speciale per me, e anche questo mi fa stare tranquillo pensando alla mia carriera. Avere la riconoscenza delle squadre per cui ho giocato, aver lasciato un bel ricordo e aver costruito un bel rapporto con i tifosi, con i proprietari, con la gente che ancora oggi lavora lì e si ricorda di me… vale più di qualsiasi cosa, davvero. Pensare a tutti quei momenti, adesso che non gioco da un anno, mi dà tanta soddisfazione, mi fa stare bene. E un po’ mi fa anche pensare: ho proprio bisogno di tornare, sapendo che in campo non posso più giocare come prima? Mi sembrerebbe un po’ di rovinare quello che ho fatto, che è stato bello se la gente lo ricorda in questo modo dopo 15 anni.

Un discorso che non vale solo per Palermo, vero?

In ogni squadra in cui sono passato è rimasto un rapporto molto bello con la città e con i tifosi. Anche a Roma, dove purtroppo non sono stato neanche il 60% del giocatore di Parigi e Palermo, la gente è sempre stata incredibile con me. Sui media e sui social la gente si sfoga, a volte anche insultando i giocatori, ma io a questo non ho mai fatto caso. Di persona invece, mi è sempre arrivato tanto affetto, anche quando sono stato infortunato a lungo. Quando uscivo in centro a Roma, dove vivevo, per strada non c’è mai stato un tifoso che mi ha detto qualcosa di brutto, mai. Tutti sempre: “grande Flaco”, “che bello vederti giocare”, “quando torni che ti vogliamo”. Non era scontato, e anche per questo ho amato Roma e sono sempre contento di tornarci.

E Parigi, dove hai passato sette anni?

Anche con il pubblico di Parigi mi sono sempre trovato bene, e loro con me. Forse perché sono stato il loro primo grande acquisto, forse per quello che ho fatto con la maglia del PSG, o forse per il mio stile di vita tranquillo e la mia personalità, il rapporto che si è creato con i tifosi è stato fantastico. E poi ci sono rimasto sette anni, quindi si è creato davvero un legame forte e sono contento di questo più di ogni altra cosa.

D’altronde Ángel Cappa [allenatore dell'Huracan quando ci giocava Javier Pastore, nda] ci aveva avvertito quindici anni fa, dicendo che «Pastore è il giocatore che si fa amare dai tifosi e che li trascina allo stadio». In Italia hai ricevuto standing ovation anche in trasferta, per dire.

Quella a Firenze non la posso scordare, mi ha applaudito davvero tutto lo stadio, un’esperienza incredibile. E Delio Rossi mi ha cambiato proprio perché immaginava che sarebbe successa una cosa simile, io invece non me l’aspettavo per niente, anche se avevo fatto un gol e avevo giocato una partita veramente completa, bella, con tante giocate di qualità, qualche colpo di tacco. Quando sono uscito e ho visto i tifosi avversari alzarsi in piedi per me, è stato davvero emozionante. Ancora oggi mi viene la pelle d’oca se ci penso.

Ma è una scelta diventare così belli da vedere, o con la tua eleganza si nasce?

Quello che ti posso dire è che io ho sempre voluto diventare questo tipo di giocatore, mi sono sempre visto così. Quando entri in campo ci sono persone che ti guardano, tante o poche, e io ho sempre pensato: voglio far arrivare qualcosa alla gente, fare giocate che diano emozioni, gioia. Comunque ho sempre giocato così, e ho sempre saputo che quella era la mia forza, anche perché fino a 16 anni sono sempre stato il più basso. Ero magro e molto più basso degli altri, dovevo adattarmi.

Ah sì?

Sì, dopo i 16 anni sono cresciuto tantissimo, ma prima ero piccolo. Comunque ero sempre tra i migliori quando giocavo nel mio quartiere, poi nei campionati giovanili, spesso con ragazzi più grandi, e il mio modo di giocare un po’ è rimasto quello. Vedevo che più provavo a seguire quello stile di gioco, e più facevo la differenza, allora ho cominciato a viverla come una virtù, a lavorare per migliorare e farne la mia forza. Ero rapido, mi muovevo veloce, saltavo l’uomo, facevo i tunnel, quelle cose… sentivo che era un mio punto di forza, e faceva impazzire gli avversari. A volte li faceva anche espellere. Insomma, è sempre stato normale per me giocare in modo un po’ diverso dagli altri, ed è quello che mi ha sempre reso felice in campo.

C’è un rovescio della medaglia?

Certo. A Palermo ho sempre detto che alla gente piaceva il mio modo di giocare, sì, ma quando non vedeva sforzo difensivo, sacrificio, quando perdevo palla cercando giocate difficili, mi veniva fatto notare.

In molti avranno provato a “normalizzarti”.

Sì, assolutamente, soprattutto in Argentina. Alcuni allenatori mi dicevano di non cercare il tunnel in partita, ad esempio. Ma perché no, è una forma di dribblare l’avversario, perché devo fare tutto il giro con la palla, se con un tocco posso superarlo? Più andavo avanti nelle giovanili, e più mi sentivo dire: così non giocherai mai, così in Europa non ci arrivi, la Nazionale, questo, quello. Beh, alla fine ho giocato pure in Nazionale facendo tunnel! [ride] Sentirmi dire quelle cose mi dava ogni volta più forza, pensavo: vedrai, vedrai…

Sono curioso di sapere che effetto ti fa sentire oggi queste parole, che ho letto sul Guardian, in un articolo del 2009: “Javier è il figlio che ogni madre desidera e il fidanzato che ogni ragazza vorrebbe”.

Sì, è così dai… sì [ride]. In realtà è una cosa di cui sono contento, perché rispecchia come sono fatto. Mi è successo più o meno sempre di creare da subito un bel rapporto, quando andavo in società nuove; quando mi compravano e avevano a che fare con me nei primi tempi, vedevano un ragazzo tranquillo, sereno, umile, riservato, e non se l’aspettavano, credo. Quando sono arrivato dall’Argentina ero giovane, forse si aspettavano una persona diversa. E lo stesso quando sono andato a Parigi: ero l'acquisto più caro nella storia del club, i giornalisti non si aspettavano che io facessi interviste, che mi fermassi a parlare e fare foto con i tifosi, che li salutassi in tribuna. A me veniva naturale, ho sempre sentito una grande gratitudine verso i tifosi: alla fine, se uno fa questo lavoro è grazie alla loro passione.

Cosa ricordi dei tuoi primi contatti con il Palermo?

Negli ultimi mesi sono venuti in Argentina a vedermi. A volte Sabatini, poi c’era sempre un suo collaboratore di Palermo, anche se ai tempi non mi avevano detto chi fosse. È stato lì per tre mesi, lo vedevo a ogni partita, ogni allenamento, alle cene con la squadra; mi ricordo questa persona che era sempre nell’ufficio del mio procuratore, io vivevo lì, e lui osservava tutto: come mi comportavo, cosa facevo, se ero serio, educato, tranquillo. Quando io ho deciso di andare a Palermo, il mio procuratore mi sembrava tranquillo, per niente sorpreso. Sapeva che avrei scelto il Palermo. Alla fine mi ha spiegato che quelle persone erano del Palermo: «Sono sicuramente quelli che ti vogliono di più», diceva. Penso sia stata la scelta giusta per questo. Zamparini mi voleva per forza, gli piacevo tantissimo. E Sabatini ha sempre avuto un occhio particolare per i giocatori sudamericani, in quei 5-10 anni ne ha portati tantissimi che hanno avuto delle grandi carriere in Europa.

E del tuo primo giorno in Italia, cosa ricordi?

Un giorno strano, sinceramente. [ride] Molto strano. Dopo aver fatto un viaggio di 14 ore ed essere arrivato a Milano, mi aspettavano Walter Sabatini e un collaboratore del mio agente. Siamo saliti in macchina per andare direttamente dall’aeroporto in Austria. Io neanche sapevo perché. Sabatini fumava dentro la macchina, io dietro di lui con il fumo che mi arrivava in faccia, per due ore, e pensavo: ma dove andiamo? Arriviamo al centro sportivo, la squadra era lì in ritiro, e mi presentano il presidente, Zamparini; e lui subito, ma proprio subito, mi chiede se volevo giocare, c’era una partita amichevole quella sera. Io avevo 19 anni, appena compiuti… certo che volevo giocare, figurati! Il problema è che non avevo neanche portato le scarpe, anzi non avevo proprio niente con me, perché in Argentina l’ultimo giorno prima di partire avevo regalato tutto. Zamparini allora mi dice: «Non è un problema, non importa, vieni con me», e andiamo sulla sua macchina. Io, lui e il collaboratore del mio agente, che faceva da traduttore. Andiamo in un centro commerciale e Zamparini mi dice: «Prendi tutto quello che vuoi, magliette, pantaloncini, scarpe, tutto quello che vuoi». E io gli rispondo: «Ma come tutto quello che voglio, mi servono solo scarpe e parastinchi», lui insisteva: «No, no, prendi tutto…».

Poi?

Torniamo al campo, che non era proprio il massimo, e io avevo le scarpe nuove, ma il presidente diceva: «Deve giocare, per forza». Allora entro nel secondo tempo. E subito, la prima palla appena entro, mi arriva alta e faccio un sombrero al difensore che mi viene incontro, la metto giù, tunnel al secondo, la passo lunga a Miccoli che la stoppa, gol. In tribuna non ci credeva nessuno. «Ma guarda questo…». Perché davvero, fisicamente quando mi vedevi i primi anni in Europa, così magro, capello lungo, corto, non si capiva bene, dicevi: ma questo dove va? Ricordo che dopo il gol in tribuna erano tutti impazziti… Zamparini piangeva.

Eh?

Giuro, mi hanno detto che è scoppiato a piangere!

Nei primi mesi hai fatto fatica, però.

Nei primi mesi a Palermo, sì, tanto. Non avevo mai lavorato tatticamente come qua in Italia, e non trovavo gli spazi giusti in campo; mi muovevo ma non mi davano mai la palla, e non perché non me la volessero dare, ma perché ero posizionato sempre male. I primi tre mesi sono stati difficilissimi.

Uno step di crescita necessario?

Penso di sì, venivo da un calcio diverso. Quando è arrivato Delio Rossi, però, è cambiato tutto. Mi ha parlato il suo primo giorno, mi ha detto: «Ho visto tutte le partite, tu ti posizioni male, è per questo che non stai giocando al tuo livello; il primo mese dopo l'allenamento con la squadra rimani un’ora in più ad allenarti con me». E così abbiamo fatto: prendeva me, Abel Hernandez, sei o sette ragazzi della Primavera, li metteva in campo e faceva girare la palla, seguendo i nostri movimenti e dandoci indicazioni. Lo facevamo tutti i giorni, e mi ha aiutato tantissimo.

Come hai accolto questa “formazione”?

Benissimo, e vedevo quanto fosse utile per me. Ho capito come dovevo giocare e ho recuperato il piacere di farlo, perché finalmente riuscivo a toccare tanto la palla, ad avere spazio per dimostrare quello che sapevo fare. Delio è l’allenatore che ha avuto l’impatto più forte sulla mia carriera in Europa, mi ha insegnato tantissimo. Dopo quel mese, è venuto da me e mi ha detto che ero pronto per giocare titolare tutte le partite. Nel frattempo lavoravo sulla forza fisica, in palestra, e anche quello è stato fondamentale.

Sei arrivato troppo "Flaco"?

Sì, fisicamente non ero pronto per giocare in Italia, per niente. Mi davano un colpo con il braccio o una spallata, e io perdevo palla, cadevo a terra. L’ho capito, ne ho parlato con i preparatori, con Delio, e per tre mesi mi sono fatto seguire anche da un preparatore argentino che conoscevo. Ci è voluto un po' per vedere i frutti, ma sia fisicamente sia tatticamente in quei mesi sono cresciuto tanto, e nella seconda parte di stagione ho cominciato a mostrare le mie qualità. Anche mentre lavoravo sulla mia forza comunque stavo già migliorando molto in campo: muovermi meglio mi faceva ricevere palla più libero, con lo spazio per girarmi fronte alla porta e scegliere che giocata fare. Ho iniziato a trovare sempre più continuità e fiducia, la mia e dei compagni.

Che ruolo ha avuto Sabatini in questo processo?

Come direttore sportivo, mi dava tanti consigli. Tutti i lunedì ci sedevamo nel suo ufficio e lui mi faceva vedere delle cose della mia partita, DVD di trenta minuti ogni volta. Mi diceva: «Questo molto bene», «ma questo male, Flaco», «e qui cosa hai fatto?». Sul gioco, ma anche su come mi comportavo: «perché hai fatto quel gesto a un compagno», e «perché ti lamenti sempre quando non te la danno giusta sui piedi?». Contava quante volte facevo gesti del genere, e io non me ne rendevo quasi conto, finché non guardavo quei video. Non ci potevo credere, a volte. Mi diceva: «È normale che i tuoi compagni dopo non te la vogliono dare, se fai così davanti a tutto lo stadio». Con Sabatini so di essere stato fortunato, perché mi ha davvero preso come se fossi suo figlio. Mi diceva sempre quando sbagliavo, quando facevo male qualcosa anche fuori dal campo, e per me è la cosa più giusta da fare con un giovane. Mi era sempre vicino e per il mio percorso è stato importante, davvero. È rimasto un bellissimo rapporto con lui, come anche con Delio Rossi, che sento sempre volentieri.

Primo nome che ti viene in mente, se ti chiedo chi ha inciso di più sul tuo percorso di crescita personale, a parte Sabatini?

Sicuramente Ancelotti, la mentalità e la professionalità che ti insegna lo rendono diverso da tutti gli altri. Standoci intorno ti accorgi subito che è abituato alle grandi squadre e alle grandi partite, riesce a trasmettere quella mentalità vincente. È stato il primo a mettermi quelle cose in testa, poi a Parigi sono arrivati tanti campioni: Ibra, Thiago Motta, Maxwell, Thiago Silva…

Con Ancelotti hai giocato in posizioni per te inedite, tra l’altro.

Sì, con lui giocavo spesso largo nel 4-4-2, e non l'ho fatto male. Però non era il mio, non mi sentivo libero: per metà partita dovevo difendere, poi giocavo la palla in punti del campo a cui non ero molto abituato. Mi sentivo un po’ snaturato, però Ancelotti voleva far giocare così la squadra ed è un allenatore che riesce davvero ad arrivare al giocatore. È molto bravo con le parole, mi ha convinto che potevo giocare lì e io sono riuscito a farlo bene, anche se sapevo di non potermi esprimere al 100% del mio livello. Ho fatto gol contro il Barcellona al Camp Nou, giocando in quella posizione tutta la partita, sulla fascia sinistra, con Dani Alves e Messi che mi attaccavano. Mi facevano impazzire: uno-due, finte, movimenti… Ancelotti però mi ha convinto di poterlo fare, e l’ho fatto.

Il tuo periodo migliore invece è stato dopo Ancelotti, giusto?

Sì, con Blanc, che mi ha dato molta più libertà. Giocavamo 4-3-3, io partivo largo a sinistra, ma potevo entrare dentro al campo e scambiarmi con Matuidi, ero molto più libero. Sicuramente sono stati i miei anni migliori al Paris Saint-Germain, e anche quelli in cui mi sono divertito di più. Era incredibile: Thiago Motta, Verratti, Matuidi, Ibra, Lavezzi, Cavani… giocavamo in modo incredibile, a un tocco, cinque o sei passaggi di fila, pam pam pam, palla alta, assist di tacco, gol. Chi gioca così oggi?

Ti piaceva di più giocare con Ibra o con Cavani?

Diversi, ma con tutti e due è stato divertente. Con Ibra potevi fare giocate, uno-due, capiva bene il calcio e tecnicamente era molto forte; fisicamente poi era incredibile: sapevo di potergliela dare ovunque, non importava l'altezza, lui ci sarebbe arrivato. Con Cavani invece mi piaceva un’altra cosa: quando alzavo la testa, lui aveva già fatto dieci movimenti, e con uno di quelli si era smarcato. Ho amato entrambi, forse con Cavani ci siamo divertiti di più. A me è sempre piaciuto tantissimo dare l’ultimo passaggio, amavo passare, preferivo un assist a un gol, e con lui era semplice; ero spalle alla porta, giocavo con Motta e Verratti, e appena ricevevo la palla e mi giravo, sapevo dove trovarlo. Siamo riusciti a creare una connessione speciale, facevamo giocate che gli avversari non si aspettavano, da cui sono nati tanti gol. Alcuni anche molto belli.

Uno in particolare?

Me ne viene in mente uno contro il Marsiglia, incredibile. Un’azione bellissima: Verratti prende palla in mezzo, la gioca in diagonale verso di me e io, guardando la mia porta, faccio un tocco così [mimando il gesto e la traiettoria del passaggio, con le mani] tra i due difensori; lui parte da dietro, la prende anticipando il portiere, la tocca così [segno dello scavetto di esterno], fa un gol pazzesco [in realtà il gol l'ha fatto Cavani, nda].

[@portabletext/react] Unknown block type "imageExternal", specify a component for it in the `components.types` prop

Anche a Palermo sei stato parte di terzetti/quartetti offensivi belli da vedere.

Sì, oltre a Cavani a Palermo ho giocato con Miccoli, Ilicic, Abel Hernandez e tanti altri che erano forti tecnicamente. Quando siamo arrivati io e Ilicic, strani come eravamo, alti, magri, uno destro e uno sinistro, la gente chissà cosa pensava. Non ho mai riguardato una partita intera di quel Palermo, però adesso mi sta venendo voglia, sai? Quell’anno con Ilicic, Abel Hernandez e Miccoli facevamo delle giocate che veramente erano un piacere per gli occhi. Anche quando non portavano a niente, la gente pensava: ma che hanno fatto questi? Siamo cresciuti insieme, e a me è sempre piaciuto che quelli intorno a me facessero bene. Il mio gioco era così, era molto collettivo, sempre. I terzini li facevo giocare bene, perché avevo quell’uno-due, quel passaggio alto quando facevano quel movimento lì. Non facevo le cose per me, mi interessava poco, il mio gioco era connettermi con gli altri.

Quel Pastore nel calcio di oggi come si troverebbe?

Sarebbe cresciuto in un contesto diverso, difficile dirlo. In questi anni è cambiato tanto il calcio, e già durante il mio percorso l’ho visto cambiare. Io quelle giocate con i compagni piano piano le potevo fare sempre meno, è diventato tutto palla al piede, correre, uno contro uno. Oggi ci sono spazi diversi, movimenti diversi, vogliono tutti la palla sui piedi, e per me è stato abbastanza difficile adattarmi. Ero abituato a giocare tante palle sulla corsa per i terzini, per l’attaccante, a creare spazi per i loro movimenti.

Senti che la direzione del gioco ti ha penalizzato, a un certo punto?

Sì, un po’ sì. Anche per questo le mie qualità hanno cominciato a essere meno importanti durante la partita: serviva meno il gioco collettivo di Pastore, si cercava direttamente l’uno contro uno degli attaccanti, quindi al posto mio magari entrava qualcuno più forte in difesa. E anche questo mi fa pensare: perché provare a tornare, se si gioca in modo così diverso?

Chi è che ti potrebbe convincere?

Angel Cappa! [ride] No, a parte me, il calcio di oggi è difficile, fisicamente soprattutto: devi essere un ottimo atleta, se no è difficile avere possibilità di giocare. Non lo dico io, è così. Guarda James Rodriguez: in nessun club in Europa è riuscito a giocare con continuità, e se ne è andato via. Anche Ozil, oppure…

Indovino: Riquelme.

Certo. Figurati, dove potrebbe giocare oggi? Questi numeri 10 non li vedi più. Ci sono quelli che si sono adattati: veloci e forti uno contro uno, come Di Maria, che giocava in mezzo al campo ed è diventato un’ala, e può andare avanti fino a 40 anni. Altrimenti ne vedi sempre meno. Far giocare bene i compagni, stare sempre con la testa alta, creare spazi per gli altri: sono sempre aspetti importanti, ma non come prima. Il 90% dei calciatori oggi giocano tutti nello stesso modo.

Nostalgia?

Non vedere più questi giocatori è un peccato per chi ama il calcio, sì. Penso che sia un po’ meno bello da vedere di quando ho iniziato io, tutti i giocatori fanno le stesse cose: corrono, testa bassa, palla al compagno davanti a te… non vedo più quelle giocate di istinto, quell’improvvisazione, e il calcio diventa meno divertente quando non vedi più giocate che ti sorprendono.

Guardi meno calcio di un tempo?

No, guardo ancora tante partite dei campionati europei. Quando posso guardo sempre le squadre in cui ho giocato: Palermo, Paris Saint-Germain, Roma, Elche, mi piace seguirle. In TV e non solo. A Madrid poi vado tantissimo allo stadio - Atletico, Real, Getafe, Rayo - e oggi che ero qui a Milano ad esempio sono andato a vedere Monza-Frosinone Primavera: c’era lì il mio procuratore e mi ha fatto piacere. Però in generale mi diverte meno di prima, sì.

D’altronde sei un “maleducato del calcio”, come diceva Maradona. Un maleducato che gli piaceva molto quando era CT dell'Argentina, ti ha portato in Nazionale che eri ancora giovanissimo.

Sì, in quella squadra, con Messi e tutti gli altri campioni che trovavo ogni volta: è incredibile aver iniziato così con la Nazionale. Diego mi ha dato subito tanta fiducia, avevo 19 anni, e lui dopo ogni allenamento mi parlava, mi chiedeva come stavo, mi dava consigli. Mi diceva: «Sei in Italia, è una bella occasione per te, ne devi approfittare: gli italiani sono bravi, ti vogliono bene, ti daranno delle cose… ma stai attento anche, fai questo, non fare quello, guarda alle persone che hai intorno, ricordati che in Italia si vive di calcio, soprattutto in città come Napoli e Palermo», e cose del genere. Era molto attento a me, soprattutto a livello personale.

Aveva paura che perdessi la rotta?

Lui era venuto a fare una carriera in Europa prima di me, prima di tutti quelli che giocavano in Nazionale con me, e sapeva di aver fatto tanti errori, tante scelte sbagliate. Ci voleva aiutare, come uomo prima che come allenatore. Sono stati insegnamenti importanti per me.

Com’è essere allenati da una leggenda?

Solo vederlo lì era una spinta in più per noi. Quando ci parlava, noi avevamo una voglia incredibile di uscire e dare tutto in campo. Io avevo quella sensazione: non importava ciò che diceva, era proprio la sua essenza, il suo stare lì, il rispetto che avevano tutti nei suoi confronti. Non ho visto con nessun altro allenatore un’atmosfera simile. Nessuno ha creato le sensazioni che ho vissuto in quella squadra.

A proposito di allenatori: tu hai giocato con un po’ di futuri allenatori, due in particolare di grande attualità in questi giorni, Thiago Motta e Daniele De Rossi.

Li sto seguendo e mi fa tanto piacere che stiano andando bene, sono due amici e due belle persone; ma non è una sorpresa per nessuno, anzi, credo che se lo aspettasse chiunque ci abbia giocato insieme. Hanno caratteri e modi di comunicare diversi, ma entrambi sono sempre stati amati e rispettati in ogni spogliatoio e società, ovunque. Vedevano le cose da allenatori già mentre giocavano: capivano sempre prima quello che stava succedendo, spiegavano le posizioni sul campo, sapevano parlare con i compagni con i modi e le parole giuste. Si vedeva, davvero.

Thiago Motta è l’oggetto dei desideri di tante grandi squadre.

Giusto che sia così, sta facendo benissimo. Mi piace molto il suo modo di far giocare le squadre, ci rivedo le sue idee in campo, e il Bologna è davvero bello da vedere: vuole controllare il gioco, non ha paura di prendere iniziativa, di portare tanti giocatori in attacco, e magari di subire gol. È stato un anno incredibile per il Bologna, e sarebbe bello se Thiago Motta restasse anche l’anno prossimo, con la Champions League… vediamo che scelta farà, sono curioso anche io. Da fuori non sai mai cosa può pensare una persona sul proprio percorso, e lui è uno che ha sempre preso le sue decisioni con lucidità. È alle prime esperienze, ha appena iniziato, non credo che abbia fretta. Può decidere con serenità, insomma.

E De Rossi?

Daniele è arrivato a Roma che la situazione era abbastanza un disastro, la squadra giocava male, ma da una settimana all'altra è cambiato tutto. So che è in un posto dove gli vogliono bene tutti, da chi pulisce il centro sportivo al presidente, e in questi mesi ha fatto sicuramente un ottimo lavoro. Come dicevo, però, non mi ha sorpreso: io ho fatto l'ultimo anno a Roma con Daniele, che ancora giocava ma era un allenatore dentro il campo. Ricordo ad esempio quando era appena arrivato Kluivert, che non stava giocando bene ed era un po’ in difficoltà. Gli veniva detto di fare questo, non fare quell’altro, gli si chiedeva tanto, ma nei modi sbagliati… era molto giovane, aveva 19 anni, e arrivava da un altro Paese e un altro modo di giocare a calcio: il modo in cui gli si parlava era sbagliatissimo secondo me, e di sicuro con lui non stava funzionando. Allora Daniele andava da lui dopo gli allenamenti, gli parlava con un tono diverso, e Kluivert capiva le cose. Si vedeva che sapeva rapportarsi ai compagni come un allenatore.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura