
Come abbiamo fatto a non pensarci prima, ad Andrea Dallavalle. Com’è che alle battute finali di un’avvincente finale di salto triplo maschile, nella terz’ultima notte di gare ai Mondiali di Tokyo, non sia venuto in mente che il punto esclamativo potesse arrivare dall’altro italiano, quello meno atteso, quello che negli ultimi anni finiva citato sempre per secondo, negli articoli della stampa specializzata.
Forse abbiamo poca fantasia, sappiamo prevedere solo ciò che abbiamo già visto, quello che supponiamo di poter vedere. È per questo che ci serve, il sesto salto di finale di Andrea Dallavalle: perché saltando a 17,64 metri dall’asse di battuta, strapazzando il suo primato personale di 28 (ventotto!) centimetri, ci ha ricordato che fortuna ci sono gli atleti, e i loro allenatori, a sognare futuri e presenti che noi nemmeno osiamo immaginare.
Per certi versi, la parabola di Dallavalle ricorda quella di Marcell Jacobs, negli anni precedenti a quel beato 2021 – che oggi già sa di nostalgia. Erano, quelli, gli anni dell’ascesa inarrestabile di Filippo Tortu, che nel 2018 diventava il primo italiano a scendere sotto i 10 secondi, che si prendeva copertine e attenzioni, che prometteva all’Italia un velocista d’élite nella disciplina regina della velocità, l’autentico erede di Mennea. Vinceva spesso in quegli anni, Tortu, e Jacobs compariva discreto nei tabellini e negli articoli come comprimario, citato più per rispetto che per ammirazione. Per questo, in quei mesi assurdi che culminarono con il primo agosto di Tokyo, anche i più attenti ebbero la sensazione di vedersi animare qualcosa che avevano in realtà sotto gli occhi già da molto tempo, come un uomo in tuta mimetica che esca dalla boscaglia.
Aggiustando le proporzioni, anche ad Andrea Dallavalle è successo qualcosa di simile. Andy Diaz era planato come un deus ex machina nel triplo italiano: cubano di nascita trapiantato in Italia all’improvviso e allenato dalla leggenda Fabrizio Donato (bronzo a Londra 2012), una storia difficile – e notevole – alle spalle che si era in fretta costellata di trionfi con la nuova maglia azzurra: il bronzo alle Olimpiadi di Parigi, l’oro ai Mondiali indoor di Nanchino (con tanto di miglior misura dell’anno, 17,80m), la vittoria in Diamond League ad appena un mese dall’appuntamento di Tokyo. I titoli degli articoli che elencavano le prospettive di medaglia, meritatamente, erano suoi, sue le aspettative, sue le pressioni. Ma ai Mondiali Diaz non è riuscito a esprimersi ai livelli cui aveva abituato, chiudendo le qualificazioni al settimo posto e la finale al sesto, senza mai competere per le medaglie, frenato anche da un problema all’inguine – di cui lui, con grande eleganza, ha negato ogni condizionamento. Nel frattempo, quasi distrattamente (per noi, non certo per lui), Dallavalle macinava salti.
E proprio durante tutta la gara emerge la nostra mancanza di fantasia: perché a differenza del Jacobs pre-Covid, Andrea Dallavalle avremmo dovuto conoscerlo molto, molto bene. Il suo in azzurro era un curriculum pluridecorato, a partire dalle categorie giovanili, dove era finito sul podio prima agli Europei U18, poi a quelli U20, e infine a quelli U23 che aveva vinto alla sua seconda partecipazione, a Tallin nel 2021. Era stato, quello, l’anno della sua consacrazione a livello internazionale, l’anno in cui aveva raggiunto per la prima volta i 17 metri (17.35 ai campionati italiani U23, settimo uomo in stagione), e soprattutto l’anno che l’aveva lanciato alle sue prime soddisfazioni senior la stagione successiva: l’argento agli Europei di Monaco (dietro il portoghese Pedro Pichardo) e forse soprattutto il quarto posto ai Mondiali di Eugene, a sei centimetri dal podio del cinese Zhu (oro di nuovo a Pichardo, argento al burkinabé Zango).
Insomma, a 23 anni, Dallavalle sembrava arrivato, pronto a restare tra i grandi: è stata una distorsione alla caviglia destra, nel 2023, a frenarlo: da allora, per due anni e mezzo, i 17 metri rimarranno un miraggio – pur raggiungendo misure che gli permetteranno la partecipazione a Europei e Olimpiadi. «È stato un infortunio che mi ha tolto tanta fiducia», avrebbe dichiarato nell’inverno del 2025, quando le cose, finalmente, sembravano virare nuovamente nel verso giusto, con il bronzo agli Europei indoor di Apeldoorn, nei Paesi Bassi, la gara che Dallavalle definirà «della rinascita». Alla fine della gara, Dallavalle cita la celebre dichiarazione del fu attaccante del Trani Antonio Picci: “Fino a sei mesi fa, non mi voleva neanche mia madre”.
Ma proprio nel momento in cui stavamo mettendo di nuovo gli occhi su Dallavalle un altro infortunio, stavolta al ginocchio sinistro, ce lo ha tolto da sotto il naso: il turno di qualificazione ai Tokyo, mercoledì 17 settembre, era la sua prima gara all’aperto. Nel momento di splendere, Dallavalle continua a doversi nascondere: «L’obiettivo era saltare il meno possibile», dichiara dopo la qualificazione, e l’obiettivo è stato raggiunto brillantemente: il 17.08 al primo tentativo lo mette subito in un’ottima situazione di classifica, risparmiandogli la necessità di altri tentativi. Quando inizia la finale, Dallavalle ha completato a tutti gli effetti un salto agonistico all’aperto in tutto l’anno, e le sue ambizioni sono un enigma.
Tanto più che i nostri sguardi sono completamente assorbiti dalle difficoltà di Andy Diaz: il capofila stagionale litiga con la rincorsa, si carica, sfoga la sua frustrazione urlandosi addosso, mentre le possibilità di medaglia sembrano scivolargli via un tentativo alla volta. Dallavalle, intanto, a metà gara piazza un 17.24 che lo issa al quarto posto, un centimetro dietro l’algerino Triki – con il solito Pichardo e il cubano Martinez più lontani. Dallavalle fa la sua gara, salta una sola volta sotto i 17, ma l’assenza prolungata dai palcoscenici sembra un tetto di cristallo destinato a rimanere lì, a tenerlo a un centimetro da una prima medaglia di livello mondiale. Quando Diaz chiude l’ultimo salto a 16.81, e la gara al sesto posto, una delle migliori opportunità di podio italiane sembra essere svanita. Non è bastata la prima Tokyo, quella del 2021, non sono bastati quattro anni in cui l’Italia dell’atletica ha saputo sempre superarsi, niente ancora sembrava suggerirci che potesse essere il momento buono, che Andrea Dallavalle stesse arrivando. E invece è arrivato.
Nell’istante dell’ultimo salto, il cervello si prepara a confrontare il segno che Dallavalle lascerà sulla sabbia con la linea virtuale della medaglia di bronzo. Cosa potremmo sognare di più? Eppure, impegnati come siamo a guardare quell’angolino di mondo, non ci accorgiamo subito che l’azzurro non è atterrato da quelle parti, ma molto, molto più in là. Che la linea di bronzo l’ha passata e di parecchio, così come quella dell’argento e dell’oro. Appena dopo l’atterraggio, Dallavalle si tira su come una molla, e alza le mani come a chiedere tempo, come a prendersi un secondo di tregua prima delle emozioni, che ancora non intravede ma di cui già intuisce la violenza. Il primo urlo arriva alla lettura della luce: verde, il salto è valido. Il secondo, quello definitivo, segue la comparsa del risultato sui tabelloni: 17,64m, ventotto centimetri sopra il suo precedente primato personale. Andrea Dallavalle, a tre salti dalla conclusione della finale mondiale, è primo. Le telecamere inquadrano Pichardo, impassibile. Andrea si dimena, si tira la maglia, perde la voce strillando verso la tribuna. Vi ricorda qualcosa?
È una scena che nell’atletica italiana ha un archetipo specifico, l’immagine precisa della volontà di potenza applicata al tartan: Andrew Howe ai mondiali di Osaka 2007, 8.47m di record italiano all’ultimo tentativo, lui in pista e la madre in tribuna, rapiti in una sorta di trance giubilante che l’Italia di allora, se possibile ancora più bianca e bigotta, non perdonerà mai loro. Anche quel giorno, tra le scene dell’esultanza di Howe, le telecamere inquadrarono l’avversario, Irving Saladino. Nessuna emozione apparente. Attaccò l’ultima rincorsa, stampò 8.57 di record continentale, e si prese l’oro che soltanto Mattia Furlani, diciott’anni dopo, seppe restituirci.
A questo punto, se non l’avete letto nelle scorse ore, avrete già capito come va a finire, e cioè con Pedro Pichardo, uno dei più grandi triplisti di sempre, uno dei soli otto uomini capaci di saltare sopra i 18 metri, già campione olimpico e mondiale, che alle spalle di un Dallavalle senza più il coraggio di guardare, all’ultimo salto della finale, si spinge a 17.91m. È il miglior salto dell’anno, e soprattutto e la medaglia d’oro. Nella notte sportivamente più bella della sua vita, Dallavalle guarda sconsolato il suo allenatore, Ennio Buttò, e allarga le braccia, ma il sorriso gli torna in fretta: ora che Dallavalle è arrivato, non se ne vuole più andare: «Ora sanno chi sono. Dovranno preoccuparsi anche di me in pedana».