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Come la NBA sta cercando di tornare in campo
22 mag 2020
22 mag 2020
Sono passati più di 70 giorni dall'ultima partita e ci sono ancora molti ostacoli da superare per tornare a giocare.
(articolo)
12 min
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Ora che è finita anche The Last Dance, e con lei l’ultima briciola di nostalgia che ci riempiva la pancia in mesi che solitamente erano consacrati alle battaglie dei playoff, i nostri bioritmi non possono tornare al loro posto solo con partite recuperate su YouTube: abbiamo bisogno di rivedere in campo i giocatori che tanto ci fanno divertire ed appassionare. Sono passati oltre 70 giorni dalla infausta notte di Oklahoma City, ad ora l’ultima pagina scritta sulla stagione 2019-20, e siamo ancora in attesa che si riesca a trovare un modo per portarla a termine rispettando ovviamente le norme di sicurezza sia per i giocatori sia per tutte le persone che sono necessarie affinché si possa svolgere una partita di pallacanestro.

In un recente confronto tenutosi su Zoom con il Board of Governors NBA, il Commissioner Adam Silver ha ammesso che prendere decisioni definitive ora non è semplicemente impossibile, ma è dannoso. Come tutti, anche coloro che gestiscono una lega professionistica non hanno idea di cosa ci aspetterà domani, figuriamoci di come organizzare un torneo di basket che coinvolge migliaia di persone tra giocatori, allenatori, addetti ai lavori e esponenti della stampa e delle televisioni. Ovviamente senza contare gli spettatori, che con molta probabilità torneranno a vedere la pallacanestro dal vivo solo il prossimo anno. Dalle parole di Silver si avvertiva tutta la frustrazione e l’incertezza tipiche di questi giorni, ma senza perdere del tutto la speranza.

Come si sta muovendo la lega

Da inizio mese anche gli Stati Uniti sono entrati nella loro Fase 2, riaprendo via via i campi di allenamento delle varie squadre in base alle direttive degli stati di riferimento. Solo che la disparità tra le scelte dei vari Governatori ha creato un vantaggio competitivo tra le franchigie situate in zone a basso contagio rispetto a quelle situate in aree dove le aperture avverranno con maggiore cautela. Ad esempio la California deve ancora decidere una data di riapertura e questo ha ritardato la preparazione di ben quattro squadre. Giannis Antetokounmpo dovrà addirittura aspettare il 26 maggio, quando il Wisconsin potrà finalmente ripartire.

Si tratta in molti casi di allenamenti individuali o al massimo di piccoli gruppi, ma almeno inizialmente erano su base strettamente volontaria e senza la presenza dei capi-allenatori. Secondo indiscrezioni i giocatori di Lakers e i Clippers, mentre attendevano una data per le riapertura delle proprie palestre, hanno organizzato allenamenti privati in gruppetti di due o tre per non perdere tono muscolare e chimica di squadra. Le franchigie hanno inoltre cominciato a riportare i propri atleti alla base, in previsione di un graduale ritorno alla normalità che dovrebbe avvenire a partire dall'1 giugno. E verso la metà del prossimo mese la NBA dovrebbe arrivare a una decisione sulle sorti della stagione, quando si spera si avranno informazioni più complete riguardo alle strategie per contenere i contagi e nella speranza che la forza del virus vada scemando.

https://twitter.com/wojespn/status/1263189177597931521

Nonostante non siano uscite informazioni precise a riguardo, Adam Silver, i proprietari delle squadre e l'associazione dei giocatori sono tutti convinti che si riuscirà alla fine ad assegnare un titolo, anche se ci sarà da contraddistinguerlo con un asterisco. È improbabile infatti che la post-season possa ricalcare il modello al quale siamo stati abituati finora, con le serie che si rimbalzavano tra i vari palazzetti sparsi sulle due coste per poi arrivare all’atto finale con tanto di aerei privati che solcavano i cieli attraverso l’America. Una delle tante abitudini che ci sembravano naturali e che il Covid-19 ha congelato per chissà quanto tempo.

Eliminare il contatto tra il mondo NBA e quello esterno, e allo stesso tempo limitare al massimo la mobilità delle squadre e del loro entourage, è diventato di capitale importanza. Così con il passare dei giorni ha preso sempre più piede la possibilità di svolgere i playoff in una "bolla" dove isolarsi e giocare le partite necessarie ad eleggere una vincitrice per la stagione 2019-20. Le due sedi proposte sono Orlando e Las Vegas, con la prima ora in chiaro vantaggio.

Sin City è la tradizionale sede estiva della Summer League e del G-League Showcase e quindi sarebbe attrezzata ad ospitare nei tanti alberghi della Strip tutto il personale necessario per i playoff. Non tutti però sarebbero disposti a passare i mesi della quarantena in una città particolare come Vegas - nonostante i casinò non riapriranno finché non arriverà l’ok del Nevada Gaming Control Board - per giocare un torneo di basket. Evidentemente non sono tutti Dennis Rodman.

La Bolla Disney

Proprio l’altro ieri sera i principali insider NBA hanno rilanciato la notizia che Disneyland sarebbe la destinazione ideale per creare la bolla che rispetti le norme igieniche ed eviti outbreak sanitari.

https://twitter.com/ShamsCharania/status/1263149599415549952

Dove una volta era tutto Topolino, quindi, potrebbe sbarcare presto lo sport più elettrizzante del pianeta, in un palcoscenico tanto assurdo quanto affascinante. Immaginate solo LeBron James impegnato in un gioco a due con uno dei candelabri di Cenerentola o Giannis Antetokounmpo arrivare al ferro usando l’ottovolante di Fantasilandia: le possibilità di unire il più famoso parco di divertimenti al mondo al brand NBA basterebbero da sole per sperare che si riesca presto a far ripartire la stagione nella bolla della Florida. Inoltre per ovviare alla mancanza del fattore campo si potrebbe assegnare a ciascuna squadra un universo di riferimento, così da far giocare i Lakers nello zoo (scusate: Animal Kingdom Theme Park), i Clippers nel mondo di Toy Story, i Sixers sulle rapide del mondo acquatico, i Nuggets nel vecchio West. Quelli con la testa di serie più alta scelgono per primi e poi via via tutti gli altri.

Non so se la mia proposta verrà mai accettata da Adam Silver (spero di sì), ma la scelta di Disney World Resort come sede deputata dei playoff 2020 avrebbe soprattutto risvolti logistici e pratici al netto della brandizzazione. Per prima cosa Disney World è uno spazio immenso di oltre 100 chilometri quadrati (per intenderci: il doppio di Manhattan), già attrezzato con alberghi, palestre e centri ricreativi. All’interno del parco divertimenti inoltre si trova anche l’ESPN Wide World of Sports Complex, un gigantesco comprensorio sportivo pronto ad essere rapidamente approntato per ospitare un torneo di basket di queste dimensioni e già dotato dei collegamenti televisivi necessari per il broadcast.

La seconda condizione positiva per la NBA è che il Governatore Repubblicano Ron De Santis, insediato lo scorso novembre, è molto vicino al Presidente Trump e alle linee guida dettate dal Governo sulle riaperture. De Santis si è speso in prima persona per incentivare gli sport americani a spostarsi in Florida, sperando di avere un ritorno economico, e sia la UFC che la WWE hanno già tenuto eventi senza pubblico nel Sunshine State. Al netto delle considerazioni sulla sicurezza sanitaria, per la NBA sarebbe molto più semplice fare lobbying su di lui piuttosto che, ad esempio, su Gavin Newsom, il suo omologo californiano che ha vietato gli spettacoli dal vivo fino al 2021.

Il terzo e più importante incentivo verso la scelta di Orlando come sede deputata rimane la posizione di Disney, non solo la proprietaria del parco ma anche di ESPN e ABC, le due principali reti televisive aventi i diritti sulla NBA insieme a TNT del gruppo Turner. I contratti televisivi sono infatti il più forte incentivo affinché la stagione regolare riparta e soddisfi le richieste delle emittenti. Il danno economico causato dalla cancellazione dei playoff è stato stimato per i soli introiti televisivi oltre i 900 milioni di dollari, ai quali andrebbero aggiunti anche quelli che non arriverebbero dai network regionali, il cui pagamento scatta per contratto alla trasmissione della 70^ partita stagionale (la stagione si è fermata attorno alla 65^ per ogni squadra). Senza contare gli incassi degli spettatori nei palazzetti, che sono stati stimati per le restanti partite di Regular Season e dei playoff oltre il mezzo miliardo di dollari e che sicuramente non entreranno nelle casse delle squadre.

Riuscire quindi a tamponare le perdite diventa vitale per la NBA e una ripartenza anche in condizioni particolari diventa necessaria per la salvaguardia dell’ecosistema della lega per come è stata strutturata negli ultimi decenni, e soprattutto per fare le prove generali rispetto a come verrà disputata fino a quando non ci sarà un vaccino o una cura facilmente accessibile al Covid-19. Di fatto la NBA non sta giocando solo per questa stagione, ma anche per quelle a venire.

Ripensare la NBA

Lo stop imposto dal Coronavirus infatti è stato per la NBA una tempesta che si è abbattuta nel momento peggiore. Oltre agli ingenti danni economici causati dal lockdown, la NBA doveva già gestire la riduzione prevista degli introiti del mercato cinese causati dall’incidente diplomatico di Daryl Morey e che ha portato alla rescissione dei contratti con le televisioni orientali. Non è stato ancora stimato l’effettivo impatto sull’BRI (Basketball Related Income) della lega, ovvero sull’aggregato di tutti gli incassi legati alla pallacanestro, ma non ci sono dubbi che sarà brutale. Secondo i calcoli di Bobby Marks provocherà un crollo del cap previsto per la stagione 2020-21 da 115 milioni a 95 milioni di dollari e la luxury tax da 139 milioni a 115 milioni di dollari, costringendo 25 delle 30 squadre in luxury tax e paralizzando la Free Agency 2020. Una situazione che forzerà la lega a fare una scelta inedita, tra il mantenere artificialmente i livelli della stagione precedente o muoversi come scritto sul CBA (il contratto collettivo) e ristrutturare i tetti salariali delle squadre. In entrambi i casi le ripercussioni sono ancora tutte da stimare, visto che la NBA non si è mai trovata di fronte a una crisi così profonda e improvvisa. Neanche negli anni del lockout regnava così tanta incertezza tra chi doveva prendere le decisione, e a breve bisognerà affrontare anche un altro problema legato alla struttura dei contratti dei giocatori.

La NBA ha già rimandato a settembre la deadline del CBA per rendere possibile l’estensione della stagione ad estate inoltrata, ma se anche questa non dovesse bastare bisognerà ricorrere a nuovi sistemi per pagare i giocatori o assicurare che rimangano sotto contratto mentre scendono in campo.

Inoltre questa stagione è stata funestata da un netto calo nei rating sulle televisioni nazionali, complici anche gli infortuni di Steph Curry, Kevin Durant e Zion Williamson che hanno costretto spesso a cambi in corsa della programmazione pur di trasmettere partite con un certo interesse competitivo. Lo spostamento dell’interazione dei fan dalla tradizionale rete televisiva nazionale ai social e alle piattaforme è sempre più una realtà da prendere in considerazione, e che prima o poi porterà a una rimodulazione non solo dei canali di monetizzazione ma anche ad una differente struttura della stagione, a partire dal numero di partite in stagione regolare.

Ipotizzando che questa stagione sia portata a termine entro l'inizio di settembre e la prossima iniziasse a dicembre, potremmo davvero essere davanti ad un cambiamento epocale del calendario dello sport professionistico americano, che causerebbe un effetto domino sulla struttura interna delle varie leghe e oltre (ad esempio sulle competizioni FIBA e sulle Olimpiadi). Ma appunto, ad ora queste rimangono solo ipotesi dettate dalla speranza che prima o poi torneremo ad ascoltare il rumore del pallone che suona il parquet, purtroppo anche più di prima vista l'assenza dei tifosi.

Di fatto siamo tutti in mare aperto: abbiamo superato le colonne d’Ercole e navighiamo a vista senza scorgere la terraferma. Se la colomba lasciata andare da Adam Silver porterà indietro un paio di orecchie rotonde ci avvicineremo ad un esperimento unico al mondo, che presenta però molte difficoltà e contraddizioni. Nonostante l’atteggiamento di De Santis, la Florida al momento è al nono posto per casi di Coronavirus tra gli stati federali e undicesima per morti. La contea di Orlando per ora è quella meno colpita, ma le cose potrebbero cambiare rapidamente se l’intero circo della NBA dovesse mettere tenda a casa dei Magic. Jared Dudley - uno dei veterani più ascoltati nel giro - ha puntualizzato che la bolla prevista da Adam Silver non sarebbe così stringente come si pensa, con i giocatori che avranno il permesso di entrare ed uscire dalla sede selezionata, ma anche che saranno loro stessi a doversi prendere la responsabilità dei loro comportamenti.

Nonostante non ci siano ancora comunicazioni ufficiali, la NBA non dovrebbe sospendere le gare con la positività di un singolo giocatore ma lo metterebbe in quarantena per 14 giorni e gestirebbe il tracciamento dei contagi con test a getto continuo. Questo perché ogni atleta affetto da Covid-19 - che la lega ha ammesso essere un numero superiore a quello precedentemente dichiarato - ha superato la malattia senza ospedalizzazione e in un breve periodo di tempo. Difficile dire quanto tale profilassi sia perseguibile anche dal personale che sarà messo a disposizione delle squadre, che non ha l’efficienza fisica e il costante monitoraggio di un atleta professionista, e soprattutto di come sarà possibile tracciare tutte queste persone.

Bob Iger - il nuovo Presidente Esecutivo della Walt Disney Company e amico personale di Chris Paul - ha presenziato al Board of Governors NBA tra Silver e i proprietari delle franchigie del 17 aprile e con un gioco di parole ha fatto capire quale sia il vero nodo da sciogliere in vista di un’eventuale riapertura. «Non è un problema di date, è un problema di dati», ovvero finché non ci sarà una stabilizzazione nei contagi e si arriverà ad abbassare quella famosa curva, è difficile se non impossibili fare previsioni.

https://twitter.com/ShamsCharania/status/1263565595271991296

Alla fine dei conti la NBA per quanto rimanga una lega avveniristica avanti anni luce rispetto a molte altre federazioni sportive deve rendere comunque tener fede alle scelte della Casa Bianca, che oscillano dalla sottovalutazione all'allarmismo senza che si implementi davvero un sistema di tamponi e tracciamento. Nonostante le parole di Trump, gli USA sono ancora molto lontani rispetto a un numero accettabile di tamponi per abitante e la NBA, pur potendo accedere a laboratori privati, non può intasare un sistema già allo stremo senza che ci sia una vera necessità di salute.

Creare una bolla per finire la stagione significherebbe anche isolarsi simbolicamente dal dramma del Paese, una condizione necessaria quanto privilegiata che la lega preferirebbe evitare. La NBA si è sempre fregiata di aver stabilito un forte rapporto con il territorio e i propri tifosi, e abbandonare le città di appartenenza per rifugiarsi a Disneyland per salvare i contratti televisivi non sarebbe una mossa eticamente cristallina.

Si farà quello che è possibile per ripartire visto che tutte le parti in campo spingono per trovare una soluzione, compresi i tifosi che hanno bisogno del basket in un momento così complicato. Ma rimettere in piedi lo sport professionistico in una nazione che ha già quasi 100.000 vittime a causa del Covid-19 non sarà certo né facile né indolore.

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