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Foto di Bill Baptist/NBAE via Getty Images
NBA Michele Pettene 8 ottobre 2019 9'

Cosa c’è dietro l’incidente tra Daryl Morey e la Cina

Soldi, regimi e libertà: cosa è successo tra gli Houston Rockets, la NBA e la Cina.

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Probabilmente nemmeno andando di persona ad appendere il poster del Dalai Lama sulle mura della Città Proibita di Pechino Daryl Morey avrebbe potuto far danni peggiori di quelli causati da un singolo post sul suo profilo Twitter. Il messaggio, cancellato rapidamente dal General Manager degli Houston Rockets, ha provocato una reazione a catena talmente ampia, profonda e ingestibile a così tanti livelli che il rischio di fare confusione diventerebbe immediato. Meglio quindi andare con ordine per capire in che modo i Rockets si siano trasformati nell’arco di un weekend da squadra NBA più amata dai cinesi a franchigia da dimenticare al più presto.

Per farlo partiamo dall’immagine che il GM dei  texani ha pubblicato nella notte italiana tra venerdì 5 e sabato 6 ottobre, ovvero la frase-simbolo che da mesi sta circolando in tutto il mondo: “Fight for Freedom. Stand With Hong Kong”. Apriti cielo.

 

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Perché tanto clamore: i retroscena

Facciamo un passo indietro per farne poi due in avanti. Perché Daryl Morey – nel bel mezzo degli NBA Games programmati per i suoi Rockets proprio in Asia in questi giorni – si è preso la briga di postare con il suo account Twitter ufficiale una frase di sostegno a una città del sud-est della Cina?

 

Sintetizzando il più fedelmente e imparzialmente possibile, Hong Kong sta attraversando la più drammatica crisi da quando, nel 1997, è ritornata sotto la sovranità della Repubblica Popolare Cinese dopo essere stata formalmente un territorio della Gran Bretagna per quasi tutto il XX Secolo.

 

Prima dell’arrivo degli inglesi Hong Kong era stata parte della Cina per quasi 700 anni, così nel 1984 cinesi e Gran Bretagna avevano firmato la Dichiarazione Congiunta che avrebbe riconsegnato nel 1997 l’ex-colonia alla Repubblica Popolare. Con una postilla piuttosto fondamentale: cresciuta e diventata una delle potenze economiche più forti e solide d’Oriente sotto il governo inglese, Hong Kong avrebbe mantenuto per 50 anni una forte autonomia rispetto al governo centrale di quella che viene chiamata Cina continentale (“mainland China”), per ammorbidire la transizione e il passaggio di consegne definitivo previsto nel 2047.

 

Problema: se sei fiorita in una sorta di piccolo Paradiso isolato dal resto del mondo orientale e governata da coloni sì, ma inglesi, nobili, sostenitori del libero mercato e della teorica democrazia occidentale, è probabile che – al risveglio nel 1997 – il ritrovarsi improvvisamente governati dagli eredi della Rivoluzione Culturale di Mao Tse-tung possa provocare (eufemismo) qualche perplessità sul futuro corso degli eventi.

 

Dubbi che nel giro di pochi anni hanno avuto tutti triste conferma: Pechino e il Segretario Generale del Partito Comunista nonché presidente Xi Jinping hanno provato in tutti i modi leciti ed illeciti ad insinuarsi all’interno delle strutture legislative e sociali della “nuova” Hong Kong, terrorizzati dall’ampia libertà di espressione e di stampa del territorio neo-acquisito e dalla pericolosa autonomia della città garantita dagli accordi originari con la Gran Bretagna.

 

Un’ossessione per il controllo di tutto ciò che sta sotto il loro grande cielo rosso che si è tradotto in continue proposte di legge “caldamente suggerite” ai governanti locali (scelti da loro) per inasprire le pene contro “i nemici dello Stato” (leggi: tutti quelli che non la pensano uguale, chiedere agli Uiguri mussulmani per agghiacciante dimostrazione).

 

Proposte, come il motivo scatenante di quest’ultimo, enorme movimento di protesta – l’estradizione dei criminali nelle temutissime carceri della Cina Continentale – tutte rispedite al mittente dai coraggiosi cittadini di Hong Kong nell’unico modo possibile: scendere in piazza in massa, rimanerci ad oltranza e prendere per sfinimento l’avversario.

 

È successo l’1 luglio del 2003, la prima volta che mezzo milione di abitanti si è unito contro una nuova legge del governo sulla sicurezza. È successo nel 2014, con la “rivoluzione degli ombrelli” e la richiesta di nuove riforme democratiche. Sta succedendo ancora oggi e dal 31 marzo 2019, con gli ombrelli di nuovo aperti per ripararsi dal lancio dei lacrimogeni della polizia mentre si sono già registrati 2.000 feriti, 8 suicidi e 1.453 arresti, abbastanza per costringere il “sindaco” Carrie Lam a ritirare il 4 settembre la proposta sull’estradizione.

 

Con i soliti danni collaterali  (vandalismi, rapine, risse) che un tale movimento di persone può provocare e che il governo ha potuto usare come scusa per l’intervento violento. Si può dire che Hong Kong stia lottando per la propria stessa sopravvivenza, o perlomeno per quella garantita dagli accordi del “one nation, two systems”. Ritirarsi ora dalle strade significherebbe arrendersi alle ingerenze di Pechino: la frase che Daryl Morey ha pubblicato sosteneva questa battaglia, il suo tweet significa tutto questo.

 

Chi si è offeso realmente

Ora, considerando l’estrema intelligenza di una persona ormai diventata sinonimo della pallacanestro analitica (non a caso ribattezzata Morey Ball), è difficile pensare che il GM di Houston non conoscesse tutti questi retroscena (anche se dalla sua dichiarazione in un tweet postumo riparatorio parrebbe così).

 

Da occidentale non vicino alla propaganda di Pechino sembra abbia commesso un errore di sottovalutazione su quanto non solo il governo ma l’intero popolo della Cina continentale sia diventato sensibile alla questione-Hong Kong in quest’ultimo periodo: i protestanti sono il nuovo nemico che metterebbe in pericolo i concetti di “unificazione” e di “sovranità” tanto cari al governo cinese, che ha investito molto della propria retorica a senso unico ma di successo sull’orgoglio, sull’identità nazionale e sulla sua inarrestabile crescita a potenza economica mondiale.

 

È questa in soldoni la spiegazione che il nuovo proprietario dei Brooklyn Nets, il co-fondatore del gigante dell’e-commerce AliBaba Joseph Tsai (nato a Taiwan), ha dato sulla sua pagina Facebook per spiegare a Morey e ai fan degli Stati Uniti il perchè di tanta indignazione. Tsai, citiamo letteralmente, tra un paio di excursus storici sulle invasioni straniere in Cina, ha scritto: “supportare un movimento separatista è un argomento che in Cina non è tollerato. Gli occidentali che così tanto criticano la Cina spesso ignorano che 1,4 miliardi di cittadini cinesi sono uniti come un solo uomo quando si parla di integrità territoriale e di sovranità della Cina sulle proprie terre. Un argomento non negoziabile”.

Alle sue dichiarazioni sono seguite quelle intransigenti delle istituzioni governative: gli uffici di Pechino non si sono lasciati sfuggire l’occasione di sferrare un attacco verbale a un simbolo degli Usa di Donald Trump nel bel mezzo della trade-war tra le due nazioni, mentre la federazione cestistica cinese (CBA), governata – almeno nominalmente – dal grande Yao Ming, ironicamente uno dei più grandi giocatori della storia degli stessi Rockets, ha sospeso qualsiasi tipo di rapporto con la franchigia di Houston, fino all’altro ieri (e grazie proprio a Yao) di gran lunga la più amata e seguita dai cinesi.

 

Una posizione netta e severa presa nelle stesse ore sia dal quotidiano di regime, il People’s Daily, sia da tutti gli sponsor cinesi legati in qualche modo ai Rockets, dall’azienda di calzature Li Ning alla Shanghai Pudong Development Bank, passando per la Tencent Holdings, la proprietaria dei diritti televisivi NBA che – ha già annunciato – bloccherà la messa in onda delle partite dei texani sulle piattaforme cinesi fino a nuovo ordine.

 

Offendere un quinto della popolazione mondiale con un tweet rimasto online meno di un’ora deve essere stato una sorta di record per Morey che, a dirla tutta, fosse stato un “normale” cittadino degli Stati Uniti sarebbe stato più che legittimato nel condividere pubblicamente la posizione dell’altra frazione di popolo cinese furbescamente mai citata da Tsai: la minoranza di Hong Kong scesa in strada per proteggere i propri sacrosanti diritti di libertà, di certo non come movimento separatista.

 

Chi si è offeso per convenienza

Lasciando stare per un attimo le diatribe tra cinesi di Hong Kong e cinesi della Cina continentale, è facile intuire che una tale mole di persone e di sponsor offesi dal commento di un dirigente di una multinazionale straniera – gli Houston Rockets e di riflesso la NBA – non poteva non avere conseguenze catastrofiche sull’economia dell’azienda stessa.

 

Il primo a correre con grande e ipocrita celerità ai ripari è stato il capo diretto di Daryl Morey, ovvero il nuovo proprietario dei Rockets Tilman Fertitta che ha ribadito semplicemente che le opinioni di Morey non rappresentavano quelle dei Rockets, sottolineando quanto Houston non fosse un’organizzazione politica.

 

Zero sostegno al suo primo dipendente (solo a ESPN ha detto che “va tutto bene tra di noi”), zero difesa della libertà d’espressione ma anzi, una sospetta apertura del tweet “politico” con un “Listen…” che ha ricordato a molti il titolo del suo primo libro – ovviamente un’autobiografia – uscito da poco e dal titolo Shut Up and Listen!. Chissà se, vedendo il grafico dei ricavi scendere precipitosamente nelle ultime ore a causa del tweet di Morey, il buon Fertitta non abbia voluto iniziare a rimediare con del sano cross-media marketing…

Listen….@dmorey does NOT speak for the @HoustonRockets. Our presence in Tokyo is all about the promotion of the @NBA internationally and we are NOT a political organization. @espn https://t.co/yNyQFtwTTi

— Tilman Fertitta (@TilmanJFertitta) October 5, 2019

 

A ruota sono arrivate anche le dichiarazioni ufficiali di James Harden e Russell Westbrook, i principali giocatori dei Rockets coinvolti nella tournée asiatica in Giappone: nulla di sorprendente, piuttosto delle scuse “ai tifosi cinesi che tanto ci amano” di cui forse nemmeno loro conoscevano il reale significato, spiattellate come da tradizione davanti ai giornalisti nella speranza – vana – della franchigia e della NBA di recuperare rapidamente i consensi pensi così bruscamente.

 

Proprio la NBA, la più progressista tra le leghe pro americane, è stata la protagonista di questo pasticcio internazionale che più ha deluso le aspettative, considerata la recente storia – dall’affaire Donald Sterling in poi – di azioni e prese di posizione ufficiali anche coraggiose per difendere la libertà d’espressione e le minoranze sociali oppresse dai poteri forti, come ad esempio togliere per un anno l’All-Star Game a Charlotte per una legge discriminatoria approvata dallo stato del North Carolina.

 

I comunicati ufficiali della Lega (fin troppo misurati) usciti dopo l’accaduto sono stati criticati da molti politici statunitensi di entrambi gli schieramenti, tra cui il democratico Beto O’Rourke e il repubblicano Ted Cruz, mentre il commissioner Adam Silver, in questi giorni a Tokyo con i Rockets, non ha espresso alcun commento in merito al contenuto del famigerato tweet di Morey, affermando solo a dentri stretti di supportare “la sua libertà di espressione”. In definitiva e come sempre, il proverbio latino “pecunia non olet” spiega più di tante altre parole il comportamento umano.

NBA spokesman Mike Bass releases statement from league on Rockets GM Daryl Morey’s situation. pic.twitter.com/GQyi1k7Qk4

— Shams Charania (@ShamsCharania) October 7, 2019

 

Conseguenze del Morey Gate

Un bel casino insomma, ma se un po’ conosciamo i nostri polli diremmo che il peggio potrebbe già essere passato e, in un mondo che ragiona a velocità supersoniche, tra una settimana e dopo qualche ulteriore conferenza stampa riparatrice i danni saranno grossomodo arginati. Anche se, avendo ancora nelle orecchie i fischi a Andrew Bogut durante tutti i Mondiali per un singolo tweet contro il nuotatore cinese Sun Yang, non c’è da metterci la mano sul fuoco.

 

Daryl Morey, per dichiarazione dello stesso proprietario, non rischia – come paventato da alcuni – il suo posto di lavoro, ma sicuramente da oggi ci penserà due volte prima di scrivere un altro tweet di qualsiasi entità (anche se questo, a quanto pare, era in sostegno a suoi amici di Hong Kong). Nel frattempo i suoi Rockets proveranno a vincere a Saitama e Tokyo contro i campioni in carica di Toronto nelle prossime tre partite, rodando la nuova favolosa coppia di guardie Harden-Westbrook e lasciandosi alle spalle questo spiacevole incidente diplomatico che ha fatto perdere un sacco di sonno e qualche milione di dollari un po’ a tutti.

 

La NBA – stimando il valore del mercato cinese di circa 4,4 miliardi più importante di qualsiasi coerenza morale, anche quella della libertà di espressione – ha i prossimi giorni per preparare i testi più politicamente adatti a compiacere il pubblico e il governo cinese, con la conferenza stampa di Silver prevista a Shanghai mercoledì 9 ottobre in vista della partita tra i Lakers di LeBron James e Anthony Davis e i Nets di Tsai (che sembra attivamente coinvolto nella parte di pacificatore).

 

Venerdì 10 ottobre la NBA traghetterà invece le due squadre e le scuse di Adam Silver a Shenzhen, giovane città della regione di Guangdong a soli 15 chilometri dal confine con Hong Kong e da sempre terra controversa per la sua posizione particolare: molti cinesi di Shenzhen lavorano nella ricca metropoli orientale ora ancora bloccata dalle proteste, ma vivono nella Cina continentale dove tutto costa molto meno. Con il solo difetto di essere controllati a vista dalle tecnologie di riconoscimento facciale per cui a Hong Kong stanno combattendo da mesi e che Morey, seppur per poco, ha sostenuto.

 

Con Twitter e Facebook bloccati in Cina non l’avrebbero mai saputo, ma qualcuno (del governo cinese?) su Twitter ha fatto uno screenshot ri-postandolo su Sina Weibo, il Twitter cinese. E così magicamente si son messi tutti a cinguettare contro i Rockets e la NBA. Che da parte sua ha dimostrato di avere due pesi e due misure: paladina della giustizia in patria, cinica calcolatrice sul (ricco) fronte orientale. 

 

O almeno quando le perdite economiche superano i guadagni dell’impatto sociale.

 

 

 

 

Tags : adam silvercinadaryl moreyhouston rockets

Michele Pettene è veronese di nascita, iversoniano d'adozione e scrive ovunque ci sia spazio per almeno 20k battute. Dopo il suo primo libro nel 2015 "La Morte è certa, la Vita no - La storia di Klaudio Ndoja", nel 2019 ha pubblicato con l'editore Rizzoli il suo secondo libro "Basketball Journey - Viaggio on the road tra luoghi e leggende del basket USA"

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