Quella che porta alle finali NBA è raramente una strada dritta, senza deviazioni, ostacoli e imprevisti che occorre superare per giungere alla destinazione. Di certo non lo è stata per i Boston Celtics, che forti di una seconda parte di stagione eccellente partivano con buone possibilità di successo, ma che in questi playoff hanno dovuto affrontare tre serie molto diverse tra loro. La squadra allenata da Ime Udoka ha saputo prendere le misure a ogni avversario, sfruttandone i punti deboli e lavorando sui propri difetti di volta in volta emersi.
Durante le 18 partite che li hanno portati alla sfida per il titolo per la prima volta dal 2010, Jayson Tatum e compagni hanno consolidato certezze e imparato a reagire quando l’andamento delle singole partite o delle serie li ha messi con le spalle al muro. L’approdo alle Finals, per un gruppo che negli ultimi anni era arrivato molto vicino al traguardo senza mai riuscire a tagliarlo perdendo in finale di Conference nel 2017, 2018 e 2020, è la conseguenza di un progetto che arriva da molto lontano.
Mettere alla prova
Partiamo però dalla fine, ovvero dalla battaglia con gli Heat che, al netto dell’epilogo al cardiopalma di gara-7, è difficile definire avvincente nel suo complesso.
In compenso negli ultimi 2:41 di gara-7 è successo un po' di tutto.
Una delle leggi immutabili della NBA prevede che nessuna squadra arrivi ai playoff, a maggior ragione nella loro fase più avanzata, senza soffrire almeno un po' a causa di infortuni e acciacchi. All’interno del dibattito che ha come coordinate il numero eccessivo di partite giocate da una parte e i tentativi - più o meno palesi e più o meno riusciti - di gestire gli sforzi dall’altro, l’unico dato certo è che assenze o presenze con forti limitazioni in campo rappresentano un fattore quanto mai determinante e quasi del tutto imprevedibile. È il caso delle sfide precedenti con Brooklyn e ancor più con Milwaukee, sui cui si stende l’ombra lunga del grande assente Khris Middleton, ma è soprattutto il caso di queste finali della Eastern Conference, vinte con pieno merito dai Celtics eppure fortemente segnate dai problemi che hanno limitato o escluso dalla competizione alcuni protagonisti chiave come Lowry, Herro, Tucker e Butler da una parte e quindi Smart, Robert Williams e Horford dall’altra.
A soffrire è stato lo spettacolo complessivo, non tanto inteso come qualità del gioco in sé quanto come equilibrio competitivo all’interno della singola serie. Per ben tre volte, in gara-3, 4 e 7, la squadra che ha avuto il primo vantaggio della partita l’ha portato fino in fondo, spesso gestendolo con tranquillità. Miami è rimasta a galla quando è riuscita ad applicare pressione ai portatori di palla di Boston (18.6 palle perse di media nelle tre vittorie degli Heat), ma nel momento in cui i ragazzi di Udoka sono riusciti a farla circolare meglio, ribaltando il lato all’interno del possesso e affidandosi meno alla penetrazione dal palleggio oppure spingendo in contropiede, la tenuta difensiva degli Heat si è sgretolata.
Come hanno ammesso gli stessi protagonisti in casa Celtics dopo la partita, questa squadra ha una capacità speciale di rendersi la vita difficile, tenendo aperta una serie – anche per gli enormi meriti degli Heat, mai domi al di là dei problemi fisici – ben più rispetto a quello che il campo aveva detto in termini di rapporti di forza tra le due squadre. Ed è andata vicinissima a sprecare tutto quanto, con la tripla di Jimmy Butler a 17 secondi dalla fine che si è infranta sul ferro dopo un parziale di 11-0 dei padroni di casa per riaprire una partita che era chiusa.
Non sono passate neanche otto ore da questo tiro ed è già un Instant Classic.
Un sogno partito a Natale
Nella serie con Miami, così come in quella precedente e ugualmente complicata contro i Bucks campioni in carica e in quella che hanno fatto sembrare più semplice del previsto contro i Nets, Tatum e compagni hanno avuto modo di mettere alla prova un’identità di squadra costruita nel corso degli anni ma che ha vissuto un enorme - e per certi versi inaspettato - balzo evolutivo alla fine del 2021.
Può sembrare strano e forse è irrilevante ricordarlo ora che giugno incombe e Boston si appresta a giocarsi le sue prime Finals dai tempi dei Big Three, ma l’ultimo Natale non era stato un granché per i tifosi dei Celtics. La sconfitta contro i Bucks del 25 dicembre e soprattutto quelle successive contro versioni alquanto malandate di squadre non proprio irresistibili come T’Wolves e Clippers chiudevano una prima parte di stagione iniziata tutt’altro che in discesa. È difficile ricostruire esattamente cosa sia successo nel passaggio tra il 2021 e il 2022, e forse non ha nemmeno molto senso provare a farlo ora, fatto sta che da lì in poi i Celtics hanno cambiato passo in modo sensazionale.
Pur senza grandi variazioni al roster, se si eccettuano le trade che a febbraio hanno portato in Massachusetts Derrick White e riportato al Garden Daniel Theis, Boston è riuscita nell’impresa di mettere in campo la versione migliore di sé. I dubbi che insistevano su alcuni protagonisti, a partire da Smart, e sulla convivenza tra le due stelle designate Tatum e Brown sono stati spazzati via da una seconda metà di regular season ai limiti della perfezione. Da gennaio i Celtics hanno avuto per distacco il miglior net rating della lega (+12.7, inseguiti dai Suns con un +8.1) e, partendo da un record di 17 vinte e 19 perse, hanno invertito la tendenza finendo per vincere 34 delle 46 partite rimanenti. E se è complicato ricostruire con esattezza come Udoka abbia trovato la chiave di volta della stagione, di certo c’è il fatto che le fortune di Boston sono iniziate nella propria metà campo.
Una difesa d’impatto storico
Inutile girarci intorno: da qualsiasi punto li si osservi, i Boston Celtics 2021-22 sono una delle migliori squadre difensive nella storia della NBA. A prescindere dalle statistiche, su cui incide fortemente l’approccio molto diverso con cui si gioca oggi rispetto a epoche passate, i Celtics hanno dato l’impressione di aver compreso meglio e più di altri il funzionamento dei meccanismi del basket contemporaneo fatto di spaziature, velocità e forte ricorso al tiro da fuori. Un po' come accaduto con i Pistons di metà anni ’80, bravi a calarsi in pieno nel contesto di una pallacanestro molto fisica e dal metro arbitrale oltremodo permissivo, e con gli Spurs tra fine ’90 e prima metà dei 2000, prototipo di squadra perfetta nelle letture a metà campo su possessi statici e spesso macchinosi, questa versione dei Celtics sembra costruita apposta per far inceppare gli ingranaggi degli attacchi NBA. La squadra plasmata da Stevens e Udoka unisce la stazza alla capacità di restare sui cambi, è implacabile nel presidio del pitturato così come nei closeout sui tiratori dietro la linea dei tre punti. In questi playoff i Celtics sono 2° per percentuale dal campo concessa agli avversari (43.3%), percentuale concessa nei tiri da tre (31.7%) e punti di media concessi (101).
Robert Williams III, detto Timelord, 206 centimetri per 106 kg, ha velocità di piedi e mobilità laterale per restare accoppiato con Jimmy Butler anche in una serie in cui la sua presenza o meno in campo è da lancio della monetina prima di ogni match: testa si gioca, croce si sta fuori.
Non è un caso che tutti i componenti del quintetto base di Boston abbiano ricevuto almeno un voto nella corsa al premio di Difensore dell’Anno, cosa del tutto inimmaginabile per qualsiasi altra squadra, e tantomeno che a vincerlo sia stato Marcus Smart, ovvero la prima guardia a riuscirci da Gary Payton nel 1996. Alla combinazione pressoché unica di struttura di squadra e caratteristiche individuali, in buona parte già presente nel corso delle stagioni precedenti, era forse mancata quella continuità e capacità di concentrazione che rappresenta il vero valore aggiunto portato da Udoka . Ogni canestro segnato contro questi Celtics è un canestro che costa fatica, tanta fatica e, nella maggior parte dei casi è frutto del talento dell’avversario. E proprio l’eccezionale tenuta difensiva è stata l’arma con cui fin qui Boston ha saputo compensare qualche errore di troppo in attacco. Se la solidità nella propria metà campo è una certezza ormai acquisita, a orientare le fortune dei Celtics potrebbe quindi essere la fluidità della manovra offensiva, con Tatum e Brown chiamati a creare in proprio e per i compagni e il supporting cast a dare il proprio contributo. Perché anche la miglior difesa nella storia recente della NBA potrebbe non essere sufficiente per mettersi al dito l’anello di campioni.
L’ultimo ostacolo
Solo il tempo ci dirà se questi Celtics hanno decifrato il codice della pallacanestro NBA del 2022 e se la difesa biancoverde è davvero il glitch in grado di mandare in tilt ogni avversario. Ora si troveranno di fronte all’attacco più imprevedibile di tutti, quello che gravita attorno alle caratteristiche uniche di Curry e Green, in un’ultima, decisiva controprova. Fin qui la banda diretta da un sontuoso Al Horford – che alla soglia dei 36 anni, dopo 15 stagioni e 141 partite di playoff raggiunge le prime Finals in carriera – ha saputo gestire avversari dal forte ricorso agli isolamenti come Brooklyn, che preferivano l’attacco in transizione come Milwaukee o a metà campo come Miami, trovando sempre le giuste contromisure.
Il Venerabile Maestro Al Horford, dopo essersi preso cura di Durant e Antetokounmpo, esegue anche contro gli Heat
Sulla strada del Larry O’Brien Trophy rimane l’ultimo ostacolo, senza dubbio quello più difficile da superare, ma in questi playoff i ragazzi di Udoka hanno dimostrato capacità di adattamento e di reazione ai passaggi a vuoto davvero da grande squadra. Talento, organizzazione, voglia e concentrazione: per arrivare là dove non arrivano dal 2008, ai Celtics servirà tutto e forse anche qualcosa in più.