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Come il Napoli ha blindato la difesa
09 nov 2021
09 nov 2021
I piccoli aggiustamenti rispetto allo scorso anno hanno creato un sistema inscalfibile, per ora.
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In un pezzo recente ho confutato alcune presunte verità assiomatiche del calcio. Solo su una non ho potuto calare la scure analitica delle statistiche, cioè sul fatto che, in Italia, le difese vincono i campionati. Negli ultimi dieci anni, per nove volte la squadra che ha incassato meno gol ha anche conquistato lo scudetto.

Più impressionante della serie di punti messa insieme dal Napoli in questo inizio di campionato — in fondo anche il Milan ha pareggiato l’impresa — c’è l’incredibile ruolino difensivo tenuto dalla squadra di Luciano Spalletti. Il Napoli ha subito finora quattro reti in dodici partite, tante quante ne ha subite il Chelsea, l’unica squadra in Europa con una media migliore del Napoli perché ha giocato una partita in meno. I numeri difensivi del Napoli sono assurdi, soprattutto quando li confrontiamo con quelli della passata stagione. Il Napoli ha una media di reti subite per partita di 0,33, l’anno scorso era quasi quattro volte superiore. Per Expected Goals concessi in ogni situazione di gioco, e per la pericolosità media di ogni tiro scagliato verso la propria porta, il Napoli è di gran lunga la miglior squadra del campionato, stracciando i numeri registrati nella scorsa stagione.

Quando ha la palla

La fase difensiva del Napoli comincia dalla fase di possesso. Già in estate mi aveva molto incuriosito la posizione assunta da Mario Rui quando il Napoli attacca: il terzino portoghese è praticamente un mediano aggiunto, e questo ha sicuramente degli effetti nella circolazione della palla e nella pericolosità offensiva (Insigne si allarga, attira il terzino avversario, crea un buco nella difesa avversaria).

La posizione di Mario Rui garantisce anche una certa copertura difensiva in caso di perdita di possesso. Previene, per così dire, gli effetti di un attacco posizionale portato con molti uomini. Se il pallone è perduto, come nel caso dell’immagine sopra in cui Osimhen è anticipato, Rui scappa all’indietro trovandosi già nella “luce” della porta. La superiorità numerica contro gli attaccanti sull’ultima linea è ristabilita, costringendo così gli avversari in zone laterali, meno pericolose. Curioso sia diventato così tatticamente influente un giocatore di cui si cercava un rimpiazzo in estate, e che con Spalletti aveva avuto un rapporto controverso alcuni anni fa, ai tempi dell'esperienza a Roma.

Il Napoli è cambiato anche nel tentativo attivo di recupero della palla. Lo scorso anno, il Napoli contropressava tanto e pressava poco, ovvero cercava di recuperare il pallone subito, nella zona di campo e negli istanti successivi alla perdita del possesso. La maggiore preoccupazione di Gattuso era di non offrire il fianco di uno schieramento sbilanciato in avanti, disposto per la fase di attacco, all’avversario pronto a ripartire. In tutte le altre situazioni, il Napoli preferiva controllare gli spazi nel modo più semplice: compattando le linee e abbassandosi a protezione della propria area di rigore.

Fin qui, le cause. Gli effetti di questa strategia erano registrati nei numeri. Il Napoli aveva stranamente — stranamente fino a un certo punto, per quanto detto poco fa — un alto valore nel PPDA (i passaggi concessi agli avversari in costruzione) e un buon numero di palloni recuperati nella metà campo avversaria. Cioè una scarsa insistenza nel pressing ma una buona efficacia.

Quest’anno Spalletti ha ricalibrato le idee della squadra in fatto di pressing. Il Napoli sta più alto sul campo e porta più pressione agli avversari: l’altezza media degli interventi difensivi è salita da 34,8 metri a 35,5 metri; il PPDA è passato da un valore di 19,2 (sedicesima prestazione della scorsa Serie A) a uno di 15,2 (sesti in campionato).

La riaggressione è uno dei casi in cui le vecchie conoscenze restano nel bagaglio esperienziale dei calciatori: Elmas non controlla un brutto pallone di Lozano nei pressi dell’area di rigore; Svanberg, immediatamente circondato, perde il pallone a sua volta. L’errore porterà al gol di Fabian Ruiz.

Il pressing che organizza il Napoli, però, è più individuale che collettivo, più reattivo che attivo. Il pressing è azionato da un solo trigger di facile lettura: il passaggio laterale tra il centrale avversario e il terzino. È il frangente in cui l’ala (Politano o Insigne nell'undici di base) scatta per aggredire chi sta per ricevere la palla. Alle spalle di chi porta la pressione, gli altri giocatori orientano le loro attenzioni nei confronti di un avversario, per impedire a chi si offre per una ricezione di girarsi agevolmente e attaccare la porta. Non c’è una marcatura aggressiva degli appoggi; né il nove degli azzurri orienta la pressione da un lato o da un altro con continuità. Cioè il Napoli non vuole riconquistare la palla, vuole solo rendere “sporca” la costruzione di gioco degli avversari. Costringerli al lancio, recuperare palla vicino alla propria area di rigore e imbastire una nuova azione d’attacco con calma. Per questo motivo, nonostante il miglioramento nel PPDA che segnala la presenza di più pressing, il Napoli riconquista meno palloni di prima: ora è su una media di 13,2 recuperi nella metà campo avversaria (-10% rispetto alla scorsa stagione).

Sui calci piazzati

La strategia sulle palle inattive non è cambiata granché rispetto alla precedente gestione. È la situazione di gioco difensiva dove il miglioramento statistico rispetto alla scorsa stagione è stato meno evidente, pur essendo stato registrato. Sui calci piazzati, il Napoli tiene tutti gli uomini non impiegati in barriera su un’ipotetica linea. L’idea è quella di alzare la linea del fuorigioco e di tenere così gli attaccanti avversari lontano dal proprio portiere. È un atteggiamento “classico”, che non segue l’esperimento lanciato da Stefano Pioli quand’era ancora l’allenatore della Fiorentina, ovvero di organizzare un blocco basso in area di rigore, disposto a zona come sui calci d’angolo.

A proposito dei calci d’angolo, c’è un marginale ma non banale cambio nella disposizione imposta da Spalletti. Il Napoli si sistema ancora a zona, con un castello formato da sette uomini piazzati su due linee. A seconda degli avversari, però, può decidere di tenere altri due uomini a zona, esattamente come faceva l’anno scorso, su una terza linea, a ridosso del dischetto dell’area di rigore; oppure può scegliere di tenere questi due uomini in marcatura a uomo sugli avversari ritenuti più pericolosi. Ad esempio, contro la Roma, sui calci d’angolo Fabian Ruiz ha marcato Gianluca Mancini, cinque gol nella scorsa stagione. In generale l’atteggiamento dei giocatori del Napoli sui calci piazzati è più attivo: più aggressivi sulla palla; più alti sul campo.

Difesa posizionale

Se gli avversari saltano il primo pressing, il Napoli preferisce ancora tenere una linea difensiva piuttosto bassa, anche questo è un aspetto che dall’anno scorso non è cambiato. Sono lontani i tempi delle esercitazioni di Sarri con il drone al giovedì e dei piedi dei difensori che pestavano sulla linea di centrocampo più spesso che su quella dell’area di rigore. I difensori, guardinghi, restano distanti dai centrocampisti anche quando questi si alzano a pressare gli avversari. Infatti non è difficile poi bucare il Napoli tra le linee, dove di spazio ce n’è sempre tanto, quando il pressing non è portato con l’intensità giusta. La priorità però è non concedere la profondità agli avversari.

Il Napoli quindi difende con un 4-4-2, dove le linee sono strette e basse, sistemate a cavallo della linea dell’area di rigore. È una zona “sporca” quella preferita da Spalletti, nel senso che ciascun giocatore si aggancia all’uomo che transita all’interno della zona che pattuglia. Per reazione alla testuggine azzurra, gli attaccanti avversari o tentano il tiro da fuori o provano a circumnavigare la difesa passando dalle fasce. Entrambe le soluzioni sono graditi al Napoli, perché portano gli avversari a costruire azioni meno pericolose di altre.

La forma stretta della difesa azzurra costringe alle volte gli esterni d’attacco agli straordinari. Soprattutto dal lato debole, quando un avversario prova ad avvantaggiarsi nei confronti del terzino, la cui attenzione è rivolta al pallone e agli uomini in area, è l’attaccante che deve seguire l’uomo fino all’ultima linea, allungando la difesa a cinque. Nell’immagine, Politano segue Casale, che provava ad approfittare della posizione stretta e vicina ai centrali di Di Lorenzo.

Insomma rispetto al vecchio Napoli le differenze sono sfumate, ma ci sono. Vale anche per l’interpretazione dei singoli e la loro chimica. È migliore l’intesa tra Koulibaly e Rrahmani, rispetto a quella che c’era l’anno scorso tra Koulibaly e Manolas. L’istinto difensivo di Koulibaly lo porta spesso fuori dalla linea difensiva, che sia per la ricerca dell’anticipo o solo per il controllo dell’uomo in una posizione ritenuta pericolosa. È Rrahmani l’uomo deputato a rimettere in fila la difesa, un po’ come capitava a Raul Albiol. Rrahmani copre le spalle al compagno, allarga le braccia per chiedere ai terzini di stringersi a lui, di chiudere il buco lasciato aperto da Koulibaly. Manolas, oltre a condividere una parte dell’istinto per l’anticipo di Koulibaly, non aveva questa attenzione collettiva, per la difesa di reparto.

Spalletti, da un certo punto di vista, sembra preferire una squadra che si adatta agli avversari e ne mortifica i punti di forza. Lo fa attraverso piccole variazioni sul tema nella strategia globale, ma anche servendosi dell’interpretazione che gli uomini danno ai propri compiti, assecondando le proprie caratteristiche. Al contrario della meccanizzazione, l’interpretazione richiede un impegno psico-fisico non banale, una capacità notevole di reagire alle difficoltà poste dagli avversari, una presenza costante all’interno della partita. Finché tutti questi elementi continueranno a convivere nella fase difensiva del Napoli, sarà difficile far male agli azzurri.

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