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Fabrizio Gilardi
I mostri di Houston sono diventati due
22 dic 2017
22 dic 2017
L'arrivo di Chris Paul ha raddoppiato la pericolosità dei Rockets.
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Fabrizio Gilardi
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Mettendo per un attimo da parte i Golden State Warriors — la cui ombra minacciosa aleggia su ogni considerazione, valutazione, ragionamento e ipotesi si possa esprimere riguardo a ciò che succede sui parquet americani —, fino a stanotte la squadra più calda della lega erano i Chicago Bulls, che erano imbattuti dall’esordio di Nikola Mirotic in stagione e che proprio dal “one-two punch” formato da Mirotic e Bobby Portis hanno trovato la massima conferma del proprio stato di forma. Nella dozzina di minuti a partita che i due condividono, i Bulls producono poco meno di 120 punti per 100 possessi e ne subiscono meno di 100, lo stesso rendimento fornito dalle combinazioni Kyle Lowry- O.G. Anunoby e DeMar DeRozan-Anunoby (occhi aperti sui Raptors e spalancati sull’esterno inglese), vale a dire le coppie leader in stagione per Net Rating.


 

Due giocatori che si esprimono al meglio nello stesso ruolo, che non potrebbero essere più differenti per estrazione sociale, formazione e carattere e che fuori dal campo non solo non si parlano, ma non hanno nemmeno risolto del tutto gli attriti che hanno portato alla scazzottata di ottobre (a senso unico, con Mirotic nella parte del sacco). Eppure, con addosso la canotta da gara vanno d’accordo e remano in un’unica direzione, almeno per ora.


 

Davanti a un esempio del genere sotto gli occhi di tutti, aveva senso essere preoccupati per il rapporto tra Chris Paul e James Harden quando hanno deciso di unire le forze in estate? Almeno in parte sì, eccome. Innazitutto per il differente approccio al basket e alla vita — passivo e più leggero per “The Beard”, isterico (chiedere agli arbitri) e “in your face” per “CP3”. Ma anche per l’apparente incompatibilità tra due giocatori che hanno vissuto la stragrande maggioranza della loro carriera con il pallone in mano — da portatori di palla principali, o “1”, o playmaker che dir si voglia — e che quindi in sostanza giocano lo stesso ruolo. Infine per l’attitudine da maschio alfa di Chris Paul alle prese con il trasferimento in una franchigia per cui Harden rappresenta l’Alfa e l’Omega.


 

Per quanto visto fino ad ora in questo primo terzo di stagione, però, si può prendere quest’ultimo paragrafo e dargli allegramente fuoco. Con calorosi ringraziamenti al fu Baffo Mike D’Antoni, Premio Nobel per la Chimica (di squadra) e il Pace, che come da sua personale tradizione ha preso le convenzioni e le esperienze passate su un tema — in questo caso quello della coesistenza tra due giocatori che amano avere il pallone in mano — le ha centrifugate, tritate e dai resti ha ricavato un cigno. Uno vero, maestoso, non un origami di carta.


 

Dividere i minuti per raddoppiare l'efficacia


Come gli Warriors, gli Spurs e tutte le grandi squadre del passato dimostrano, è necessario che il rendimento della squadra sia maggiore di quello della somma delle singole parti, che devono interagire e funzionare come un’entità unica, omogenea e fluida, basata sulla fiducia reciproca, la condivisione e tutto il resto. Variano i temi tattici, variano le abilità dei giocatori, ma la necessità di remare tutti assieme nella stessa direzione è la costante più grande. Ma se non fosse l’unico modo? Uno dei temi ricorrenti di questi ultimi anni è quello della necessità di muoversi a zag quando tutti gli altri fanno zig e viceversa, perché è impossibile essere più Warriors degli Warriors. Ci si può avvicinare e non si può prescindere da alcuni capisaldi, ma non si potrà mai essere in grado di replicare ed eguagliare il loro stile di gioco.


 

La versione D’Antoniana dello zag è che se non c’è alcun bisogno di farlo, forzare la coesistenza delle proprie stelle non ha senso: non ha senso obbligare le guardie a bloccare per i compagni di reparto; non ha senso costringerle a passarsi il pallone; non ha senso cercare di incastrare a tutti i costi un mattoncino a base quadrata in un foro tondo, almeno non finché non si sarà riusciti a smussarne in modo rilevante gli angoli. Quindi, in estrema sintesi, non ha senso nemmeno costringere Harden e Paul a stare in campo insieme per troppo tempo.


 



 

Alcuni esempi di gestione del minutaggio delle principali fonti di gioco a confronto con quello di Houston, da NBA Rotations.


 

Nella situazione ideale CP3 parte in quintetto, esce dal campo abbastanza presto, rientra quando tocca ad Harden prendersi una pausa e gioca stint brevi, mai più di 8 minuti per volta. Questo gli permette di essere sempre fresco (anche perché l’età avanza) e ai Rockets di avere sempre in campo un portatore di palla primario tra i primissimi interpreti del ruolo al mondo.


 

Lasciando nuovamente perdere Golden State, che di fenomeni ne ha il doppio degli altri e tende a suddividerli nelle coppie Durant-Curry e Thompson-Green, si può vedere che Toronto e Washington — che abitualmente ai playoff faticano più del dovuto, forse non a caso — scelgono la strada diametralmente opposta: le due stelle stanno insieme sempre e comunque e quando si riposano si cerca di sopravvivere al prevedibile ed inesorabile parziale avversario. Sta facendo altrettanto anche Brad Stevens a Boston, forse per migliorare l’intesa tra Horford e Irving — che però sono giocatori estremamente complementari e abbastanza facili da far coesistere, premesso che con Horford al fianco farebbe bella figura anche gente infinitamente meno talentuosa ed efficace di Kyrie.


 

A Cleveland si segue uno schema abbastanza classico: l’alternativa al principale creatore di gioco è il sesto uomo, vale a dire Dwyane Wade, il cui impiego in uscita dalla panchina consente a LeBron le canoniche pause a cavallo dei quarti; l’unico esempio realmente paragonabile a quello dei Rockets proviene da Portland e non è affatto da escludere che D’Antoni abbia preso spunto da coach Stotts, che si trova a gestire due guardie che partono entrambe in quintetto, con tendenze ed abilità simili, che offrono il miglior rendimento con la palla in mano e che meritano i rispettivi spazi.


 

Avere sempre in campo un playmaker del livello di Harden e Paul significa che quando Houston incontra le Washington e Toronto del caso, a guidare il prevedibile e inesorabile parziale di cui sopra contro la second unit avversaria non c’è un generico buon attaccante, ma un All-NBA, nella maggior parte dei casi CP3. Non si tratta di un piacevole effetto collaterale, ma di un obiettivo ben preciso studiato e cercato a tavolino, probabilmente una delle ragioni principali dietro questo tipo di gestione stagger.


 


 

Chris Paul e le second unit, una storia di abusi e violenze: 8 punti in 100 secondi contro Jalen Jones dei Pelicans.


 

I numeri sono assolutamente incredibili: nei 10 minuti a partita su 30 totali in cui il numero 3 è in campo senza Harden, i Rockets sono dominanti con qualsiasi quintetto (la peggior coppia è Paul-Anderson con +20) e hanno un Net Rating complessivo di +30, che in altre parole significa un parziale a favore di 7 punti garantito: Per quel che può valere, proiettando le sue cifre individuali sui 36 minuti si ottengono 28 punti, 7 rimbalzi, 15 assist e il 64% di eFG%, grazie al 43% su 11 triple tentate: prestazioni da MVP a mani basse.


 

La camera delle torture di James e Chris


Se si sopravvive alla mareggiata e si riesce in qualche modo a contenere il parziale, bisogna fare i conti con gli altri 36 minuti, quelli in cui scende in campo l’MVP per davvero — LeBron James permettendo. James Harden possiede l’incredibile e rarissima capacità di generare attacco e buoni tiri partendo da fermo in punta, a volte senza nemmeno l’aiuto di un pick and roll perché non ce n’è bisogno. Anzi, spesso porta solamente un difensore a centro area: Harden in isolamento produce 1.28 punti per possesso con il 60% di eFG% su quasi 9 possessi a partita, infinitamente più di chiunque altro (James è secondo con 6 e unico altro oltre quota 5) e con gli stessi risultati ottenuti da Marco Belinelli (uno dei leader nella specialità in questa stagione) al tiro piazzato. Fantascienza pura.


 

L’incredulità aumenta quando si scopre che il secondo giocatore più efficace in isolamento è proprio Chris Paul con 1.27 punti per possesso, in pratica lo stesso rendimento garantito da Harden, come se i due fossero assolutamente intercambiabili alla guida di un attacco che è devastante in transizione, ma eccellente anche a metà campo (il terzo dopo Warriors e Cavs secondo i dati di Cleaning the Glass) e che mette sotto pressione le difese dal primo all’ultimo secondo. O quasi, perché spesso le partite dei Rockets si concludono ben prima degli ultimi possessi, in onore al credo del GM Daryl Morey: le grandi squadre non vincono le partite che finiscono punto a punto, ma evitano di trovarsi punto a punto.


 

La ricetta è la stessa dello scorso anno: aprire il campo a dismisura, obbligando gli avversari a rispettare ogni tiratore e a lasciare un povero sventurato in marcatura individuale contro uno dei due mostri, spesso senza nemmeno un aiuto a centro area.


 


 

 

Il quarto quarto contro Portland: nella maggior parte dei casi non serve nemmeno un blocco, basta allargare gli spazi.


 

Una convivenza ancora da sistemare


Al di là del fatto che era palesemente il giocatore più forte disponibile sul mercato per la situazione dei Rockets, lo scambio che ha portato CP3 in Texas si sta rivelando perfetto per colmare alcune delle lacune della squadra e del nuovo compagno, su tutte l’assenza di soluzioni alternative alle invenzioni individuali di un singolo (dato che ora i singoli sono due), la pesante tendenza a perdere palla (culminata nella scorsa stagione con il maggior numero di turnovers di sempre e immediatamente riportata nei limiti della soglia di guardia) e, in caso di necessità, la possibilità di prendersi dei “cotton shot” dalla media distanza per non ricadere nel tranello teso dagli Spurs negli scorsi playoff.


 

Nonostante gli eccellenti risultati, la collaborazione tra i due è ancora a livello embrionale. Nessuno fa qualcosa di attivamente positivo o utile per il compagno, che si tratti di un blocco, un assist o anche solo un passaggio: il pallone passa dalle mani di Paul a quelle di Harden 7 volte a partita e compie il tragitto inverso 6 volte, praticamente nulla, dati che non hanno eguali tra le coppie di stelle se si escludono Davis e Cousins, più che giustificati per evidenti ragioni di ruolo. Ad oggi per far funzionare il rapporto basta il solo pensiero che, concentrando la difesa su uno dei due, si possa lasciare campo aperto all’altro, in una dinamica di mio turno-tuo turno che sulla carta è quanto di più deleterio e sconsigliato si possa incontrare in situazioni del genere, ma che in mano a Re Mida D’Antoni sembra quasi un’intuizione geniale. Alla fine, altro non è che la ricerca spasmodica di un mismatch: che la palla vada in mano a chi si trova di fronte il difensore peggiore e con l’area aperta, il resto verrà da sé.


 

Ovviamente “CP3” ha aiutato a dare ulteriore spessore ai pregi già esistenti: ormai quasi la metà (47%) dei tiri presi da Houston sono triple, con i migliori specialisti che si concentrano nelle soluzioni frontali (Gordon e Anderson anche da 8 metri e oltre), mentre gli angoli sono terreno di conquista dei 3&D della squadra Ariza, Tucker e Mbah-a-Moute — tiratori nella media, ma che piedi per terra sono in grado di segnare quanto basta per tenere occupati i rispettivi marcatori. Ne esce un rendimento al tiro da fuori non eccezionale, ma buono abbastanza da sbloccare tutto l’incredibile potenziale offensivo della squadra.


 


 

 

 

I Rockets al loro meglio: CP3 illumina, Gordon segna qualsiasi cosa gli capiti per le mani, Ariza si adegua.


 

Le prossime frontiere: difesa e Death Lineup


Oltre alla sfida della convivenza tra i due fenomeni D’Antoni ha già stravinto anche quella della difesa, affidata totalmente alle mani di Jeff Bdzelik in versione coordinatore-specialista stile NFL e attualmente alle porte della top 5 in NBA. L’eccellenza assoluta, risultato francamente inimmaginabile a inizio stagione pur considerando la forma fisica scintillante di Anderson e gli acquisti estivi di due super specialisti come Tucker e Mbah-a-Moute (ora infortunato, contro i Lakers la sua assenza si è notata e Kyle Kuzma ha ringraziato), oltre ai progressi di Capela e alla consistenza di Ariza. Anche in questo caso probabilmente c’è lo zampino di Chris Paul, il leader vocale e regista di cui ogni gruppo ha bisogno per mediare tra gli istinti e gli schemi e la razionalità.


 

La campagna di Morey e dei Rockets alla caccia degli Warriors è un gioco di ruolo con missioni da completare, come ad esempio aggiungere talento e profondità al roster, e nuove abilità da sbloccare, come appunto la difesa e la capacità di segnare a difesa schierata, nota dolente della scorsa esperienza ai playoff. Per arrivare allo scontro finale con possibilità di successo occorre presentarsi con la salute al massimo (al completo non hanno ancora perso una partita), far crescere le abilità sociali dei personaggi per migliorarne l’interazione e soprattutto trovare le armi e la strategia giuste: in queste settimane si sono intraviste anche idee di Death Lineup, con Tucker nella parte di Draymond Green e Ariza in quella di Durant. Ulteriori opzioni sicuramente da approfondire e testare e motivo d’interesse ulteriore per continuare a seguire l’avventura.


 

 

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