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Le MMA, la violenza e il limite
08 set 2020
08 set 2020
Se ne parla sempre per le ragioni sbagliate.
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Si parla di MMA perché alcuni dei presunti assassini di Willy Monteiro Duarte, la praticavano. Sulle homepage dei quotidiani e dei siti di news vengono mostrati in posa in palestra, oppure mentre si allenano. Tra le interviste a persone che dichiarano che tutti sapevano che erano delle “belve”, spuntano articoli “ecco cos’è l’MMA, lo sport dei fratelli arrestati per l’omicidio”.

Per qualcuno, come il direttore de La StampaMassimo Giannini, non solo è evidente il nesso tra la violenza codificata di uno sport da contatto e quella di un pestaggio cinque contro uno - l’una la causa, l’altra l’effetto - ma anche la necessità che vengano “bandite certe discipline” e chiuse le “relative palestre”.

Nel frattempo, il mondo delle MMA italiane - gli organizzatori di eventi, gli atleti italiani più in vista, i praticanti, i semplici appassionati, Emis Killa – ha reagito prendendo le distanze dall’omicidio di Monteiro Duarte e ribadendo che le arti marziali insegnano anzitutto il rispetto e la disciplina mentale. Certo non gli fa piacere che della loro passione, di cui si parla di solito pochissimo, sia tratatta in questo modo strumentale, ma chi starebbe zitto se venisse associato a degli assassini?

Prima o poi dovremo riflettere su quanto poco sia etico “informare” sullo stile di vita degli assassini, scavando macabramente nelle loro bacheche, quanto poco rispettoso del dolore delle vittime sia scrivere articoli scritti in questo modo: «Scrollando a ritroso la bacheca, il 17 marzo si fa immortalare assieme a un amico, entrambi iper tatuati, alla serata “Rococò” allo Smaila’s Campoverde di Aprilia, risto-theatre con discoteca e cabaret». A un certo punto ci dovremo chiedere se questo tipo di analisi “in superficie”, questa specie di pornografia sui corpi dei criminali, il catalogo dei loro usi e costumi, non celi un’attrazione per la violenza più profonda di quella di chi pratichi sport da combattimento.

Ci sono tanti aspetti su cui un caso del genere, che tocca così nel profondo tutti, dovrebbe stimolare riflessioni che vadano oltre, che mettano in questione la nostra cultura e le politiche culturali del nostro Paese, ma oggi abbiamo deciso di riflettere sulle MMA.

D’accordo. Almeno però lo si potrebbe fare sul serio. Intervistando gli atleti italiani più in vista, i promoter che organizzano eventi qui in Italia. Andando fuori dalle palestre, magari, parlando con i ragazzi che ci entrano attratti… attratti da cosa? Provate a chiederglielo, se avete il dubbio che dentro di sé ogni praticante covi la possibilità di un crimine così odioso.

Mi rendo conto che sto ribadendo l’ovvio. In fondo il discorso è sempre lo stesso, per creare il mostro bisogna usare qualcosa di lontano da “noi”, di diverso, di altro. E dato che chi scrive, il “noi” implicito nel discorso pubblico, non sono mai i giovani, spesso si finisce per usare la loro vita. I due assassini per caso hanno postato stories con Marylin Manson in sottofondo? Ascoltavano g-rap, la trap magari? In camera avevano poster di film horror? Vanno bene anche quelli di Kubrick o Tarantino. Al limite anche Games of Thrones. Giocavano alla Playstation? Facevano uso di droghe, pesanti o leggere non importa? L’ideale sarebbe se almeno uno di loro avesse un cane di tipo “pit”, un molossoide, sì insomma un cane “cattivo” per natura (altra semplificazione falsa).

Stavolta tocca alle MMA, in cui “sono consentiti pugni, calci, prese di lotta libera”, come scrive il Corriere della Sera, arrivando però alla frettolosa ed errata conclusione che si tratti di uno sport “dove si può tutto”. La trasmissione Le Iene ha pubblicato persino un video di un combattimento di uno dei presunti assassini, evidenziando in grassetto che le MMA si combattono “chiusi in gabbia”, come se non ci fosse differenza tra una rete elastica che impedisce a degli atleti di finire fuori dal ring e quella in cui si tengono, appunto, i cani cattivi.

Prima o poi chi ha vero potere mediatico, chi dirige quotidiani nazionali, ad esempio, dovrebbe interrogarsi se non sia un modo come un altro per liquidare la questione di fondo. Se non sia, cioè, un modo per monetizzare e al tempo stesso sbarazzarsi del dramma privato e sociale, per farlo sparire il prima possibile (e in effetti, tornando al tweet di Giannini, è emblematico che cominci con un saluto alla vittima, come a dire: ok, abbiamo parlato abbastanza di un ragazzo di ventun anni morto, passiamo ad altro, passiamo agli assassini che sono più interessanti). Ma oggi, come detto, si parla di MMA.

Non voglio essere io a spiegare cosa siano davvero le MMA. Non ho mai praticato nessuno sport da combattimento, se si esclude quell’anno di pugilato ai tempi del liceo, e quell'altro in Erasmus in cui avrò fatto i guanti (scambiato cioè qualche colpo in allenamento) in tutto un mezza dozzina di volte, e seguo le MMA da pochi anni. Un po’ le ho studiate, però. Ho lettoalcunilibri, ho vistoalcunidocumentari, ho intervistato alcuni atleti italiani. Certo resta uno sport “estremo”, come mi ha detto Marvin Vettori, il fighter italiano più di successo in questo momento, la prima volta che ci ho parlato. Uno sport “non per tutti”, per lui paragonabile al Downhill (in cui si scende una collina in mountain bike a velocità elevate).

Nessuno, tra quelli che conoscono o praticano le MMA, nega la violenza di questa disciplina – in cui confluiscono altre discipline di per sé violente, alcune con un’ottima reputazione, discipline in cui persone pacifiche iscrivono i propri figli come il karate, o il judo (in cui si insegnano leve che possono spezzare braccia, far uscire gomiti dai legamenti). Le MMA stesse, anzi, sono sia un’espressione della violenza che una riflessione. Sulla violenza, e sul limite della stessa.

La loro storia recente, al contrario di quel che si pensa, è proprio la storia del loro regolamento, della ricerca del limite. La nascita delle MMA moderne si fa combaciare per convenzione con la nascita dell’UFC, nel 1993, non solo perché tutt’ora si tratta della promotion più importante ma anche perché è all’interno dell’UFC che si è sviluppata la “codificazione” della violenza delle MMA. Partendo dai primi eventi, pubblicizzati con lo slogan “There are no rules”, arrivando poi alle “Unified Rules”, il regolamento che (pur con piccole modifiche) da inizio secolo determina i limiti imposti dalle MMA alla violenza.

Ma i limiti nelle MMA sono anche tecnici: combattere mescolando discipline diverse è difficile, ci sono dei livelli. Così come un fighter di novanta chili non si sognerebbe neanche di competere con uno di sessanta, o settanta, nessun appassionato approverebbe il confronto tra un fighter e uno a lui troppo inferiore. Queste sono cose che si imparano il momento stesso in cui ci si approccia alla materia: immagino che possano educare anche chi entra in palestra cercando la violenza e ci trova dentro delle regole, dei limiti.

Ed è difficile anche guardare un incontro di MMA: senza negare la violenza di fondo va detto comunque che chi si mette davanti alla TV in cerca di sangue rischia di rimanere deluso, molto spesso gli incontri sono estremamente tattici, o con lunghe fasi di lotta a terra in cui, senza un minimo di conoscenza, non si capisce granché (chi vuole la violenza oltretutto la può trovare anche in altri sport più o meno machisti, nella mia esperienza di calciatore amatoriale ho visto parecchie risse). È il contrario della violenza indiscriminata di cui si sta parlando in questi giorni.

Il sociologo italiano Alessandro Dal Lago, ha pubblicato un saggio sulla rivista Etnografia che si interroga sul senso delle MMA nella nostra cultura «essenzialmente violenta». Quando l’ho intervistato ha parlato di stilizzazione, del «confronto tra tendenza a sopraffare l’avversario e stilizzazione». La stilizzazione, cioè, significa che «persino in un incontro violento come quello delle MMA l’atleta ha introiettato una serie di comportamenti limitanti».

Sempre secondo Dal Lago, le MMA sono pensabili solo in una cultura in cui «la differenza tra pace e guerra tende ad essere un po’ confusa», dove le metafore militaristiche pervadono aspetti della società inaspettati, dove persino in un negozio per bambini si vendono tutine mimetiche (e, in fondo, non abbiamo parlato di “guerra”, di “nemico invisibile” anche per affrontare una questione come il Covid?). In questo senso le MMA ci mostrano in maniera evidente qualcosa che fa parte della nostra società ma che viene relegata al margine.

Qualcuno è attratto limite, dalla frontiera, magari solo da spettatore, come nel mio caso, qualcun altro ne è respinto. D’altra parte, dovremmo chiederci se sia più civile una società che dà forma e limita la violenza o una che la bandisce, spingendola nell’illegalità senza per questo farla sparire veramente.

Se una riflessione va fatta deve essere complessa, e deve essere portata avanti da chi quello sport lo ama. Alcuni, tra quei pochi che in Italia seguono veramente le MMA, e ci lavorano, o le commentano su siti e blog, hanno detto che al di là della strumentalizzazione di queste ore, il sistema italiano deve interrogarsi su come tenere fuori un certo tipo di persone. E ci sono aspetti problematici su cui anche “dall’interno” non serve a niente chiudere gli occhi, come il legame tra MMA ed estrema destra (un problemainternazionale), e che non si possono affrontare puramente in termini di immagine e marketing, escludendo fighter con tatuaggi espliciti senza però chiedersi quali valori circolano nelle palestre.

Di certo una riflessione seria non la può fare chi farebbe volentieri a meno delle MMA, come dimostra il tweet di Giannini. Quel tweet, semmai, mostra come la sola soluzione proposta a qualsiasi questione problematica sia la negazione, il tentativo di far sparire, almeno a parole (o dallo sguardo, come nel caso della povertà, delle minoranze, dei migranti) la questione stessa. Di fondo c’è l’ipocrisia di quella stessa società che ha legittimato le MMA portandole (anche se poco, e spesso male) nei quotidiani, in TV, in palazzetti con migliaia di persone.

Una società in cui, d’altra parte, la violenza viene fuori in ogni ambito possibile, in TV, nel calcio, sui social network, e che legittima e “normalizza” ogni giorno diverse forme di violenza, in cui chissà quante delle persone che hanno commentato indignate l’omicidio di Monteiro Duarte in altri casi hanno commentato “uno di meno”, oppure hanno giustificato la violenza della polizia, di eserciti iper-professionalizzati, di droni invisibili.

Che società è quella in cui la violenza è raccapricciante e tragica solo quando ci si può immedesimare in chi la subisce, mentre diventa accettabile quando la vittima è diversa, lontana o addirittura invisibile?

La violenza nelle strade, invece, è sempre un fatto politico. Un crimine come quello subito da Monteiro Duarte (mi rifiuto di chiamarlo “Willy”, con il paternalismo mascherato da affetto che usano i quotidiani) dovrebbe tirare in ballo questioni sociali profonde. Se davvero ci ha sconvolto dovremmo parlare dei problemi delle scuole italiane, dell’accesso al lavoro, alla cultura, anche fuori dalle città, in periferia o in zone di mezzo come quella dove il crimine è avvenuto.

La violenza delle MMA è individuale. Se mi sono appassionato alle MMA è per la stessa ragione per cui ci si appassiona ad ogni altro sport, persino a quelli “elettronici”, perché sono un pretesto per guardare degli esseri umani. Alcuni sono generosi e umanissimi, altri dei veri e propri pezzi di merda. Provengono da parti del mondo diverse, con motivazioni opposte. Ci sono fighter con un passato criminale, ma anche quelli che hanno iniziato perché vittime di violenza e oggi sono persone tolleranti e pacifiche.

Certo, bisognerebbe avere voglia di conoscerle, le MMA. Ma un'altra cosa implicita in un messaggio come quello di Giannini è che la nostra società vuole restare ignorante di fronte a quello che rifiuta.

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