Alessandro Dal Lago è un sociologo italiano che nel corso della sua lunga carriera si è occupato di arte contemporanea, cultura ultras, migrazioni e molti altri temi della contemporaneità. Negli ultimi anni si è interessato alle MMA, ne ha scritto in un saggio dal titolo “Della Brutalità” e sta lavorando a un libro in tema.
Nel suo saggio, Il Senso Della Brutalità, (1) lei parla di arti marziali miste come di una rappresentazione del lato “civile, sportivo, commerciale e spettacolare di una cultura essenzialmente violenta, comune a tutto l’occidente, ma di cui gli Stati Uniti sono ovviamente la massima espressione”. Molti invece vedono ancora come una deriva, un’esagerazione, qualcosa di troppo violento ed esterno alla nostra società civile.
Più che di deriva, parlerei di un cambiamento di stile. Nel senso che una cultura fondamentalmente militare come quella contemporanea – soprattutto americana, ma anche europea – in qualche modo promuove, o facilita, questo tipo di sport. Un esempio banale, ho visto che si stanno diffondendo adesso incontri a mani nude a cui partecipano uomini e donne, con tanto di arbitri e campionati, in modo del tutto legittimato (3). Io parlerei di una sorta di approfondimento di stili che hanno a che fare con una cultura della guerra.
Mi sembra che ci sia un paradosso nel fatto che è anche una cultura profondamente medicalizzata a promuovere cose come gli incontri a mani nude, che sono meno dannosi per gli atleti.
Ci sono altri aspetti in cui questa confusione trapela in superficie?
È interessante, perché è come se questo tipo di conflitti moderni (credo intenda quello tra Stati Uniti e forze ribelli in Iraq o Afghanistan, ndr) o quello israelo-palestinese, sono tali che non c’è più una guerra combattuta in uniforme, in modo regolare, ma è un tipo di combattimento a mani nude, faccia a faccia, tra militari e civili, che tende a obliterare le differenze tradizionali tra pace e guerra.
Ed è in questo tipo di esperienza che si radica secondo me il successo clamoroso delle MMA negli ultimi anni.
Qual è il collegamento tra questa realtà e quella del pubblico mainstream, che non per forza ha simpatie militari? È qualcosa di inconscio, che fa parte della contemporaneità?
L’altro aspetto è quello spettacolare. La gente va a vedere questi incontri tenendo conto che una card, un programma, dura tre o quattro ore. Sono spettacoli che durano molto tempo e che sono basati sulla violenza e sul sangue. Un elemento è la pervasività della cultura del combattimento, un altro è lo spettacolo un po’ grandguignolesco che è offerto dalle arti marziali miste. Sono due cose diverse ma collegate.
Non c’è una contraddizione tra questo secondo aspetto, lo spettacolo sanguinoso come ragione del successo delle MMA, e l’evoluzione recente della stessa che ha avuto bisogno di alcune regole per correggerne la violenza ed essere accettata?
Lei sa spiegare perché l’asticella del codice morale tende ad alzarsi?
È lo spettacolo a decidere quali siano i limiti morali di tutto questo. Quindi, da una parte c’è questa tendenza ad allargare la sfera della violenza legittima, per motivi spettacolari, e dall’altra il gioco dialettico tra lo spettacolo, lo sport e la società. Ma secondo me il limite tende ad essere sempre più allargato, anche se regolamentato.
Il limite ultimo qual è, la morte?
Jonathan Gottschall, nel saggio Il professore sul ring. Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli (Bollati Boringhieri) parla di una “scimmia interiore che vuole uccidere”, che è parte della natura di ognuno di noi. Joyce Carol Oates, invece, sottolineava come la boxe si basasse sulla scelta contro natura di correre rischi fisici, e sulla rottura del tabù della violenza.
Ho trovato in alcuni testi del ‘700, per esempio, delle istruzioni su come condurre un incontro di pugilato che erano terribili. Dicevano: be’, anche se non potete portarvi bastoni colpite l’avversario alla gola. Oppure: insaponatevi i capelli così impedite all’avversario di tirarveli. Progressivamente c’è stata una stilizzazione, che è una cosa innaturale, perché lo scopo è sempre pestarsi, ma senza tirare calci eccetera. Le MMA non aboliscono la stilizzazione ma le moltiplicano, a seconda degli stili.
Più che di un confronto tra violenza innata e tabù della violenza, parlerei di un confronto tra tendenza a sopraffare l’avversario e stilizzazione. La stilizzazione vuol dire semplicemente che persino in un incontro violento come quello delle MMA l’atleta ha introiettato una serie di comportamenti limitanti. Tanto più il limite della violenza, l’asticella, si alza, tanto più le inibizioni si moltiplicheranno.
Può essere significativo il fatto che l’esplosione recente delle MMA (9) coincida con il ritorno dell’occidente verso politiche sempre più autoritarie?
Per alcuni la fusione di stili e di influenze è in contrasto con le ideologie nazionaliste. Ma c’è una tendenza a tifare gli atleti della propria nazione. E dopo l’incontro tra Khabib Nurmagomedov e Conor McGregor, nel Madison Square Garden si sono scontrati gruppi di dagestani e di irlandesi, come prolungamento dell’incontro.
Irlandesi e dagestani, nel tuo esempio, si sono pestati paradossalmente dopo aver assistito a uno sport in cui le regole sono comuni. Saltando di palo in frasca: quando Salvini promuove una politica di respingimenti si rivolge a Orban, che dice la stessa cosa ma non lo aiuta per niente. C’è sempre un doppio livello: da una parte ci si scontra ma dall’altra si condivide la stessa cultura. È come la cultura degli ultrà, si odiano e ci sono grandi rivalità o alleanze però cantano le stesse canzoni con le parole cambiate. È un classico dei conflitti in cui si condivide la stessa cultura militare, o dell’ostilità, anche se si presume di difendere la propria identità.
Un anno fa il Guardian metteva in relazione MMA ed estrema destra in Europa e in Nord America. È solo la violenza ad attirare la destra verso questo mondo o ci sono altri valori? Tutti gli atleti con cui ho parlato io si dicono apolitici (10).
Però in origine venivano confuse, mescolate. Oggi con il passare del tempo questa mescolanza è finita, così come è successo nella cultura ultrà che per il 90% ormai è di estrema destra, e quello che è emerso è il machismo. Ma qui bisogna distinguere tra cultura politica e cultura partitica. Io penso che siano sinceri i fighter quando dicono di non avere un’appartenenza partitica precisa, però dal punto di vista dei simboli la loro cultura politica è indubbiamente di destra.
Le arti marziali, però, un po’ come la cultura ultrà, sono state rivendicate anche dalla cultura di sinistra. Come strumento di lotta, di aggregazione, di rivendicazione sociale.
In origine è vero che c’erano questi aspetti comuni, adesso mi sembra che in una cultura direttamente e indirettamente militarizzata ci sia sempre più un approfondimento degli aspetti di destra. Questo non significa che coincida con partiti precisi, piuttosto con un mood culturale prevalente.
Nel documentario in 5 parti Fighting in the age of lonliness gli autori, Felix Biederman e Jon Bois, collega la nascita e l’esplosione delle mma con il mondo “corporate” e la paranoia da politicamente corretto, che ha marginalizzato gli individui più fuori controllo, dandogli come quasi unica speranza lavorativa e unico senso di vita l’ottagono.
Piuttosto che di uno scontro tra la cultura corporate – che poi non coincide con il politicamente corretto – e il combattimento, mi sembra più ragionevole il discorso del “fighting against loneliness”. Anche pensando al rapporto che le donne hanno con le arti marziali. Penso a un mondo diverso che a me interessa comunque moltissimo, quello della pornografia (la pornografia come un altro modo estremo di usare il proprio corpo): come negli ultimi anni il femminismo sta riscoprendo il valore liberatorio della pornografia, così le donne rivendicano il proprio ruolo nelle arti marziali. Ma in tutto questo l’elemento essenziale secondo me è la promozione di se stessi come protagonisti del mondo. Non tanto contro il politicamente corretto, ma contro i processi di de-individualizzazione che oggi sono diffusissimi. Questo è interessante: il mettersi alla prova – sia uomini che donne, nello sport, nel sesso – è diventato un elemento dominante. E l’aspetto essenziale è l’individualismo secondo me.
Prima parlavamo della componente spettacolare delle MMA, come si spiega il legame con il mondo dello spettacolo? Il fatto che l’UFC sia stata acquistata da un’agenzia di Hollywood, la WME (11)?
Il successo delle MMA non potrebbe avere anche a che fare con la difficoltà sempre maggiore nella società di provare emozioni magari più normali, quotidiane. E quindi con il bisogno di provare sensazioni estreme, di assistere a spettacoli estremi, per provare qualcosa?
Ma cosa spinge, oggi, una persona che in Italia magari dieci anni fa avrebbe praticato calcio e guardato solo calcio a praticare o guardare uno spettacolo che è oggettivamente forte?
La legittimazione, le regole e il resto fa sì che non ci sia niente da sorprenderci o meravigliarsi. Quando vedi incontri di cartello con cinquantamila, sessantamila persone, in un’arena significa che questo spettacolo è diventato iper-legittimo nella nostra cultura. Sotto sotto uno si giustificherà dicendo che va a vedere la bravura, l’abilità eccetera: poi però va a vedere l’ascesa e la caduta dei propri eroi, il sangue che schizza e, contemporaneamente, sa che nessuno lo potrà sanzionare moralmente.
Sto leggendo in questo periodo le autobiografie dei campioni di MMA delle prime generazioni e molti hanno una cultura religiosa, è interessante questo aspetto no? È divertente, molti dicono: combatto perché credo in Dio. E ci sono anche altri aspetti interessanti, che valgono per tutti gli sport di combattimento: noi ci pestiamo a sangue, ci facciamo male, ma condividiamo la stessa cultura. C’è un aspetto di reciprocità: io rischio, ma anche lui rischia, c’è una partecipazione binaria e democratica.
Non c’è un’aspirazione delle MMA a sostituirsi alle altre discipline, come la migliore possibile? È una cosa che collego alla cultura del monopolio, delle grandi corporazioni, che secondo me fa parte del suo essere estremamente contemporanea.
La commistione degli stili delle MMA si fa in nome di un aspetto che lei sottolinea nel suo saggio: l’efficacia. Un altro valore celebrato continuamente dalla società contemporanea.
Vorrei chiudere con due domande sulla cultura ultras. La prima è se secondo lei c’è una differenza tra cori razzisti e discriminazione territoriale. E se escono dalla dialettica simbolica amico/nemico che lei aveva teorizzato (13).
Qual è stato il cambiamento più grande degli ultimi anni? La disgregazione dei grandi gruppi organizzati, la depoliticizzazione o comunque la mancanza di una politicizzazione chiara e il ritorno di gruppetti di destra come anti-politica?
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(1) – Pubblicato sul numero 3 del 2016 della rivista Etnografia e Ricerca Qualitativa (il Mulino).
(2) – In cui, ad esempio, sono ammesse anche le testate.
(3) – La promotion più importante è la Bare Knuckle Fighting Championship è nata nel giugno del 2018, oggi ha nel roster anche ex-fighter UFC, come Artem Lobov e Jason Knight che si affronteranno il prossimo 6 aprile, e l’ex pugile Paul Malignaggi, campione del Pesi Welter WBA tra il 2012 e il 2013. La storia dei combattimenti a mani nude ovviamente è molto più antica.
(4) – Anche se le morti in un ring di MMA sono meno di quelle che avvengono nella boxe (in uno studio di qualche tempo fa si contavano 60 morti avvenute negli incontri di boxe, contro una sola dovuta a dei colpi subiti in un incontro di arti marziali miste) la questione delle “concussions” nelle MMA è ancora aperta e non è escluso che porti un giorno a dei cambi di regolamento. Recentemente il caso del veterano Wanderlei Silva ha destato molta preoccupazione, come quelli di Josh Emmett, Max Holloway (che dopo aver dovuto annullare un evento per dei sintomi da concussion è tornato a combattere senza mostrare ulteriori problemi) e Tony Ferguson, tutti fighter attivi. Va segnalata anche una morte molto recente nel mondo amatoriale, sulle cui ragioni però non c’è ancora chiarezza.
(5) – Ci sono più tornei interni alle forze armate americani in cui si sfidano i rappresentanti di basi diverse, che derivano dal programma All-Army Combatives ideato da Matt Larsen nel 1998. Il primo torneo risale al 2005 e uno dei primi vincitori, Tim Kennedy, è stato un fighter professionista anche in UFC. Le regole non corrispondono esattamente alle Unified Rules che regolano gli incontri professionistici di MMA dal 2000, ci sono piccole variazioni sia riguardo l’abbigliamento (i combattenti indossano le divise militare, con la zip aperta e coperta da nastro adesivo, ad esempio) sia i colpi (in un regolamento che ho trovato online, ad esempio, le gomitate sono permesse solo al corpo). Oggi il più prestigioso sembra essere quello che si tiene a Fort Bragg (in Carolina del Nord). Dalle mie ricerche sembra che ci siano 8 categorie di peso diverse, anche se non c’è una divisione femminile. Perché, come ha scritto nel 2011 un corrispondente di Bloody Elbow che ha parlato con Larsen: “in guerra non c’è una divisione femminile”.
(6) – Regista di Conan il Barbaro (e tra le altre cose anche co-sceneggiatore di Apocalypse Now), che è stato direttore creativo del primo evento Ultimate Fighting Championship. Soprattutto, a Milius si deve l’idea del ring ottagonale, che aveva già usato proprio per una scena di Cononan il Barbaro. Per rendere l’idea di quanto fosse consapevole l’esigenza di scioccare il proprio pubblico in quegli anni: tra le idee poi scartate per il primo evento UFC, ma inizialmente prese in considerazione, c’era persino quella di scavare un fossato intorno all’ottagono e metterci dentro degli alligatori.
(7) – David Mamet, regista e sceneggiatore, è appassionato di MMA fin dall’inizio. Nel suo Redbelt recita anche il fighter Randy Couture.
(8) – Contro Amanda Nunes, il 30 dicembre 2016 (durante l’evento UFC 207). L’incontro è durato appena 48 secondi e ha di fatto chiuso la carriera di Ronda Rousey nelle MMA. Medaglia di bronzo di Judo alle Olimpiadi cinesi del 2008, Rousey è stata la prima donna messa sotto contratto dall UFC nel 2012, convincendo – anche per il proprio potere mediatico – il presidente Dana White ad andare contro le sue stesse convinzioni maschiliste e ad aprire una divisione femminile. Di fatto, tra il 2012 e il 2015 è stata la faccia dell’UFC insieme a Conor McGregor.
(9) – Con il contratto con Fox prima e Espn poi, la cessione per 4 miliardi di dollari all’agenzia WME/IMG.
(10) – Mi riferisco alle interviste a Marvin Vettori e a Carlo Pedersoli Jr.
(11) – E alcune celebrità (Serena Williams, Tom Brady, ma anche non sportivi: Ben Affleck, Michael Bay, Stallone, The Weeknd) hanno investito somme non inferiori a 250 mila dollari.
(12) – È vero che i singoli fighter provengono da formazioni specifiche in un’arte marziale delle tante che confluiscono nelle MMA, ma parlando con gli atleti più giovani e leggendo le loro interviste sembra si stia andando sempre di più incontro a una formazione per le MMA diversa da quella delle altre discipline.
(13) – Nel libro Descrizione di una battaglia (Il Mulino, 1990).