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Flavio Fusi

Il Milan ha bisogno di Rangnick

Ritratto del probabile possibile nuovo plenipotenziario del Milan.

Per l’ennesima volta, il Milan sembra pronto a un cambiamento dirigenziale radicale. L’ormai nota intervista di Zvonimir Boban alla Gazzetta dello Sport – forse il tentativo estremo di salvare il proprio lavoro e la propria reputazione – ha scoperchiato definitivamente il vaso di Pandora e accelerato un divorzio che in realtà sembrava già scritto.

 

Boban, tecnicamente il Chief Football Officer, nell’intervista aveva attaccato Gazidis, che ha presentato pochi giorni dopo ha presentato il licenziamento per giusta causa. A quanto pare non mancherà di essere impugnato davanti a un tribunale del lavoro, ma nel frattempo è diventato realtà con un comunicato del club di via Aldo Rossi. 

 

Una mossa che ha subito messo in discussione anche il futuro del direttore sportivo, Frederic Massara e soprattutto del direttore tecnico, Paolo Maldini, coloro che insieme a Boban hanno formato la triade in carico delle decisioni sportive degli ultimi 9 mesi. Ma anche dell’allenatore Stefano Pioli, perché, come rivelato dallo stesso Boban – che nelle sue ultime dichiarazioni ha paragonato la sua ex squadra alla Corea del Nord – il Milan e soprattutto il CEO Ivan Gazidis avrebbero deciso di incaricare del management sportivo del club l’attuale Head of Sports and Development della Red Bull, Ralf Rangnick. 

 

Una figura su cui si era sbilanciato anche Maldini, dichiarando di non ritenerlo “il profilo giusto per il Milan”, anticipando così anche la propria probabile separazione dal club con cui è diventato leggenda da calciatore, qualora effettivamente l’ingaggio del 61enne tedesco diventasse ufficiale a fine stagione. 

 

L’arrivo di Rangnick stravolgerebbe l’attuale struttura del club praticamente su ogni livello, tanto che le indiscrezioni hanno previsto per lui anche un ruolo da direttore sportivo e da allenatore. Sarebbe un inedito per il nostro calcio in cui le figure dirigenziali sono sempre molto divise, ma che non sarebbe poi così assurdo alla luce del curriculum del tedesco.

 

La formazione di Rangnick

Rangnick si occupa attualmente del coordinamento sportivo delle squadre della galassia Red Bull e in particolare dello sviluppo dei calciatori di NY Red Bulls e Red Bull Bragantino, due franchigie che non sono riuscite a produrre talenti da lanciare in Europa con la continuità sperata. Appena un anno fa, però, conduceva il Lipsia ora allenato da Julian Nagelsmann al terzo posto in Bundesliga e adesso anche ai quarti di finale di Champions League, dopo la netta vittoria nel doppio confronto con il Tottenham. Un doppio ruolo da allenatore e manager che aveva assunto già nel 2015/16, conquistando la promozione dalla 2.Bundesliga, prima di cedere la panchina a Ralph Hasenhüttl, adesso al Southampton. Prima ancora, dal 2012 al giugno 2015, era stato contemporaneamente il direttore sportivo sia della squadra sassone che del Red Bull Salisburgo.

 

Vale la pena raccontare la storia di Ralf Rangnick, una figura unica nel panorama internazionale ma di cui in Italia si sa davvero poco. Se volessimo fare un’analogia facile, Rangnick ha avuto un peso specifico sul movimento tedesco paragonabile a quello di Arrigo Sacchi sul calcio italiano, pur non avendo una bacheca neanche lontanamente paragonabile a quella dell’ex allenatore del Milan, che per lui è stato peraltro un modello in gioventù.

 

Dopo aver giocato per lo Stoccarda, senza mai andare oltre il livello amatoriale, a 21 anni ha studiato un anno a Brighton alla Sussex University, come parte del suo percorso accademico in inglese e Educazione Fisica. Un periodo in cui ha anche giocato nel Southwick Fc, squadra del non-league football inglese, in cui, secondo lui, ha imparato ad autogestirsi in campo come calciatore, scambiandosi consigli con i compagni. 

 

Al ritorno in Germania, nel 1983, assunse il suo primo ruolo duplice da giocatore e allenatore del Backnag, la sua squadra locale. La sua epifania è arrivata quando affrontò in amichevole la Dinamo Kiev di Valeriy Lobanovskyi. L’intensità degli ucraini lo stupì al punto che durante la prima rimessa laterale della partita ne approfittò per contare i giocatori avversari: pensava giocassero in 13 o 14 tanta era la loro aggressività in fase offensiva e difensiva.

 

Un’esperienza che ha fatto la sua fortuna, così come l’incontro con Helmut Gross, incrociato per la prima volta a 25 anni. Gross, un ingegnere civile specializzato nella costruzione di ponti che allenava e studiava calcio nel resto del suo tempo, era fautore di un calcio che combinava marcature a zona e pressing con riferimento alla posizione della palla già nella prima metà degli anni ’80. 

 

Esattamente il tipo di calcio che aveva affascinato Rangnick: i due, diventati amici, acquistarono un costosissimo (per l’epoca) videoregistratore, per vedere video delle squadre di Lobanovskyi e Ernst Happel, di cui studiavano l’utilizzo della trappola del fuorigioco, ma soprattutto del Milan di Sacchi, da cui erano totalmente ossessionati. Una fissa che gli costò persino la rottura del videoregistratore. Qualche anno dopo fu invece Zdenek Zeman ad appassionarlo: nel 1991 organizzò una vacanza in Sud Tiro con la famiglia solo per poter assistere in prima persona ai metodi di allenamento del boemo.

 

Gross e Rangnick scrissero insieme un manuale per l’associazione allenatori del Wüerttemberg, prima di iniziare a lavorare in coppia allo Stoccarda. Con Rangnick allenatore delle giovanili e Gross coordinatore, gettarono le basi di una filosofia calcistica che dovesse permeare il club a tutti i livelli, e soprattutto di un modello di gioco che, secondo Tuchel, poteva essere persino paragonato a quello dell’Ajax. E che ha reso lo Stoccarda una fucina di talenti anche per i decenni a venire.

 

Rangnick continuò ad allenare tra Stoccarda e altre squadre della regione fino al 1995, quando gli fu offerta la panchina del Reutlingen 05, club di Regionalliga Süd portato al quarto posto già alla prima stagione. Fece ancora meglio nella stagione successiva stagione, prima che a febbraio decidesse di passare all’SV Ulm, squadra che portò fino alle soglie della Bundesliga.

 

Il professore del calcio

Proprio durante il suo periodo da allenatore del club del Baden- Wüerttemberg, fece la sua famosa apparizione al programma TV SportStudio. Qui, in total look grigio scuro e con gli occhiali da vista, spiegò il pressing con il 4-4-2 e una difesa a zona con l’ausilio di una lavagnetta magnetica.

 

Quell’intervento gli valse il soprannome caricaturale di “professore del calcio”, ma col senno di poi rappresentò un vero e proprio shock culturale. In Germania il pubblico generalista e i giornalisti non pensavano che il calcio fosse uno sport degno di tali complicazioni e che potesse generare analisi di questo livello. D’altronde, praticamente tutte le squadre della Bundesliga giocavano con il libero, e appena due anni prima Matthias Sammer aveva portato a casa il Pallone d’Oro da massimo interprete del ruolo. In poco più di 5 minuti Rangnick mostrò alla Germania il futuro del calcio, anche se nessuno lo comprese immediatamente.

 

Poco dopo abbandonò l’Ulm per firmare nuovamente con lo Stoccarda, stavolta per allenare la prima squadra. Dopo aver traghettato i suoi nuovi calciatori nelle ultime cinque gare del 1998/99, conquistò l’ottavo posto nella sua prima stagione completa. Le cose andarono peggio l’anno dopo e fu esonerato con la squadra vicina alla retrocessione. Seguirono altri 4 anni di alti e bassi tra Hannover 96 e Schalke 04, con cui conquistò anche un secondo posto in campionato, prima della firma con l’Hoffenheim di Dietmar Hopp.

 

Hopp, visionario tra i fondatori del colosso del software SAP, lo scelse come allenatore del club, che in due stagioni arrivò in Budesliga dalla terza divisione. Rangnick si incaricò personalmente anche del reclutamento dei calciatori e, affiancato nuovamente da Gross, fece parlare di sé per l’atteggiamento tattico ultra-aggressivo e l’età media bassissima. Per Nilsson, 25 anni, era il giocatore più vecchio tra i titolari nella prima stagione in Bundesliga. A 50 anni, Rangnick ottenne il successo più grande della sua carriera fin lì e dopo un Hinrunde (un girone di andata) da vertigini, in cui per lunghi tratti era stato in testa, chiuse il campionato al settimo posto.

 

Pur senza trofei, l’Hoffenheim è stato per Rangnick una rivincita, e per il calcio tedesco un prototipo di modello di sviluppo di giocatori e di calcio da cui ripartire per rilanciare le sorti della Nationalmannshaft dopo il Mondiale casalingo del 2006, percepito come una grande sconfitta da tutta la Germania. Finito dopo quasi 5 anni l’idillio con Hopp, causa vendita al Bayern di Luiz Gustavo, Rangnick proseguì la sua carriera allo Schalke 04, con cui sfiorò persino la finale di Champions, dopo aver eliminato l’Inter ai quarti per 7-3. Ma nel settembre 2011, complice un esaurimento nervoso, abbandonò la panchina del club di Gelsenkirchen.

 

Le idee prima di tutto

Per convincerlo a tornare al calcio, ci volle un altro imprenditore visionario (e multimiliardario): Dietrich Mateschitz. Il fondatore dell’azienda di energy drink più famosa del mondo lo volle per guidare la sua avventura nel calcio e coniugare la visione della sua azienda con lo sport più popolare d’Europa. Rangnick propose un calcio ultra-cinetico, in cui pressing e gegenpressing avrebbero garantito il dominio della partita e, allo stesso tempo, conquistato le generazioni più giovani a cui i prodotti con il toro rosso si rivolgono.

 

Da quella idea che riuniva marketing, management strategico, calciomercato e tattica sono partiti per conquistare il continente, e poi il mondo intero. «Ci siamo chiesti che tipo di gioco volessimo fare. E abbiamo cominciato a fare scouting per calciatori che fossero compatibili con le nostre idee».

 

Nel suo nuovo ruolo da direttore sportivo totipotente, con Gross come consigliere e responsabile dell’istruzione degli allenatori di tutti i livelli, Rangnick ha costruito dal nulla un gruppo di club uniti da un’identità e da una cultura unica e immediatamente riconoscibile, innovando a tutti livelli. Nel processo, ha cementato la sua fama di scopritore di talento in tutte le forme e continuato ad ispirare un’intera generazione di allenatori tedeschi, austriaci e non solo. 

 

Nell’infinito elenco di giocatori scoperti e portati nell’élite del calcio europeo ci sono Roberto Firmino, David Alaba, Sadio Mané Joshua Kimmich, Naby Keita, Timo Werner ed Erling Haaland. E nel frattempo l’attuale campionato di Bundesliga è stato soprannominato “Rangnickliga” tanti sono i suoi discepoli in sella a squadra di alto livello. 

 

Marco Rose (Borussia Mönchengladbach), Oliver Glasner (Wolfsburg) e Adi Hutter (Eintracht Francoforte) hanno lavorato insieme al Salisburgo, rispettivamente come allenatore, vice-allenatore e allenatore della squadra primavera, prima che Rose diventasse a sua volta allenatore della prima squadra. Senza dimenticare René Marić, vice di Rose nella stagione della conquista della Youth League e tuttora al suo fianco. Achim Beierlozer (Mainz), aveva lavorato con lui al Lipsia, e Markus Gisdol, successore di Beierlozer sulla panchina del Colonia, è un allievo di Gross e Rangnick, di cui è stato vice nella seconda esperienza allo Schalke 04. Infine, sia Nagelsmann che David Wagner (Schalke 04), sono stati dichiaratamente influenzati lavorando sotto di lui nel settore giovanile dell’Hoffenheim.

 

 

La sua influenza ha coinvolto anche tecnici che oggi suono fuori dai confini nazionali, a cominciare dal più celebre, Jurgen Klopp, che tra l’altro allena Firmino, Mané, Keita e Joel Matip, tutti lanciati da Rangnick, e ovviamente Tuchel. In Premier League allena anche Hasenhüttl, da dicembre 2018 alla guida del Southampton. Per non parlare dell’epigono Roger Schmidt, al momento senza squadra ma molto influente ai tempi del Bayer Leverkusen, o di Peter Zeidler, primo in Super League con l’FC San Gallo. E l’elenco potrebbe continuare ancora.

 

Rangnick è da sempre un maniaco dei dettagli e un vorace studente del calcio. Negli anni ha aggiunto competenze che spaziano dalla psicologia alle neuroscienze, oltre alle doti di leadership e gestione che ha acquisito guidando i club che allenato anche fuori dal campo ispirato da imprenditori di successo come Hopp e Mateschitz. Nella sua visione occupano un ruolo determinante anche la tecnologia e l’analisi dei dati, sia fuori che dentro il campo.

 

Rangnick non lavora mai da solo ma possiede una mentalità manageriale, è in grado di delegare oltre che di scegliere i suoi collaboratori a tutti i livelli. Nella sua avventura con la Red Bull si è disimpegnato prima dal Salisburgo e poi dal Lipsia, selezionando i suoi successori in prima persona: l’ultimo è stato Markus Krösche, che ha lasciato il Paderborn per diventare direttore sportivo del club tedesco.

 

Cambiare il DNA di un club

Quando negli anni della Red Bull gli è stato chiesto se avesse considerato le offerte di altre squadre, Rangnick ha sempre sottolineato la sua disponibilità ad ascoltarle, a patto che chiunque lo avesse contattato gli avesse concesso la possibilità di influenzare il club a 360 gradi. Perché altrimenti, per sue stesse parole, il risultato sarebbe di ottenere «solo la metà di quello che è capace». Ecco perché dopo essere stato preso in considerazione dal Manchester United, non ci possiamo stupire che sia stato accostato al Milan che fu del suo modello Sacchi.

 

Prima squadra, settore giovanile, staff medico, scouting e reclutamento: Rangnick vuole supervisionare tutti i dipartimenti del club: «È come fosse un puzzle con 500 pezzi e il nostro scopo è quello di avere ogni pezzo a disposizione per far sì che i nostri giocatori e ogni individuo nel club, migliori».

 

L’obiettivo principale di Rangnick è quello di sviluppare calciatori e lo ripete in ogni intervista. «Il mio lavoro – il Lavoro – è quello di migliorare i calciatori. I calciatori ti seguono quando percepiscono che li migliori. È la più grande e la più sincera delle motivazioni». I metodi di allenamento prevedono lo sviluppo cerebrale, prima ancora che fisico, così da formare calciatori in grado di anticipare le situazioni e migliorare le proprie capacità decisionali, tramite allenamenti specifici, disegnati per metterli costantemente in difficoltà e costringerli a pensare in modo veloce.

 

Tutti i calciatori del RB Lipsia, e prima ancora quelli del Red Bull Salisburgo, sono stati selezionati sia per le loro qualità tecniche che mentali, oltre per la voglia di migliorare. Questa visione permette di migliorare la squadra e quindi i suoi risultati, oltre che di accumulare profitti.

 

E a suo dire, il modello Red Bull può essere copiato ed esportato «se le tre K convivono: Kapital, Konzept, Kompetenz». La notizia del suo potenziale arrivo al Milan è stata accolta con più critiche che interesse da stampa e tifosi, probabilmente perché il suo arrivo è stato contrapposto all’addio di leggende del club come Boban e Maldini. La maggior parte delle posizioni negative, infatti, ruota intorno a una presunta sua inadeguatezza ad adattarsi in Italia.

 

Nessuno ha la sfera di cristallo, e ad alti livelli tutti possono fallire, ma un suo ingaggio avrebbe molto senso: dopo anni di rivoluzioni, il Milan ha bisogno di una terapia d’urto ed è difficile pensare ad un altro uomo in grado di ripensare la visione d’insieme di un club di questo livello. L’esigenza comprovata è rilanciare nel mondo uno dei brand più conosciuti di questo sport. E d’altra parte, il Milan non può più permettersi margini di errore per continuare a mettere il potere decisionale in mano a calciatori leggendari, ma senza una consolidata esperienza in ruoli dirigenziali

 

Il Milan ha accumulato 543 milioni di perdite in 6 anni, di cui 146 milioni solo nel 2019 (peggior dato in Italia): la situazione non è più sostenibile ed è già costata l’esclusione dall’Europa League. C’è bisogno di proseguire con il taglio dei costi promosso da Boban e Maldini, ma non è più il tempo delle mezze misure. 

 

Per diventare sostenibile, oltre che appetibile come società sul mercato internazionale (il fondo Elliot è pur sempre famoso per essere un “vulture fund”), il club rossonero ha bisogno di tagliare ulteriormente i costi e soprattutto di generare ricavi dal player trading. Di giocare un calcio che sia immediatamente riconoscibile, con principi scolpiti nella pietra da implementare con rapidità e senza compromessi. Il Milan deve anche riorganizzare un settore giovanile che possa sviluppare talenti su larga scala e garantire ricambi alla prima squadra. Sotto tutti questi aspetti, rispetto a Boban e Maldini, Rangnick è riuscito già a fare tutte queste cose, anche contemporaneamente, anche se ovviamente con molto più tempo e pazienza a disposizione, e in club in cui l’assenza momentanea di risultati non è percepita allo stesso modo che in un club blasonato come il Milan.

 

Il Milan non partirebbe da zero, avendo a disposizione un nucleo di giocatori più o meno giovani compatibili con le idee di Rangnick, oltre ad un allenatore come Pioli, le cui idee non sono poi così lontane da quelle del tedesco. Ma il taglio con il passato sarebbe comunque netto e il club non si farebbe scrupoli a vendere i calciatori più talentuosi, a patto di averne altri pronti alle spalle. 

 

Il calcio è prima di tutto uno sport, ma tra la crescente importanza del calciomercato sulle finanze dei club, Fair Play finanziario e potenziale mediatico e di intrattenimento delle principali squadre europee, sarebbe sciocco sottovalutare la componente di business. Rangnick è un uomo di campo diventato manager e il Milan, per innovare e rinnovarsi, ha esattamente bisogno di competenze di queste tipo. I tifosi tradizionalisti storceranno il naso, ma ne va del rilancio del club a livello internazionale, se non della addirittura della sua sopravvivenza.

 

 

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Flavio Fusi è nato nel 1993 e vive ad Arezzo. Laureato in Management, lavora per una startup tech e collabora anche con il sito di analytics StatsBomb.