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Fabrizio Gabrielli
Messi Re
19 dic 2022
19 dic 2022
L'incoronazione finale del più grande.
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Fabrizio Gabrielli
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Matthew Ashton - AMA/Getty Images
(foto) Matthew Ashton - AMA/Getty Images
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.Al centro della scena, zenith di una costruzione piramidale e gericaultiana, la Coppa del Mondo riluce tra le sue mani. Cavalca spalle che lo trasportano oltre la rete tagliata, è circondato da centinaia di persone, macchine fotografiche, maglie a strisce bianche e celesti. Molte di quelle maglie portano il suo numero. Molte di quelle maglie portano il suo nome. Come se i due elementi fossero inscindibili. Il fatto è che per certi versi lo sono davvero. Da sempre? Per l’eternità.L’uomo con i baffi che è stato immortalato in una foto tremendamente simile a questa, trentasei anni fa, in Messico, l’uomo che porta sulle sue spalle Diego Armando Maradona mentre stringe la Coppa del Mondo, l’ultima che l’Argentina aveva conquistato prima di ieri sera, aveva deciso di volare da Buenos Aires a Città del Messico il giorno successivo alla vittoria nella semifinale con il Belgio. Si era imbucato allo stadio, pagando una mazzetta all’inserviente. Al fischio finale si era riversato in campo come un personaggio di un racconto di Mario Benedetti: Maradona gli era sbattuto contro, e Roberto Cejas, così si chiamava, aveva sentito l’esigenza di erigerlo.

L’uomo che porta in trionfo Lionel Messi, al contrario, non è per niente un imbucato. Sergio Agüero è stato parte di quest’Argentina, di questo gruppo: poco più di un anno fa ha dovuto abbandonare il calcio per problemi di salute; si è messo a fare il twitcher e in una diretta di qualche giorno fa ha chiesto a Messi dove si trovasse. Leo gli aveva risposto: «Nella nostra stanza». Messi e Agüero avevano sempre condiviso la stanza, in ogni ritiro, per ogni convocazione, per ogni torneo negli ultimi diciassette anni. Quella era la loro stanza, anche se Messi ci dormiva da solo. ___STEADY_PAYWALL___ La notte prima del Mondiale, il Kun è tornato a fargli compagnia. La notte prima di issarlo sulle spalle, portarlo in trionfo, mostrare al mondo l’immagine che tutti, in cuor nostro, avevamo un po’ cullato, sognato, e con sempre maggiore convinzione immaginato che fossimo destinati a non vedere mai.La mitopoiesi di Lionel Messi non è solo calcistica: è, anzi, anche e soprattutto narrativa. Lionel Messi è un pantocratore di storie, capace di attirare a sé irradiando come un prisma le storie satellite dei personaggi che gli gravitano attorno. Nel mito e per il mito di Messi è sembrato scendere in campo, dall’inizio della sua avventura in Albiceleste, Emiliano Dibu Martínez: la spaccata con cui si oppone all’ultimo secondo del secondo tempo supplementare a Kolo Muani, la rabbia che mette nell’opporsi ai rigoristi francesi, prima di ogni altra cosa è anche uno sforzo per permettere a Leo di alzare la CoppaNel mito e per il mito di Messi si sono distinti Julián Álvarez ed Enzo Fernández, con una maturità che l’età lascerebbe intendere ancora tutta in divenire: erano ragazzini quando Messi esplodeva a Barcellona, adolescenti quando le delusioni del loro idolo si facevano, in qualche modo, le loro delusioni. La loro ambizione, il loro percorso di ricerca della felicità, non poteva non essere per certi versi l’ambizione del loro idolo, la gioia del loro idolo.Veronica Brunati, dopo la semifinale, durante l’intervista post gara si è abbandonata a una definizione che Messi ha accolto con gli occhi lucidi. Gli ha detto «ogni argentino ha una tua maglia: originale, pezzotta, immaginaria. Non sai quanto hai permeato ognuno di noi». «Il miglior Messi è quello che vedremo nella prossima partita», ha detto qualche settimana fa Pablo Aimar: tutto il Mondiale di Lionel Messi è stata una continua conferma di questo assunto. Ha segnato, tantissimo, più di quanto avesse mai fatto in tutti i Mondiali disputati finora. Si è preso la responsabilità di tirare ogni rigore che gli è capitato di dover tirare, con serenità: ne ha sbagliato soltanto uno. Ha segnato in ogni partita della fase a eliminazione diretta, lui che finora non ci era mai riuscito. Ha mostrato serenità, partecipazione, luminescenza. Ha sfatato miti, distrutto cliché, schiaffeggiato intere generazioni che con il loro incedere vorrebbero dimostrarci la sua finitezza. Ha cantato l’inno – mai con gli occhi chiusi, mai a mezza bocca, mai toccandosi la testa nella smorfia di chi è assalito dalle emicranie, dai timori, dall’ansia. Ci ha messo nella condizione, a trentacinque anni, di attendere ogni sua partita con la curiosità che l’ordinarietà dello straordinario potesse trasformarsi, convertirsi, sovvertirsi in una nuova straordinarietà di questo ordinario. Mi ha messo nelle condizioni, ogni volta, di correre a casa per indossare una maglia con il suo nome, che pure mi va stretta, la maglia che era stata l’armatura molle indossata nella battaglia persa che ne aveva decretato la resa, nel 2016. È diventato compiutamente argentino. Si è calato tra la sua gente, inginocchiata da un’inflazione che galoppa a tassi disarmanti, un popolo diviso, che galleggia sullo stagno malmostoso – un po’ per abitudine, un po’ per inerzia – della disperazione, ma che non si arrende. Leo gli ha dato un motivo per sentirsi uniti. Per sentirsi il miglior Paese al mondo, anche se lo sanno tutti, che non è così, che non può essere così. Ma il Paese che può contare sul più forte calciatore al mondo: quello sì.Con i suoi «que mirás, bobo? Anda pa’llá», con i suoi «somos campeones del mundo, concha su madre!» urlato nel microfoni per gli annunci dello stadio Lusail, è diventato il pibe de barrio che non è mai stato, ha elevato le sue lacune ottenendo, paradossalmente, la più straordinaria umanizzazione del divino. Nella semifinale con la Croazia, Victor Hugo Morales lo ha definito Arlecchino meraviglioso, servitore del fútbol. Il giorno dopo, quando ho avuto l’onore di poter chiedere a Victor Hugo Morales in persona da dove fosse scaturita quella definizione mi ha spiegato che «Arlecchino è un uomo che diverte, che cerca la bugia che nel calcio è necessaria». «La bugia è una forma d’arte, il calcio è l’obbligo di giocare con immaginazione contro gli avversari». Tra gli avversari di Leo, in questo Mondiale, c’erano l’anagrafe, i detrattori, i detrattori che nell’anagrafe individuavano l’impossibilità di un’ascensione finale. E Lionel, come se ci avesse guardato negli occhi, come se ci avesse apostrofato «che guardate, tonti? Andate, andate» si è portato a casa cinque premi per il migliore in campo, ha segnato sette reti, ci ha fatto esaltare. Ci ha raccontato una bugia, ci ha ingannati, ancora una volta. E poi ha contribuito, con tutta la sua squadra, come ha scritto Valdano su El País, «a dare vita e autenticità a un Mondiale artificiale».

Il primo contatto con la coppa è il più commovente. Leo la sfiora, come fanno i padri con la testa dei figli nei film americani in quelle scene in cui dopo aver giocato per un po’ a baseball al tramonto pronunciano la frase «e ora andiamo, campione». La bacia. Poi prosegue nella passerella, tra le mani ha il premio di miglior giocatore del torneo, stavolta non deve tenere la testa bassa come nel 2014, con la morte nel cuore e negli occhi. Con la coppa scambia uno sguardo d’intesa, un appuntamento pieno di intenzioni. Quando finalmente arriva il momento di alzarla sul serio, di fronte a un Infantino divertito, al massimo del climax, l’emiro del Qatar Al Thani gli poggia sulle spalle un bisht.

Il bisht è un mantello cerimoniale, che si indossa sopra la tunica nei paesi arabi: è un simbolo di potere, di ricchezza, di cerimoniosità, appunto. Che Al Thani lo riponesse sulle spalle del più forte calciatore del mondo, del capitano della Nazionale che si è appena laureata campione del mondo, nel giorno nazionale del Qatar è sembrata a molti un’operazione di appropriazione. Probabilmente l’idea alla base era quella di accentuare ancor maggiormente l’idea di regalità, sebbene sia stato difficile non vederci l'ennesima invadenza qatariota.Cosa dovremmo leggere, però, ancora, tra le righe? L’accondiscendenza di Leo a un teatrino che finisce per metterlo ancora una volta in un rapporto di subordinazione con Diego, che non si sarebbe mai prestato a una commedia simile orchestrata dalla FIFA? O, magari, l’ennesima coincidenza – o se preferite, l’ennesima riprova che tutto fosse scritto?Poco prima dell’inizio dei Mondiali avevo raccontato il mito popolare che in Argentina ha accompagnato tutta la competizione, quella del Cinque di Coppe, spostando l’attenzione sul fatto che il Cinque di Coppe, nei tarocchi, rappresenta un uomo che, al centro della scena, domina un fiume che scorre sullo sfondo (il Paraná? La Senna?), un castello in rovine in lontananza (Barcellona?), e cinque coppe poste ai piedi dell’uomo: tre riversate a terra (le tre finali consecutive perse?) e due in piedi. Una era la Copa América. L’altra: ora lo sappiamo. Tutto, in quella carta, insomma, parla di Lionel Messi. Non riuscivo a capacitarmi di un dettaglio, però, a dargli una spiegazione. Perché il fatto sconvolgente è che l’uomo al centro della scena, ecco: indossa un mantello nero.

Alan Watts una volta ha scritto che non si ascolta una canzone per arrivare alla fine, ma per godersela nella sua esecuzione. Con Lionel Messi ho trascorso gli ultimi tre anni della mia vita, scrivendo un libro che – proprio come i nostri occhi secondo la teoria di Aimar – non aveva ancora visto il suo capitolo più bello. Mentre lo scrivevo pensavo che non fosse solo un atto di giustizia universale, per Messi, alzare questa coppa. Al contrario, l’idea che mi ero fatto era che fosse giusto regalare questa soddisfazione a chiunque lo avesse osservato, sostenuto, amato negli anni. A te che stai leggendo, e che ricordi la serpentina con il Getafe. A te che lo ricordi svettare di testa all’Olimpico. A te che hai versato una lacrima, quella sera del 2014. A me. Che non fosse una questione di giustizia, ma di giustezza. Che fosse giusto vedere il disegno compiersi per coerenza, puntualità, al di là di quanto i tarocchi avessero già previsto tutto, e al di là anche di qualsiasi concetto di giustizia morale. Speravo che potesse arrivare questo momento affinché tutto l’amore elargito potesse tornargli di rimbalzo, per irradiarsi ancora soprattutto nel suo Paese, dal Rio de la Plata al Paraná. Oltre la magia nera, oltre le coincidenze, l’Argentina – mai come in questo momento sineddoche di Lionel Andrés Messi Cuccittini – ha fatto di tutto per difendere l’orgoglio del calcio, che è anche e soprattutto parte sostanziale della loro identità. E per difendere il suo Mito.Se c’è qualcosa che per Lionel Messi credevamo ancora impossibile, quel qualcosa si è verificato: si è fatto trait d’union per una comunione totale, per un vero e proprio processo di osmosi.

Ogni argentino, anche fuor di metafora, ha alzato al cielo una coppa del mondo. Ogni argentino, ogni amante del loro calcio, ieri sera, si è sentito il più grande di questa terra, il più grande di tutti i tempi. Ogni argentino.Uno soltanto, però, lo era davvero.

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