Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Non siamo pronti a salutare Aguero
26 nov 2021
26 nov 2021
El Kun potrebbe ritirarsi dopo una carriera segnata da un rapporto difficile con la sua Nazionale.
(articolo)
12 min
Dark mode
(ON)

L’ultima domanda che gli faccio, impegnativa come forse non dovrebbe mai essere l’ultima domanda di un’intervista, è: «Cos’è, per te, il successo?». È una fredda e umida mattina di marzo del 2019. Sergio Agüero guarda per un attimo fuori dal finestrone dell’hotel parigino in cui stiamo chiacchierando, si sofferma sui tetti in ghisa, si sfiora la barba. È già un’ora che stiamo parlando, per un pezzo che dovrà uscire a breve. La risposta che sta cercando deve avere a che vedere con il concetto di successo nel calcio o nella vita?, più in generale, immagino si stia chiedendo. Finisce per darmi, dopo averci girato un po’ attorno, una risposta sulla memoria: «Se hai avuto successo», mi dice, «lo puoi sapere solo a posteriori. Quando ti sarai ritirato. Da quanti e come ti ricorderanno, capirai se hai avuto successo».

Negli ultimi giorni è circolata la voce che Sergio Agüero potrebbe essere costretto a ritirarsi dal calcio, per via di un’aritmia cardiaca. Una voce, nell’era della riproducibilità virale del clamore mediatico, diventa subito una notizia, e una notizia del genere ci mette poco a subire la cannibalizzazione del coccodrillismo da social. Ciò che sappiamo è che Sergio Agüero dovrà rimanere fermo per un po’: in questi tre mesi si capirà l’evoluzione del suo problema, da cui dipende ovviamente la possibilità di tornare in campo.

Per trarre conclusioni sulla sua carriera, insomma, è decisamente troppo presto. Però potrebbe essere il momento giusto per porci una domanda - un tema che, già in quell’intervista del 2019, uscì fuori prepotentemente: oggi, al netto della dinamica retorica del fa commuovere il web, che posto occupa, Sergio Agüero, nel nostro immaginario?

L’impressione generale è che sia il meno considerato tra i grandi nueve argentini degli ultimi anni. Che ci si pensi sempre un po’ distrattamente. Eppure, dopo Lionel Messi e Gabriel Omar Batistuta, Sergio Agüero è il terzo miglior marcatore nella storia dell’Albiceleste. Dopo Messi e Di Stéfano, è il calciatore argentino che ha segnato più reti nei vari campionati. È il secondo tra i cannonieri non spagnoli dell’Atletico di tutti i tempi, e il quarto miglior goleador di tutti i tempi della Premier League. Nonostante questo, siamo sempre un po’ a chiedercelo: Sergio Agüero è sottovalutato?

In quella nostra chiacchierata, a domanda diretta, mi disse: «Io non capisco come vengano valutati certi giocatori. Con che criteri, con che parametri». Il sottotesto che ci ho letto io è che sì, lui in realtà un po’ sottovalutato si sentisse. Magari, si sente ancora. In quei giorni era al picco più alto della sua esperienza mancuniana. Era in uno stato di grazia, veniva da una tripletta, la sua dodicesima, che gli aveva permesso di superare Alan Shearer nella classifica dei migliori triplettisti della Premier League. Allo stesso tempo, però - ricordo chiaramente di aver letto su Twitter, in taxi, la lista dei convocati di Scaloni per le amichevoli con Venezuela e Marocco: “el Kun” non c’era - soffriva una specie di rassegnata accettazione del destino di non essere un punto fermo della sua Nazionale. A tratti, di non essere neppure minimamente contemplato.

«Ho imparato a giocare con il sole: se c’è il sole, ci sono ombre», ha detto una volta. «Spesso, giocando con la schiena alla porta, quando mi arriva il pallone la prima cosa che faccio è guardare l’ombra del mio marcatore, così posso aggirarlo».

Mi sono fatto l’idea che le ombre della sua carriera - e l’ondivago destino in Albiceleste, ombroso, un po’ lo è stato - el Kun, con l’esperienza, abbia imparato, affinando la tecnica, a schivarle, lasciarsele alle spalle, puntare dritto alla porta. Al gol. Ai prodromi, declinando il suo pensiero, del successo.

Più “da nove” di questo?

Col suo centro di gravità basso, la corsa con le gambe arcuate, andatura da stampede di bisonti, Agüero in realtà non ha mai avuto il gioco - né il physique du rôle - del nueve. È sempre stato un nove con il fisico, la visione del mondo, le passioni (dopotutto è un grande estimatore della NFL, con una spiccata mania per il ruolo del quarterback) del dieci. E chissà che la grande fallacia classica che lo investe, in fin dei conti, non parta da qua, perché in Argentina, tradizionalmente, si pensa che l’Albiceleste, per giocare bene, non abbia bisogno che di un enganche, di un wing, di un diez e di un delanterocentro.

Le stimmate del predestinato le avrebbe avute tutte: esordio in Primera giovanissimo, più prematuro anche di Diego Armando Maradona. Un Mondiale, quello del 2006 in Germania, dal quale Pékerman lo ha escluso per le stesse ragioni per cui Menotti scartò Diego nel ‘78. Ma a seguire una Coppa del Mondo Sub-20, quella del 2007 in Canada, vinta da protagonista, capocannoniere, capitano, trascinatore.

Basile lo aveva già fatto esordire nell’Albiceleste dei grandi. Si era trasferito in Europa, all’Atlético. A Novembre di quell’anno, quello della consacrazione, il 2007, segna anche il primo gol con la Selección, contro la Bolivia.

Cosa avrebbe potuto arrestare la sua rincorsa trascinante, irrefrenabile, verso la titolarità della maglia destinata al terminale offensivo? Cosa avrebbe impedito a Sergio Agüero di essere il centravanti più memorabile degli anni ‘10 del nostro secolo?

Per quanto possa sembrare banale, la calata demiurgica di un archetipo di nueve più calzante alla tradizione, vale a dire il “Pipita” Higuaín.

In quella finestra delle Nazionali che sarebbe cominciata pochi giorni dopo il nostro incontro a Parigi, Higuaín, al pari del Kun, non era stato convocato. C’erano Dybala e Lautaro Martínez, che nueve propriamente detti non sono, tanto quanto Agüero. Quando ho chiesto al Kun di parlare di Selección, casomai ne avesse avuto voglia, mi ha bloccato: «No». Poi ha aggiunto, un po’ rimasticandolo: «Di Selección è meglio che non parlo».

Il dualismo Kun-Pipita è l’hashtag sotto il quale può essere riassunto il dilemma sul ruolo di Agüero nel micromondo Selección, e in qualche modo è finito per diventare un mito fondativo della storia recente dell’Albiceleste. Si dice che il Kun non vedesse di buon occhio il Pipita per il suo aver deciso di non far parte della spedizione per il Mondiale Sub-20 in Canada: in quei tempi Higuaín aveva rifiutato anche una convocazione di Domenech, per la Francia, ma sembra si tenesse in caldo - anche - l’occasione di giocare per i Bleus. Di certo c’è che quando si è trattato di scegliere tra l’uno o l’altro, nella maggior parte dei casi i selezionatori dell’Albiceleste, da Batista a Sabella a Bauza a Sampaoli, senza soluzione di continuità, hanno finito per preferire Higuaín.

Una costante (Jean Catuffe/Getty Images).

Quando Diego Armando Maradona, nel 2008, ha assunto il timone della Nazionale, Agüero era già fidanzato con sua figlia, Giannina. Quattro mesi dopo l’esordio in Scozia del Diez, in cui Agüero non era neppure stato convocato, sarebbe nato Benjamin. Eppure neanche in quel frangente Agüero ha goduto, per quanto possa sembrare naïf pensare che potesse succedere, di un potenziale beneficio. Non necessariamente a favore di Higuaín - sul quale Diego si mostrava possibilista, ma non convinto.

«Sembra ci sia una proscrizione su di lui», scrivevano i giornali. Il fatto è che Diego aveva in mente, per la sua Albiceleste, un nueve classico, qualcosa che somigliasse, per capirci, a Martín Palermo. Nella naturale concatenazione degli eventi, una visione che avrebbe comunque portato Maradona a puntare sul Pipita come centravanti ai Mondiali sudafricani, anziché sul genero.

I rapporti, poi, si sarebbero guastati: già un anno più tardi, nel 2011, Diego avrebbe dato al Kun del «cagón», per ragioni che ovviamente trascendevano il campo. Allo stesso tempo, però, ne avrebbe difeso il suo status calcistico. Quando Batista disse che non era tra le sue priorità convocare Agüero per la Copa América che si sarebbe disputata in Argentina, Diego insinuò che si trattasse di una decisione di Julio Grondona: «Mi sembra che lo tengano in punizione», disse del Kun. A cosa era dovuta, quella proscrizione? Al fatto che fosse legato a Diego? Nemici ma, per quanto malvolentieri, in un rapporto di parentela? O forse Diego ci stava dicendo che nonostante fosse stato lui il primo a non dargli l’importanza che meritava - ma lui può permettersi di sbagliare, perché è d10s -, stavamo un po’ troppo sottovalutando il Kun?

Batista, alla fine, Agüero lo avrebbe convocato, per la Copa América: lo fece giocare tutto il tempo da esterno d’attacco, insieme a Higuaín. Il Kun ripagò segnando tre reti in quattro presenze. Ma la sensazione, in fin dei conti, era che giocasse fuori ruolo. Che non ne stessimo godendo appieno.

Uno dei suoi gol più belli con l’Albiceleste?

«Il Pipa e io lo sappiamo, che una volta tocca a me e una a lui. Dobbiamo farci trovare preparati. Anche se abbiamo ruoli diversi», dice il Kun durante la Copa América Centenario, nel 2016. «Io non sono un nove da area di rigore, sono più una seconda punta, non devo fare gol in ogni partita».

L’Argentina è reduce da due finali consecutive, entrambe perse: contro la Germania, nel 2014, nella finale del Mondiale brasiliano, il Kun è subentrato a Lavezzi nel secondo tempo. Ha condiviso il campo con Higuaín - che nel primo tempo ha sbagliato un gol clamoroso, e ne ha segnato un altro annullato per fuorigioco - per una mezz’ora scarsa. Contro il Cile, l’anno successivo, nella finale per la Copa América, si sono avvicendati. E Higuaín ha calciato alle stelle il suo rigore.

Gli argentini vivono questa costante rivalità tra i due non solo come uno snaturamento della propria natura filosofica (il nove non si sostituisce mai: avete mai visto Carlos Bianchi sostituire Palermo?), ma addirittura come un vero e proprio vilipendio. E alla fine della fiera, questa rivalità non ha giovato a nessuno dei due. Agüero, stabilmente ai margini, finiva per eclissarsi. Higuaín, sovraesposto, e pure sfortunato, per perdere regolarmente l’occasione di consacrarsi sbagliando, in ogni singolo momento topico, esattamente ciò che gli si chiedeva di non sbagliare.

Se questo colpo di testa del Kun non avesse incontrato l’opposizione eroica di Bravo, il destino di Agüero in Albiceleste sarebbe stato diverso?

Puntuale come le tasse, o la morte se preferite, il momento in cui un allenatore della Selección ha dovuto scegliere tra il Kun o il Pipita, insomma, è sempre arrivato, inevitabilmente. E che possa piacerci o meno, a renderlo ineluttabile è stata anche la presenza di Messi, la cui aura ha definito - in una maniera tutt’altro che lineare, o coerente - il destino di chi l’avrebbe dovuto affiancare.

Agüero è sempre stato, per la vulgata, il preferito di Messi. Compagni di stanza durante il Mondiale Sub20 del 2005, e durante la vittoriosa campagna olimpica di Pechino 2008, i due sono legati da un profondo e sincero legame di amicizia, che ciononostante non si è mai tradotto in un endorsement reale, e men che meno capace di concretizzarsi. «Se fosse vero che giocano sempre solo i suoi amici, allora non sarei stato così tante volte riserva», ha giustamente chiosato il Kun, che in fin dei conti delle 101 partite con l’Albiceleste è stato titolare in poco più della metà, ma soprattutto ha giocato tutti e novanta in minuti soltanto in un decimo delle sue presenze.

A partire da titolare, il più delle volte, è stato Higuaín che in una certa maniera - alquanto crudele, per la verità - può però anche essere definito l’uomo che ha negato a Messi, con i suoi errori fatali ai fini della vittoria, quei trofei che lo avrebbero consacrato a migliore di tutti i tempi.

Quello di Agüero, forse, al di là degli infortuni che hanno reso la sua esperienza con l’Albiceleste tribolata, è semplicemente stato un problema di asincronia: l’evoluzione, tutta votata all’efficienza, del Kun, avvenuta durante i suoi anni al City, che l’ha portato a sacrificare la giocata talentuosa sull’altare di una pragmaticità spietata, a diventare un calciatore la cui missione è improntata a segnare, non ha mai trovato in Nazionale una realizzazione che fosse concreta, e non solo potenziale.

Jorge Sampaoli, nel mondiale di Russia, è stato l’ultimo a provare con convinzione a investire su di lui, dopo essersi affidato nelle qualificazioni a Icardi, Alario, addirittura a un altro Pipa, Darío Benedetto. Contro l’Islanda il Kun ha segnato la prima rete argentina al Mondiale. Sembrava che fosse arrivato, finalmente, il suo momento. Poi, però, è tornato a fare la riserva di Higuaín, che lo ha sostituito già nel secondo match con la Croazia, ed è partito da titolare nella gara decisiva con la Nigeria.

«Nella storia della Selección non ti ricorderà nessuno», si è scagliato contro di lui il giornalista Martin Liberman, quando due anni dopo l’eliminazione, in una diretta Twitch, Agüero si è fatto beffe di Sampaoli. I rapporti, idilliaci, non lo sono mai stati, soprattutto in Russia. Ad essere davvero sinceri, pochissimi calciatori della rosa avevano affinità elettive con il loro tecnico. La relazione tra il Kun e Sampaoli si è interrotta al termine dello 0-3 contro la Croazia, quando alla domanda: «Sampaoli ha detto che i calciatori non hanno compreso il suo progetto, ed è stato un fallimento», il Kun si è guardato intorno, ha passato la lingua sulla parete interna della guancia, come chi si sta preparando a sputare per terra, o a sferrare un cazzotto, e poi ha risposto: «Diga lo que quiera», dica quel che vuole.

Quando la Selecció, infine, è stata affidata a Scaloni, Agüero si è dovuto trovare nella situazione di dover affrontare, e accettare, l’esplosione di Lautaro Martínez. Uno dei pochi nueve della storia recente del calcio argentino che gli somiglia. Ma che ha dieci anni di meno.

In un’altra diretta su Twitch, ultimamente, il Kun si è reso protagonista di un siparietto molto criticato in Argentina. «Lo sapevi che c’è uno… chi era?, uno che ha attraversato le Ande», raccontava a un suo amico spagnolo. Stava parlando del Generale José de San Martín, una dei padri dell’indipendenza argentina. «Il fatto è che nessuno l’ha visto, bisognerebbe vedere… perché io posso andarci no, mi scatto una foto, e la traversata la faccio in macchina. Mi metto in posa con il cavallo, mi faccio una foto e l’attraverso. In quell’epoca come fai a saperlo?». Il Kun non crede neanche se vede, stava mettendo in discussione uno dei miti fondatori dell’Argentina.

Cercando di essere meno demistificatori di lui forse possiamo chiederci se il Kun non sia stato un grande abbaglio, del quale anzi abbiamo fatto bene a titubare, bravi a non farci accecare; oppure al contrario se non sia stato la luce salvifica alla quale abbiamo opposto troppa resistenza, e dalla quale non ci siamo fatti - gli argentini, anzi, non si sono fatti guidare?

La legacy di Sergio Agüero è tutta ancora da costruire. Se non possiamo, e non dovremmo, pensare necessariamente al ritiro, allo stesso tempo se dovesse rientrare in campo potrebbe persino giocarsi le sue carte per la partecipazione al Mondiale qatariota. Chi può dirlo. Per il bene nostro, e del Kun, forse non dovremmo cedere alla tentazione del sentimentalismo rammaricato, almeno non ancora, e continuare piuttosto a nutrire la speranza di vederlo giocare ancora un po’. Nel suo Di chi sono le case vuote, Ettore Sottsass scrive: «Basta toccare le memorie con mani appena appena un po’ pesanti che si rompono da tutte le parti». E forse questo non è il momento per toccare con le mani pesanti memorie ancora piuttosto vivide, fresche, pulsanti, come quelle del Kun.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura