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Dario Ronzulli

Il rivoluzionario con il sorriso

Come Magic Johnson ha cambiato tutto ciò che è entrato in contatto con lui.

«Non credo che ci sarà mai più un altro playmaker di 206 centimetri che sorride
mentre ti sta umiliando»

James Worthy

 

La cravatta policromatica su sfondo scuro vorrebbe regalare un po’ di ottimismo, almeno secondo il pensiero di chi la indossa, ma è un tentativo vano. La sala stampa del Forum di Inglewood è gremita come non mai e, sebbene il motivo di quella conferenza sia già stato anticipato da alcuni media, la speranza che sia tutto un incubo è ancora fortissima. Quando l’uomo con la cravatta multicolore sale sul palco e si posiziona davanti ai microfoni, cala un assoluto silenzio rotto solo dai flash dei fotografi. Quell’uomo non è uno qualunque e per quanto si sforzi di sorridere non ci riesce, perché l’annuncio che avrebbe fatto da lì a poco non è una dichiarazione qualunque.

 

«A causa del virus HIV che ho contratto, mi devo ritirare dai Lakers. Voglio mettere in chiaro una cosa prima di tutto. Non sono malato di AIDS. Ho il virus HIV. Mia moglie sta bene. Ho intenzione di vivere a lungo, quindi mi avrete tra i piedi ancora per molto tempo […] A volte pensiamo che solo i gay possano prendere l’AIDS o che non possa succedere a noi. E invece eccomi qui e vi dico che può succedere a chiunque, anche a Magic Johnson».

 

Lo shock mondiale è enorme. Perchè Magic non è solamente uno straordinario giocatore di basket, non è solamente una stella dello sport a stelle e strisce, non è solamente un personaggio conosciuto e amato in tutto il globo terracqueo. È molto di più, è qualcosa che prima di lui non c’era mai stata, è un apripista nelle più svariate attività umane. A distanza di oltre 25 anni si può affermare che il 7 novembre 1991 – giorno dell’annuncio di cui sopra – sia una data che ha inciso nella storia e nel costume americano, e di riflesso mondiale: da quel momento l’AIDS non è stato più visto come una malattia esclusiva degli omosessuali e dei tossici e per questo non degna di attenzione. L’ignoranza sulla distinzione tra AIDS e HIV è pian piano sparita anche grazie agli sforzi di Earvin Magic Johnson e della sua fondazione, che nel corso degli anni si è dedicata anche ad altri progetti benefici. Magic ha saputo abbattere i pregiudizi verso i sieropositivi , rivoluzionando la comunicazione e l’informazione sul tema come mai nessuno prima di lui, usando la sua faccia e il suo carisma per sensibilizzare. E “rivoluzione” è la parola chiave per descrivere la sua vita e le sue gesta, sportive e non, sin dal momento in cui ha preso in mano una palla da basket per la prima volta. Sempre con un sorriso a 32 denti illuminante e coinvolgente.

 

It’s a kind of Magic

«Ragazzo, hai bisogno di un soprannome convincente. Voglio dire: sei forte, hai un futuro luminoso davanti. Quelli come te devono avere un soprannome migliore di ‘Buck’ – ti chiamano così, giusto? Che ne dici di ‘Magic’?». Il 15enne Earvin Johnson Junior osserva imbarazzato Fred Stabley, anche lui con un Junior dopo il primo nome e di lavoro cronista del Lansing State Journal, ma alla fine accetta. Quella sera è stato davvero magico: 36 punti, 18 rimbalzi e 16 assist per guidare la sua Everett High School all’ennesima vittoria. Mamma Christine, fervente religiosa, non avrebbe preso bene l’associazione di suo figlio alla magia, ma se ne sarebbe fatta presto una ragione. Per suo figlio accadrà quello che è successo a pochissimi eletti che hanno segnato la storia del proprio sport o che hanno messo nuovi paletti: il soprannome che diventa prima parte del nome anagrafico e poi lo sostituisce in toto quasi cancellandolo, come “Babe” Ruth.

 

George Fox, il coach della Everett, asseconda l’istinto del figlio di Earvin Senior a pensare pallacanestro in funzione della squadra, ad inventare nuovi modi di passare il pallone a compagni che spesso restano a bocca aperta sprecando la giocata del loro compagno più talentuoso. Fox prima, ma soprattutto Jud Heathcote – il coach del college di Michigan State scelto da Magic per proseguire la propria carriera – capiscono che tutto quel talento nel giocare per gli altri e quella sovrumana visione di gioco vanno indirizzate in maniera ben precisa: Magic Johnson, alto 206 centimetri, giocherà playmaker. Un ruolo che a stento aveva visto protagonisti oltre l’1.85 quasi di punto in bianco si ritrova a essere proprietà di uno alto e grosso come un lungo. Una vera rivoluzione.

 

Come marcare uno così? Larry Bird racconta in When the Game Was Ours – libro che gli appassionati avranno letto dalle dieci volte in su – che nella finale NCAA del 1979 tra la sua Indiana State e gli Spartans “il problema […] era che Magic era troppo alto per essere marcato da Nicks [una guardia] e troppo veloce per essere marcato da Miley [un’ala], e se i Sycamores avessero deciso di raddoppiarlo, Kelser o Vincent ne avrebbero approfittato”.

 

L’altra metà della luna

Già, Larry Bird. La nemesi di Magic. Nemici sportivi, rivali nel senso più profondo del termine. Uno estroverso e a suo agio sotto le luci dei riflettori; l’altro tranquillo e riservato per usare due eufemismi. Ma tutti e due proprietari di una incontrollabile voglia di vincere. La parola “odio” è fuori luogo anche negli anni precedenti all’estate del 1985, quando uno spot li costringe a stare nello stesso ambiente – la casa di Larry a French Lick, in Indiana – e a dialogare tra di loro, complice la squisita torta di mele di mamma Bird. Da quel momento il loro rapporto cambia, passando dal “semplice” rispetto all’amicizia che dura ancora oggi. Ma la rivalità sportiva quella no, quella non si sopisce. Ancora Larry Bird: «D’estate mi allenavo e facevo 700 tiri in sospensione al giorno. Mentre andavo via pensavo: “Dannazione, lui ne avrà fatti 800!” e tornavo indietro».

 

Magic, nella già citata autobiografia di coppia, dal canto suo ricorda: «Coach Fox mi raccomandava sempre di non considerare il mio talento come qualcosa di scontato. Mi diceva di non smettere di lavorare duro perché c’era qualcuno là fuori con il mio stesso talento che stava lavorando duro quanto se non più di me. Io annuivo ma pensavo che questo qualcuno non esistesse. [Poi] un giorno del 1978 […] in una palestra del Kentucky incontrai Larry Bird. Era lui quel tizio di cui parlava Fox».

 

La finale NCAA di cui sopra – vinta da Michigan State per 75-64 con Magic MVP – ha rappresentato il momento in cui tutti gli States si sono innamorati del Duello, creando di fatto una separazione netta ma sana: o si “tifa” per uno o si “tifa” per l’altro. La gara di college basket tutt’ora più vista di sempre toglie il torneo universitario dall’anonimato e consegna all’NBA i due che l’avrebbero portata a un livello mai visto prima.

 

C’è un’intensità pazzesca sin dalla palla a due, un ritmo vertiginoso figlio della rivalità tra le due giovani stelle che finisce per coinvolgere tutti. Terry Donnelly e Mike Brkovich si alternano nel portare il pallone nella metà campo avversaria ma il vero playmaker è sempre e comunque Magic, che ha la maglia numero 33. A fine partita Bird e Magic si incrociano per il saluto di rito ma si sfiorano appena. È solo l’inizio.

 

La rivoluzione sbarca a L.A.

Una monetina. Testa o croce. Il destino NBA di Magic passa da un lancio di spicciolo. Los Angeles Lakers e Chicago Bulls sono in lizza per il primo posto nel Draft del giugno 1979 e c’è bisogno di un sorteggio per stabilire chi debba piazzarsi davanti all’altra. Il GM dei Bulls, Rod Thorn, e l’allenatore Jerry Sloan in caso di vittoria hanno un solo nome in testa, quello di Magic Johnson. In casa Lakers, invece, il GM Jerry West ha altre idee, che vanno da Moncrief a Greenwood. Ma Jerry Buss, che in quei giorni sta per completare l’acquisto del club, si impone: “O scegliete Magic o la squadra non la compro”. Testa o croce, dunque. I tifosi Bulls partecipano a una campagna pubblicitaria indetta dal club e scelgono testa. Esce croce. Johnson va in California a fare la storia.

 

«Questo non si sente una guardia, questo è una guardia». Al secondo allenamento del Training Camp Jerry West si convince che il suo nuovo boss ci aveva visto lungo. Magic non è molto atletico, non ha nessun tipo di pericolosità nel tiro oltre i 5 metri ma passa la palla come nessun altro prima di lui, da un’altezza e con una velocità di pensiero mai viste prima. Kareem Abdul-Jabbar, il centro nevralgico di quei Lakers, entra subito in sintonia cestistica con il nuovo arrivato: non ha ancora vinto un anello a L.A. e intuisce che quel ragazzino così sfacciato, perennemente con il sorriso stampato in faccia, irruento e pieno di adrenalina può dargli una mano, forse anche due.

 

Fast Forward. Kareem sta dominando la finale NBA del 1980 contro i Philadelphia 76ers, che a loro volta rispondono con un Julius Erving capace di canestri irreali per qualsiasi comune mortale. In gara-5, però, al 33 gialloviola si gira la caviglia alla fine del terzo quarto: gioca sul dolore segnando 11 punti, ma in gara-6 proprio non ce la può fare a scendere sul parquet. Tutti pensano che senza il Capitano sarà durissima ed è un momento di grande difficoltà emotiva prima ancora che tecnica. Ai Lakers servirebbe un leader, uno capace di prendersi la squadra sulle spalle, uno senza paura, un iniziato del Gioco. Coach Westhead sa a chi affidarsi.

 

«Don’t fear, number 32 is here». Non vi preoccupate: il n. 32 è qui con voi, dice Magic ai compagni sull’aereo per Philadelphia mentre prende il posto lasciato vuoto da Kareem, quello riservato ai super veterani per intenderci. Non lo sostituirà solo su quella poltrona.

 

Nell’intervista pre-gara al giornalista della CBS che chiede conferma del fatto che giocherà da centro, Magic sorride come sempre e dice: “Mi divertono le sfide e quella di stasera è una sfida: vediamo cosa potrò fare”. Farà abbastanza, in effetti.

 

Dire che Magic gioca quella gara da centro è riduttivo: è semplicemente ovunque. Difende anche sul pivottone avversario Darryl Dawkins – visto e ammirato in Italia a Torino, Milano e Forlì -, domina a rimbalzo, gestisce i possessi. E segna, segna, segna. Per citare Federico Buffa: «Magic gioca la prima e credo l’ultima partita della storia da point-center-forward-guard». Il tabellino finale recita 42 punti, 15 rimbalzi, 7 assist e 3 palle rubate, più l’NBA Finals Most Valuable Player Award vinto da rookie.

 

Non vi viene in mente nessun altro che ci sia riuscito? Normale: non c’è mai stato. Avete bisogno di un momento ben definito per segnare l’inizio dell’Era dei giocatori versatili in grado di fare di tutto sul parquet, quelli che di fatto dominano oggi? Beh, Magic ve ne dà uno, e pure bello grosso.

 

La rivalità che trascina l’NBA

Quella partita fu trasmessa negli Stati Uniti in maniera quasi clandestina. La NBC la mandò in differita perché all’epoca l’NBA faceva meno ascolti – e quindi attirava meno spot – delle repliche della serie televisiva “Dallas”… Un altro mondo davvero. Ma se siamo arrivati ai diritti tv pagati 24 miliardi di dollari per nove anni è perché tra le braccia del commissioner David Stern, salito in carica nel 1984, sono piovuti dal cielo quei due ragazzi così diversi e così simili. Magic contro Bird è stato il toccasana per una NBA che stava deragliando tra i problemi di droga al suo interno e un gioco che non attirava grandi folle, nonostante l’introduzione di alcune “modernità” come il tiro da tre preso dalla defunta ABA.

 

Per il talento che avevano, per il modo in cui non si sono mai tirati indietro dal lanciare frecciate all’altro, per gli opposti che rappresentavano – a volte presentati in maniera forzata, ma innegabilmente efficace – Magic e Bird diventarono in maniera rapidissima l’emblema del basket tout court, lanciando l’NBA a livello mondiale e aprendo la strada che Michael Jordan dopo di loro avrebbe portato a vette sublimi. Parafrasando Salman Rushdie: Magic e Bird combattono per lo stesso territorio. Anche se devono aspettare cinque stagioni prima di trovarsi di fronte per la conquista definitiva.

 

Lakers e Celtics sono presenze costanti nelle Finals NBA, ma non l’una contro l’altra. Los Angeles dopo il titolo del 1980 ne vince un altro nell’82 e perde l’atto conclusivo l’anno dopo, sempre affrontando Philadelphia. Il tutto all’insegna dello Showtime, una filosofia e uno stile di vita prima ancora che una tattica: l’arrivo di Pat Riley sulla panchina dopo l’esonero di Paul Westhead permette a Magic di dare libero sfogo al suo istinto e alla ricerca forsennata del contropiede, con i ritmi altissimi a lui decisamente congeniali. Boston, invece, di finali ne gioca una sola nel 1981 contro Houston, vincendola, ma non riesce più a tornarci nei due anni successivi. Nel 1984 i tempi sono finalmente maturi per la sfida che tutti gli Stati Uniti aspettavano, tv e sponsor in primis: Lakers contro Celtics, Magic contro Bird.

 

Quella Finale, la prima, rappresenta uno dei momenti più difficili della carriera sportiva di Magic. In gara-2 sbaglia un passaggio cruciale – un evento più unico che raro – e non si accorge del tempo che sta per scadere: non tira, si va ai supplementari, e vincono i Celtics. In gara-4, quella del placcaggio al collo di McHale a Rambis, Magic chiude con una tripla doppia ma fa 0 su 2 ai liberi nel momento cruciale del supplementare, e vincono i Celtics. In gara-7 infine, dopo una rimonta da -14 Johnson si fa rubare palla dal Johnson biancoverde, Dennis, a un minuto dalla fine: è l’azione che di fatto regala il titolo a Boston e il premio di MVP a Larry Bird. Vincono ancora i Celtics.

 

“Tragic Johnson” è il titolo utilizzato da molti giornali la mattina dopo. Magic passa la notte praticamente insonne guardando i festeggiamenti del rivale insieme ai suoi grandi amici Isiah Thomas e Mark Aguirre. È il suo modo di flagellarsi per gli errori commessi, per il modo in cui non è stato padrone della situazione per la prima volta nella sua vita. Ma è Magic e ha un solo modo per reagire: allenarsi di più, lavorare di più, sudare di più.

 

Magic il vincente

La stagione seguente è una Missione continua per Johnson e compagni. E alla fine della stagione eccoli di nuovo lì, in finale ancora contro Bird e i Celtics. Gara-1 è un massacro, anzi, il Massacro del Memorial Day: Boston rulla L.A. e vince 148-114. Ma Magic è in Missione, l’abbiamo detto. I Lakers si rialzano da quella batosta e chiudono la serie 4-2 vincendo la gara decisiva in trasferta. In un colpo solo Magic e i suoi sodali riescono in due imprese: mai i Lakers avevano battuto i Celtics in finale; mai nessuna squadra aveva vinto il titolo al Boston Garden.

 

Se nel 1986 Houston si mette in mezzo ed elimina i Lakers in finale della Western Conference, perdendo poi l’atto conclusivo contro Boston, nel 1987 Magic e Bird ormai amici tornano a sfidarsi per il Larry O’Brien Trophy. La serie gira nei secondi finali di gara-4 con L.A. avanti 2-1. Sette secondi da giocare, Lakers sotto di 1 e con la rimessa nella metà campo avversaria: Magic riceve sul lato sinistro, temporeggia giusto un attimo per leggere la situazione, attacca McHale in palleggio e si butta nel pitturato procedendo parallelo alla linea di fondo. Quando la difesa collassa su di lui è troppo tardi: Magic ha già iniziato l’unico movimento di tiro possibile in quella situazione con il canestro esattamente alla sua sinistra. La palla esce morbidissima dai polpastrelli e pur senza troppa parabola finisce dritta dritta nella retina. Un canestro che passa alla Storia del Gioco come The Junior Sky-Hook. «Ti aspetti di perdere per un gancio cielo: quello che non ti aspetti è che a farlo sia Magic» dirà poi Bird, che nell’azione successiva vede il proprio tiro sputato in malo modo dal ferro. Los Angeles va sul 3-1 e chiuderà la serie in gara-6. Magic è ancora Campione.

 

«È un grande, grande giocatore di pallacanestro. Il migliore che io abbia mai visto. Incredibile»

 

Quella dell’87 fu l’ultima finale della trilogia contro Bird, ma non l’ultima in assoluto per Magic. C’erano altri rivali da affrontare e da sconfiggere. Isiah Thomas per esempio, con il quale Johnson fece il percorso inverso rispetto a Bird: da grande amico ad acerrimo nemico, qui davvero con odio profondo. L’episodio scatenante avviene in gara-4 delle Finals ‘88: i Pistons di Thomas sono i “Bad Boys”, giocano sporco, spesso oltrepassando il limite del consentito e del trash talking. Nell’ultimo quarto di quella partita Detroit è avanti ma questo non gli impedisce di continuare a giocare come sa: Magic viene atterrato da due avversari e decide che qualcuno deve pagare. Non qualcuno a caso: il suo amico Isiah. Prima di ogni gara i due si erano scambiati un bacio sulla guancia a testimoniare la loro amicizia fuori dal campo: un gesto non visto di buon occhio dai rispettivi compagni. Magic in un colpo solo si vendica e manda un messaggio ai suoi. Colpo in senso letterale: mentre Thomas va in penetrazione, Johnson lo abbatte duramente. Fine della loro amicizia, inizio della cavalcata verso il quinto titolo conquistato in gara-7.

 

Quinto e ultimo titolo, peraltro. Magic arriva ad altre due finali e le perde entrambe, nell’89 ancora contro i Pistons e nel ‘91 contro i Chicago Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen, che lo marca e lo cancella dal campo. Magic ha 32 anni, fisicamente è ancora al top ed è ancora capace di dispensare il suo basket fatto di passaggi irreali per tutto il resto del mondo ma non per lui. Ha anche migliorato sensibilmente il suo tiro da fuori per diventare la prima arma offensiva dei Lakers, complice il ritiro di Kareem. Il ritiro sembra lontano. Sembra.

 

In cima alla lista delle persone da avvertire prima della conferenza stampa non poteva che esserci Larry.

 

La seconda e la terza vita in campo

È sempre stato difficile tenere Magic lontano dai parquet. Dopo il primo ritiro del novembre ‘91, torna a giocare letteralmente a grande richiesta dei tifosi che ne fanno il giocatore più votato per l’All Star Game del ‘92. Dà spettacolo e quando riceve il titolo di MVP dice: “Gioco per me stesso e per tutti quelli che sono malati o hanno un handicap e vogliono continuare a vivere”. In estate va a Barcellona a vincere l’oro olimpico con l’unico, vero, originale ed inimitabile Dream Team, per cambiare per sempre la percezione della pallacanestro al di fuori dei confini statunitensi.

 

Ma la favola è troppo bella per poter durare. Alla vigilia della stagione 1992-93 il dibattito tra i giocatori è apertissimo: e se Magic si ferisce e perde sangue? Che succede? Ci ammaliamo tutti? Johnson non se la sente di giocare in quelle condizioni, vedendo la paura negli occhi degli altri. È il suo secondo ritiro, ma non quello definitivo. Dopo una parentesi da allenatore dei Lakers perché Jimmy Buss glielo chiede in ginocchio, il 30 gennaio 1996 torna ancora in campo. È ingrassato, gioca ala forte ma le mani sono quelle, la testa è quella. Soprattutto nessuno ha più paura di affrontarlo, nessuno ha più paura del suo essere malato. È probabilmente la sua più grande vittoria, la sua più grande rivoluzione.

 

La rivoluzione ovunque vada

Magic è un rivoluzionario con il sorriso anche quando si parla del suo post-carriera. Mentre gioca ed è all’apice guarda avanti, oltre la breve vita dell’atleta, per non ritrovarsi senza un soldo come troppi giocatori prima di lui. Già nel 1987 fonda la “Magic Johnson Enterprises”, ancora oggi proprietaria delle più svariate attività commerciali in giro per gli States, dalle catene di ristorazione alle multisala. Parla con CEO di grandi aziende, studia marketing, incontra uomini d’affari, cerca di capirne il più possibile, ben conscio di rappresentare un marchio globale capace di generare milioni e milioni se ben strutturato.

 

Ma chi davvero ha inciso sul suo background affaristico è Jerry Buss, per il quale Magic era davvero uno della famiglia, come sarebbe diventato chiaro successivamente. Come ha scritto Bill Plaschke sul Los Angeles Times: “Buss ha dato a Johnson il coraggio di diventare un giocatore da Hall of Fame e un uomo d’affari; Johnson ha dato a Buss l’ispirazione a diventare un proprietario da Hall of Fame e un visionario”. Buss non ha solo voluto fortemente Magic dandogli un contratto mai visto prima, ovvero 25 milioni di dollari per 25 anni: l’ha preso sotto la propria ala protettiva, gli ha fatto vedere cosa potesse offrire Hollywood e la California, ha fatto dei Lakers e di Johnson uno stile di vita prima ancora che una squadra. Ma soprattutto lo ha indirizzato verso una mentalità da uomo d’affari che Magic possedeva in modo latente e che non aveva sviluppato. «Without Dr. Jerry Buss, there is no Magic» è la perfetta sintesi che fece lo stesso Earvin il giorno della morte del boss.

 

Anche nel discorso di commemorazione del suo mentore Magic non rinuncia al sorriso e alla battuta. Ed è giusto così.

 

Come nel basket, anche negli affari Magic ha dovuto affrontare delle sconfitte, ovvero imprese fallimentari: un negozio di articoli sportivi è fallito dopo un anno e il suo show televisivo “The Magic Hour” sulla FOX venne cancellato dopo due mesi nel ‘98, anche se nel complesso il bilancio è ultra-positivo. Non potevano mancare poi investimenti nello sport: dal 2012 Magic, insieme ad altri soci, è proprietario dei Los Angeles Dodgers del baseball, usciti sconfitti dalle World Series 2017 per mano degli Houston Astros al termine di una delle loro migliori stagioni di sempre. Dal 2014 Johnson è anche nella cordata che controlla le Los Angeles Sparks: da presidente si è potuto fregiare del titolo WNBA del 2016. Obiettivo che ovviamente spera di ripetere da presidente dei Lakers, l’attività che lo occupa in questo momento

 

In carica dal 21 febbraio un mese dopo il suo rientro in società come consigliere speciale, Magic è stato chiamato in causa da Jeanie Buss nel tentativo di riportare agli antichi fasti una franchigia che negli ultimi anni si è trasformata in una barzelletta che non faceva ridere nessuno (avversari a parte). E non si parla solo di rendimento della squadra sul campo: Magic ha iniziato a mettere mano a tanti livelli che negli ultimi anni erano stati abbandonati al loro amaro destino, come ad esempio la sezione analytics. Serviva una rivoluzione ai Lakers, oltre che un uomo conosciuto visto che la franchigia è sempre stata trattata come un affare di famiglia. L’uomo giusto non poteva che essere lui.

 

Prima e dopo Magic

C’è stata una NBA prima di Magic e dopo Magic; c’è stato il playmaker prima di Magic e dopo Magic; c’è stata il post carriera dei giocatori prima di Magic e dopo Magic; c’è stata la comunicazione sull’AIDS prima di Magic e dopo Magic. Sempre andando in contropiede, sempre dando spettacolo, sempre ribaltando i luoghi comuni. In qualunque cosa si sia cimentato, il nativo di Lansing, Michigan ha preso ciò che era stato fatto da altri, l’ha rimodellato mettendoci tutto se stesso e l’ha consegnato al mondo con il messaggio “Da oggi, cari miei, si fa così”.

 

Esattamente quello che fa un rivoluzionario.

 

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.