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Le barricate del calcio italiano
25 mar 2021
25 mar 2021
Non riusciamo a schiodarci dalle posizioni più conservatrici.
(articolo)
8 min
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Mercoledì scorso la Lazio, l’ultima squadra in lizza per la qualificazione ai quarti di Champions League, è stata eliminata dai campioni in carica del Bayern Monaco. In Europa League a rappresentare l’Italia ci sarà soltanto la Roma di Paulo Fonseca, unico allenatore in Serie A che proviene da una scuola tattica diversa dalla nostra.

Com’era prevedibile, dai salotti televisivi e dalle pagine dei giornali si è alzato un coro unanime di indignazione per lo stato del calcio italiano. Ognuno ha proposto la propria ricetta per rifondare il calcio, lo ha fatto anche il Corriere dello Sport che sulla prima pagina di giovedì 18 marzo ha chiosato: «Guardiola ci ha fatto soltanto del male». A un primo sguardo non era chiaro perché fosse stato tirato in ballo l’allenatore catalano che, mentre l’Atalanta veniva eliminata dal Real Madrid, a Manchester guadagnava i quarti in scioltezza battendo il Borussia.

Nelle pagine interne, i cinque panelist tirati in causa dal CdS – Beccantini, Bortolotti, Cucci, Polverosi, Sconcerti, 63 anni il più giovane, 85 anni il più anziano – insistono su un solo concetto: eravamo i migliori in un solo tipo di gioco, quello all’italiana. Oggi il calcio è in balia dei tecnici “esteti”, “copioni”, “contaminati” da idee che non ci appartengono per tradizione e cultura. La colpa di Guardiola, secondo Sconcerti, è “che ci ha costretti a pensare”. Un tipo di critica molto simile a quella che Brera faceva alla Nazionale italiana mezzo secolo fa, quando invitava a non imitare i brasiliani. Dalle pagine del CdS trasuda un revanscismo violento, che non ha niente di nostalgico. La scelta dei panelist non è stata fatta per alimentare un confronto sul rinnovamento nel calcio, è anzi una precisa scelta editoriale per affondarlo in partenza.

A Manchester, nel post-partita di City-Borussia, è andato in onda un esempio virtuoso di giornalismo sportivo. Sollecitato da Gary Lineker, ex centravanti e ora conduttore televisivo, Guardiola ha spiegato perché Joao Cancelo, nominalmente un terzino, in fase di possesso stringe la propria posizione fino ad agire da vero e proprio regista davanti alla difesa.

Un giocatore più stretto, che dà maggiore protezione alla zona centrale del campo, offre più garanzie al Manchester City in caso di perdita di possesso e ripartenza degli avversari. Inoltre, per le sue caratteristiche, Cancelo può giocare molti passaggi corti con i giocatori vicini, con il minimo rischio. «Noi ci difendiamo con la palla,» ha detto Guardiola, aggiungendo: «Se controlliamo il gioco, le occasioni poi arrivano».

Due particolari del discorso di Guardiola saltano agli occhi. Il primo è che gli allenatori, tutti, parlano volentieri di calcio quando gli si fa una domanda relativa al campo, quando si evita di chiedere loro di commentare intrighi di palazzo, scandali arbitrali o pruriginosi particolari della vita pubblica o privata dei propri calciatori. Il secondo è che gli allenatori di élite sanno perfettamente che non possono ottenere le stesse cose da tutti i propri calciatori. «Mendy è uno di quei terzini che deve stare largo in fascia»: al terzino francese Guardiola non impone un ruolo che non saprebbe ricoprire.

Guardiola con un solo esempio ha smontato uno dei capisaldi dei dibattiti televisivi e degli articoli di carta stampata nostrani, cioè che gli allenatori come lui, i cosiddetti giochisti, sanno solo imporre ai giocatori le proprie idee. Se i calciatori non si piegano agli allenatori, questi semplicemente se ne disfano. Addirittura preferiscono insistere fino a rischiare la sconfitta, pur di tenere il punto. O almeno questa sembra essere la critica rivolta agli allenatori che non sostengono che il calcio è semplice. Non è il solo Guardiola a ragionare in questo modo, per esempio Tuchel ha spiegato con parole diverse lo stesso concetto: i giocatori sono al centro del processo. Viene quasi il sospetto che il dibattito calcistico italiano sia diventato talmente autoriferito, che gli allenatori non li ascolta più nessuno per davvero.

Il quotidiano La Repubblica, sul proprio sito, ha montato una clip dell’intervista di Guardiola con Lineker, una di quelle acchiappa-click da colonna di destra. La didascalia era: «Guardiola e l’ossessione per il possesso palla». Il possesso palla non è mai stato un tema, se non in Italia. Il possesso palla è visto dagli allenatori come uno strumento, e alla stessa stregua sono visti i moduli. Domenica scorsa Gasperini è stato esaltato per aver disorientato il Verona con un cambio modulo, è passato dal consueto 3-4-2-1 all’inedito 4-2-3-1. In realtà l’Atalanta ha giocato e vinto secondo i propri princìpi, da cui non deroga mai, finendo per attaccare e difendersi come fa sempre, al di là dello specifico strumento, il modulo, adottato per l’occasione. Se i bergamaschi avessero perso la loro partita, c’è da scommetterci che qualche commentatore avrebbe puntato il dito contro il cambio di modulo. Perché sottomettere ogni valutazione al risultato?

Nel salotto del Club di SkySport, Massimiliano Allegri ha esposto la sua visione del calcio. Più che le dichiarazioni dell’allenatore, a me hanno fatto più effetto alcune dichiarazioni collaterali. Per aiutare i ragazzi a farsi le ossa, Allegri proponeva di inserire una quota obbligatoria di giocatori Under 15 nelle rose delle squadre che partecipano al Campionato Nazionale Dilettanti, o in alternativa di iscrivere a questa competizione una rappresentativa dei migliori U15 nazionali. Luca Marchegiani, ex portiere della Nazionale, ha detto che una scelta del genere abbasserebbe troppo il livello della competizione. Cioè, in pratica, per non pregiudicare i risultati non si accetta che si sacrifichi neanche il dilettantismo sull’altare della formazione e della crescita dei giovani. Ci meravigliamo se questo movimento, quando ha messo mano alla riforma dei campionati Primavera, ha introdotto le retrocessioni, che non hanno fatto altro che forzare le squadre a giocare di più per il risultato, per rischiare di meno rispetto a una proposta formativa differente?

Marchegiani ha anche dato una sua spiegazione dello scarso impiego dei ragazzi migliori nelle prime squadre di A e di B. Ha detto che in un calcio iper-tattico come il nostro (e quando si dice “tattico” si intende iper-difensivo, non è che all’estero non ci sia tattica), l’equilibrio delle partite si decide su pochi episodi, e nella gestione degli episodi i giovani tradiscono. Per questo gli allenatori scelgono giocatori esperti, e i giovani marciscono in panchina. Se questo calcio non è formativo, e non consente errori ai ragazzi, perché non lo cambiamo?

In ogni occasione buona, ormai non soltanto nel commento post-partita, a volte anche durante la telecronaca, si mettono in croce le squadre che costruiscono dal basso. Gli allenatori, che ai microfoni continuano a spiegare che i benefici di questa specifica situazione di gioco sono superiori ai rischi che si corrono, sono sbertucciati dagli opinionisti. Nel frattempo a nessuno viene in mente di congratularsi con gli avversari: si notano gli errori di Bentancur e di Sportiello, ma perché nessuno dà i giusti meriti al Porto e al Real Madrid per aver provocato quegli errori attraverso il pressing alto?

Le analisi vanno in un’unica direzione, quella difensivista. Un’Atalanta meno bella – qualunque cosa voglia dire – avrebbe dato del filo da torcere al Real, che comunque ha passato il turno perché si è difeso meglio, come ha scritto qualcuno. Vincenzo Italiano è un ottimo tecnico che ha saputo creare un'identità tattica precisa nonostante una delle rose più larghe, quindi difficile da gestire, e inesperte della Serie A. Ciononostante gli viene continuamente rimproverato che, se solo si snaturasse, vincerebbe di più. Ma è grazie a Italiano che lo Spezia ha Matteo Ricci in Nazionale maggiore e Marchizza, Maggiore e Pobega in Under 21. Per la sua società l’allenatore ha generato valore, contribuendo alla rivalutazione del parco giocatori, perché mai dovrebbe snaturarsi? Davvero se lo Spezia dovesse alla fine retrocedere, cambierebbe la nostra opinione sul lavoro di Italiano?

L’ipocrisia di fondo che inquina il dibattito non è alimentata solo dai media. Il calcio italiano sta combattendo una battaglia di retroguardia in ogni sua componente, a partire dai club. Ma negli anni di crisi, l’unica salvezza è l’innovazione. Non è una regola di consuetudine, è una legge di natura: in ogni ambito umano, chi lotta per la sopravvivenza o cambia o muore. Il calcio italiano è nel suo anno più nero, in cui vengono a mancare i ricavi dello stadio, in cui il prodotto confezionato dalle TV non attira nuovi spettatori, anzi ne perde di vecchi. Piuttosto che investire in strutture, applicare nuovi strumenti nelle metodologie di lavoro, introdurre nuove professionalità, il calcio sembra chiudersi in se stesso, ricorrere a vecchi schemi e a vecchie idee.

Si continuano a inseguire campioni imbolsiti dagli ingaggi multimilionari, si assemblano le squadre assortendo male giocatori presi solo perché disponibili a parametro zero. La costruzione di una squadra vincente in Italia è diventata come la soluzione del cubo di Rubik da bendati: può anche capitare di imbroccare la combinazione vincente, ma fino ad allora non ci si andrà neanche vicino. Vincere è un processo che coinvolge ogni singola componente di una società di calcio, è l’output di una serie di azioni tutte coordinate tra loro e strette intorno ad una singola visione condivisa. Dal presidente ai magazzinieri per davvero.

È tempo di ammettere che nel calcio degli anni ‘20 di questo secolo, la vittoria non è il frutto di un guizzo di creatività e di intuizione. È l’oggetto di una programmazione studiata a tavolino e applicata costantemente giorno dopo giorno. È un discorso che vale per le Nazionali, infatti la FIGC ha dimostrato di averlo compreso e di aver intrapreso una strada di rinnovamento che non sarà facile da percorrere, è ora che lo capiscano anche i club. Tutti i club, nessuno escluso. Non basta fare sistema, è il modo in cui il sistema stesso è concepito che deve cambiare.

Sarebbe stata una rivoluzione facile da fare, in un anno senza tifosi allo stadio, in cui le società in fondo avrebbero avuto mano libera, senza il timore di deludere chi pagava il biglietto. La crisi del calcio italiano 2020/21 si sta invece rivelando l’ennesima occasione perduta.

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