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Le 4 piaghe della crisi della Roma
02 mar 2018
02 mar 2018
Le ragioni tattiche dietro la crisi di risultati della squadra di Di Francesco.
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Per i tifosi romanisti è diventata una triste abitudine, quella di dover affrontare un momento della stagione in cui le premesse iniziali, più o meno grandi, finiscono in un vicolo cieco e gli obiettivi annuali scivolano via come sabbia tra le dita. Lo scorso marzo, il mese terribile della seconda gestione di Luciano Spalletti, la Roma compromise quasi tutti gli obiettivi stagionali in una manciata di partite; l’anno precedente ancora, a un buon avvio seguì un crollo drammatico dei risultati che portò all’esonero di Rudi Garcia. Quest’anno la storia si sta ripetendo quasi uguale, in un contesto generale di risultati persino peggiori.

 

Dopo un inizio difficoltoso, in cui la Roma doveva ancora assorbire i principi di gioco del nuovo tecnico, la squadra di Eusebio di Francesco

, grazie ad una compenetrazione maggiore tra l’impalcatura tattica e le qualità di alcuni dei suoi giocatori migliori (Nainggolan e Perotti su tutti), culminati in uno stupefacente primo posto nel girone di Champions composto, oltre che dal Qarabag, da Chelsea e Atletico Madrid. Le cose hanno iniziato ad andare per il verso sbagliato intorno alla metà di dicembre, con la striminzita vittoria ottenuta in casa contro il Cagliari all’ultimo secondo. Nella partita successiva è arrivata l’eliminazione in Coppa Italia per mano del Torino di Mihajlovic, e da lì in avanti una striscia di partite scadenti in campionato, con appena tre vittorie (contro Benevento, Verona e Udinese) nelle ultime dieci giornate. La ciliegina sulla torta, si fa per dire, è la recente sconfitta con il Milan di Gattuso, arrivata solo pochi giorni dopo quella in Champions League contro

.

 

A Roma si cerca di razionalizzare questo ciclico scioglimento delle ambizioni attribuendone la colpa a agenti esterni: l’ambiente, la piazza, le radio private, la città, la preparazione fisica, il carattere dei giocatori (tutti?): sono tutti mostri mitologici del tifo romanista su cui si discute da decenni. Per capire i toni del dibattito basterà

le parole di Fabio Capello, che un paio di anni fa, commentando il crollo della squadra di Garcia, descrisse la città come «una piovra che ti prende e poi ti addormenta […] che non ti accorgi che ti sta prendendo la mano, che ti coinvolge, che ti porta via tutto».

 

Se però escludiamo l’ordine del metafisico, e ci atteniamo esclusivamente ai dati osservabili che abbiamo a disposizione, siamo costretti a parlare di ciò che vediamo in campo. Per riportare il dibattito sul piano dell’esperienza tangibile (per lo meno per chi, come noi, non frequenta lo spogliatoio e i salotti di casa dei diversi protagonisti) abbiamo isolato quattro sintomi del disfacimento tattico della Roma. Le quattro piaghe che affliggono la squadra di Di Francesco.

 



Partiamo dal più superficiale e visibile dei problemi di una squadra: non riuscire a fare gol. Un calo di questo tipo è evidente anche senza l’ausilio di statistiche particolarmente approfondite: l’anno scorso la Roma chiuse il campionato con il secondo attacco, dietro solo al Napoli, con 2.37 gol segnati a partita; quest’anno è solo al sesto posto per gol segnati, con una media partita scesa a 1.54.

 

Quello della Roma è un problema in primo luogo realizzativo: non trasforma le occasioni create in gol. L’anno scorso la Roma si piazzò al primo posto nella classifica degli Expected Goals creati (70.9), andando addirittura oltre le aspettative in termini realizzativi, riuscendo a trarre ben 76 gol in totale (come sempre in questo tipo di analisi escludiamo rigori e autogol). Questo significa che la squadra di Spalletti segnava 1.07 gol per ogni xG creato.

 

Quest’anno, invece, la Roma produce molto, è seconda nella classifica degli Expected Goals creati (41.8, dietro solo al Napoli), ma i gol segnati per xG sono diventati 0.84, andando ben al di sotto le aspettative (i

realizzati dalla Roma in totale sono appena 35). Solo il Genoa e il Sassuolo riescono a fare peggio nel trasformare le proprie occasioni in gol in Serie A.

 

Incide ovviamente la sostituzione (mancata in termini puramente realizzativi) di Salah che, come stiamo vedendo ancor di più

, porta con sé una dote di gol e assist difficilmente rimpiazzabile. Defrel e Schick, per problemi fisici e di resa sul campo, non si sono finora dimostrati all’altezza del compito, e solo l’esplosione tardiva di Cengiz Ünder è riuscita a far dimenticare, solo nelle ultime giornate, la partenza dell’egiziano.

 

La punta dell’iceberg di questo problema, però, rimane Edin Dzeko. L’attaccante bosniaco è un’enorme fonte di gioco offensivo: così come l’anno scorso, anche in questa stagione stacca tutti gli altri attaccanti della Serie A per Expected Goals creati. Ma quest’anno fa molta più fatica a trasformare in gol: se l’anno scorso in campionato Dzeko aveva ricavare 28 gol da 28.1 xG, quest’anno sta deludendo le aspettative, segnando solo 11 gol dai 13.1 xG creati. Per capire l’entità del problema, basterà confrontarlo all’attuale capocannoniere di Serie A, Ciro Immobile, che ha 16 gol (esclusi i rigori) da 9.8 xG. Il calo di Dzeko è diventato ancora più evidente a partire dal 2018, dopo il lungo mese di gennaio in cui è sembrato in partenza per Londra fino all’ultimo giorno di mercato.

 



Com’era prevedibile ad inizio stagione, Eusebio Di Francesco ha cercato di esportare a Roma uno dei suoi marchi di fabbrica, cioè i triangoli tra terzino, mezzala e ala sui corridoi laterali per risalire il campo e arrivare in porta nella maniera più verticale e veloce possibile. Nelle sue intenzioni, l’azione dovrebbe partire da un possesso lento e orizzontale tra i quattro difensori in linea, passare per il terzino per attirare il pressing avversario e liberare spazio alle spalle della linea di pressione avversaria. A quel punto la mezzala e l’ala sul lato del pallone fanno movimenti opposti: la prima va sull’esterno per portarsi dietro il marcatore di riferimento e liberare la linea di passaggio verso l’ala, che invece si piazza nel mezzo spazio (a volte mezzala e ala si scambiano i movimenti). Una volta sull’esterno la mezzala attacca la profondità in ampiezza, continuando il movimento.

 

Il funzionamento di questi triangoli si era fin da subito scontrato con le caratteristiche delle mezzali titolari della Roma, con Strootman e Nainggolan che facevano molta fatica a compiere un lavoro che non sentivano loro. Le cose sono andate leggermente meglio con Pellegrini, che era cresciuto a Sassuolo all’interno di questi meccanismi, e che aveva replicato con successo in alcune partite, come quella

.

 

Ma al di là delle caratteristiche tecniche degli interpreti, sono gli stessi triangoli di fascia a rappresentare un ostacolo alla circolazione del pallone della Roma, soprattutto quando l’avversario non si disordina in verticale per pressare la prima impostazione e la circolazione bassa non è abbastanza veloce. Quando l’avversario difende lo spazio, mantenendo la sua struttura difensiva, schermando le linee di passaggio tra le linee con gli scivolamenti in orizzontale, la Roma non ha alcuno sbocco per far avanzare il pallone, continuando a far circolare il pallone da una parte all’altra della difesa.

 


In questo caso all’Inter non serve nemmeno essere troppo compatta: bastano Gagliardini e Perisic per schermare la linea di passaggio verso Pellegrini. Florenzi potrebbe andare in verticale su El Shaarawy, che però è pressato alle spalle da Santon, o andare lungo su Dzeko (sceglierà la seconda opzione, perdendo palla e scatenando la transizione dell’Inter).


 

A un certo punto il terzino in possesso ha solamente due opzioni per far progredire l’azione: andare in verticale per la mezzala davanti a sé (con il limite che però questa riceverà spalle alla porta, chiusa frontalmente la linea del fallo laterale) o cercare il lancio lungo per la testa di Dzeko. Nella prima parte di stagione la Roma è riuscita ad uscire dall’impasse grazie al talento di Kolarov, uno dei terzini più creativi in Serie A, che spesso riusciva a trovare proprio il suggerimento in diagonale per Dzeko o rompeva una situazione statica con un dribbling. Con il calo fisico del serbo a metà stagione la Roma ha perso anche quell’unica valvola creativa a inizio azione, diventando definitivamente prevedibile.

 

Anche quando l’avversario adotta delle marcature a uomo in pressing alto, comunque, i triangoli in fascia non fanno che complicare la risalita del pallone, costringendo mezzali e ali a giocate tecnicamente complicatissime per riuscire ad arrivare sulla trequarti.

 


Il triangolo di fascia destro in fase di uscita del pallone in caso di pressing alto con marcature a uomo: qui Pellegrini si allarga per ricevere il suggerimento verticale di Florenzi spalle alla porta, a pochi metri dalla linea del fallo laterale. È chiuso alle spalle da Borja Valero e sta per essere recuperato anche da Brozovic. L’Inter recupera facilmente il pallone.


 

Di Francesco ha abbandonato i triangoli di fascia a metà stagione passando al 4-2-3-1, ma senza rinunciare del tutto ai loro meccanismi. La Roma fa sempre circolare la palla in difesa con quattro uomini in linea, ma adesso è l’ala a proporsi verticalmente al terzino in fascia, mentre il trequartista scorre orizzontalmente sulla trequarti per ricevere nei due mezzi spazi. L’obiettivo è sempre quello di portare tanti uomini in fascia per andare in verticale direttamente dalla difesa, solo che con il 4-2-3-1 il meccanismo è ancora meno fluido.

 



Se la Roma deve tenere bloccati entrambi i terzini all’inizio dell’azione per far circolare la palla orizzontalmente, uno di loro turno si alza sul lato dove si sviluppa l’azione, solo una volta che la Roma è arrivata sulla trequarti di campo. Cioè, solo nel caso (molto frequente) in cui i triangoli in fascia non riescono a prendere di sorpresa gli avversari e i giallorossi sono costretti ad attaccare posizionalmente.

 

Quando prova a giocare in verticale, però, con i terzini bloccati e bassi la Roma rimane sempre piuttosto stretta, facendo densità lateralmente di volta in volta con mezzali ed esterni d’attacco. In questo modo, paradossalmente, la squadra di Di Francesco facilita la difesa del centro da parte degli avversari, che a loro volta possono restare stretti e limitarsi a un pressing molto scolastico quando la palla va sull’esterno.

 


La Roma fa salire Kolarov quando ormai le due linee del Milan sono già schierate e possono scivolare orizzontalmente per coprire il centro. Non c’è nessuno che attacca l’ampiezza e anche Bruno Peres, dall’altro lato, rimane strettissimo.


 

Concentrando la propria azione sulle fasce, senza riuscire a “penetrare” e dando ampiezza alla propria manovra solo nell’ultima trequarti di campo, la Roma finisce con l’isolare i propri esterni, costringendoli al cross dal fondo o dalla trequarti, un’arma offensiva statisticamente inefficiente, specie quando non si hanno a disposizione grandi colpitori di testa in area. Se si esclude l’Inter, la Roma è la squadra che finora ha tentato più cross in Serie A, 700 in totale (26.9 a partita), ricavandoci però appena 5 gol di testa (meglio solo di Napoli, Benevento, SPAL e Crotone).

 

Se a questo si aggiunge la difficoltà della Roma nel recuperare palla subito dopo averla persa, un cross forzato può risultare addirittura pericoloso per la successiva transizione difensiva.

 



Con un gioco che tende a svuotare il centro del campo per andare sugli esterni (con il 4-3-3 è praticamente solo Dzeko ad occupare la trequarti con i movimenti incontro) e che costringe i giocatori a giocate difficili per andare in verticale, la Roma tende inevitabilmente ad allungarsi, rendendo imprescindibile un recupero palla immediato perfetto, senza il quale diventa fragile tutte le volte in cui perde il possesso.

 

Questa condizione strutturale, già evidente nella prima parte di stagione (ad esempio, nella caotica vittoria contro la Fiorentina all’Artemio Franchi), è stata aggravata ulteriormente dai meccanismi di salita e discesa della linea difensiva, che sono andati mano mano inceppandosi con il proseguire della stagione.

 

Nelle intenzioni del tecnico, la Roma con la palla coperta cerca di tenere la linea difensiva il più alta possibile, in modo da schiacciare lo spazio tra difesa e centrocampo ed escludere gli attaccanti avversari con la linea del fuorigioco. Questo ha funzionato molto bene nella parte centrale della stagione, ma è un atteggiamento che porta a molti benefici solo se eseguito in maniera perfetta e che richiede un attenzione massima a tutti difensori, che devono continuamente agire come parti di un unico organismo.

 

Se nella prima parte della stagione l’atteggiamento della linea difensiva è stato uno dei fiori all’occhiello della gestione Di Francesco, nelle ultime giornate i difensori della Roma sono sembrati sempre più in confusione su quando salire in anticipo e quando invece scappare all’indietro per coprire la profondità, agendo individualmente e rompendo l’unità della linea difensiva della Roma. Lo stato confusionale della difesa di Di Francesco è risultato evidente nell’ultimo gol subito dai giallorossi, nella disfatta contro il Milan. In quel caso, Fazio, a palla scoperta, si è staccato da solo dalla marcatura per salire su Calabria, mentre il resto della linea copriva la zona. A quel punto, è stato Manolas a staccarsi in ritardo sulla ricezione di Kalinic, proprio mentre Calabria attaccava lo spazio liberato dalla salita del centrale argentino e Bruno Peres, invece, continuava a rimanere ostinatamente in linea.

 

La cosa più grave, però, è che la confusione della linea difensiva della Roma è continuata anche in situazioni dinamiche, diverse dalla difesa posizionale, come per l’appunto in quelle di transizione difensiva. La squadra di Di Francesco, ad esempio, ha provato a far salire la difesa, spesso oltre la linea del centrocampo, anche quando il recupero palla non andava a buon fine, facendo crollare la linea del fuorigioco in situazioni di palla scoperta in campo aperto.

 


Qui Manolas e Juan Jesus salgono in anticipo ben oltre il centrocampo sul tentativo di recupero alto della Roma. A quel punto a Gaston Ramirez basta lanciare in verticale sulla trequarti della Roma per mandare Zapata in campo aperto.


 

Con la linea difensiva oltre la linea del centrocampo in situazioni di palla scoperta, agli avversari è bastato far scattare i propri attaccanti poco prima della linea del centrocampo, avendo un’intera metà campo da attaccare in campo aperto. Per quanto Alisson abbia dimostrato anche un grande tempismo in uscita, chiedergli di coprire uno spazio così vasto da solo è davvero troppo.

 

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I problemi della linea difensiva della Roma sono la perfetta sineddoche dell’intera crisi della squadra di Di Francesco. Quest’anno i giallorossi sono riusciti ad esprimere il miglior calcio quando le caratteristiche di allenatore e giocatori sono riuscite a compenetrarsi alla perfezione: in alcune delle partite migliori, come quelle contro il Chelsea in Champions League, Di Francesco era venuto meno ad alcuni suoi principi (ad esempio, aveva permesso a Perotti di ricevere in zone più centrali di campo) e la squadra lo aveva ricompensato con un’applicazione maniacale delle sue istruzioni, soprattutto in fase di non possesso.

 

Questo vincolo di fiducia sembra essere adesso venuto meno: i giocatori tentano di risolvere le cose da soli, abdicando alle istruzioni tattiche (è il caso di Fazio che si stacca da solo dalla linea, ma anche dello stesso Perotti che viene fin sulla mediana per farsi dare il pallone sui piedi e partire in conduzione) e anche Di Francesco non sembra più sicuro delle proprie idee come a inizio stagione, né fidarsi dei suoi giocatori allo stesso modo.

 

Sicuramente ci sono altri livelli attraverso cui leggere l’attuale crisi della Roma – forse è un calo prima di tutto mentale, a cui si aggiunge la pressione dei tifosi, o una condizione fisica non all’altezza - ma anche solo guardando ai problemi di campo si riesce ad intuire la profondità psicologica della crisi della Roma. Sabato giocherà contro il Napoli primo in classifica, undici giocatori che si muovono con un sincronismo unico, guidati da un allenatore che ha cercato all’interno delle sue stesse idee di gioco le soluzioni ai diversi problemi incontrati in quasi due anni. Un esempio ma anche una motivazione a tornare competitivi da subito.

 

 

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