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La vera epoca d’oro dei lunghi
23 apr 2018
23 apr 2018
Una rilettura dell’evoluzione del ruolo di centro nella NBA, da Charles Darwin a Joel Embiid.
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Issac Baldizon/NBAE via Getty Images
(foto) Issac Baldizon/NBAE via Getty Images
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Nel 1835 Charles Darwin sbarcò sulle Isole Galapagos dopo aver viaggiato per quattro anni lungo le coste del Sudamerica a bordo del HMS Beagle. Nonostante le Galapagos fossero quanto di più simile a un paradiso terrestre, Darwin, che era un naturalista, aveva occhi solo per la flora e la fauna lì presenti e, in particolar modo, per alcune specie di uccelli che avevano attirato la sua attenzione più delle spiagge e foreste tropicali. I fringuelli - che si possono trovare tuttora sulle varie isole - erano tutti molto simili tra loro ma presentavano alcune differenze sostanziali nella stazza e nelle dimensioni del becco e delle zampe, come se si fossero diversificati per adattarsi meglio all’ambiente unico in cui vivevano. Sebbene in quel momento Darwin non fosse stato in grado di darsi una spiegazione a questo fenomeno, quel viaggio al largo delle coste dell’Ecuador si sarebbe rivelato fondamentale per i suoi studi e, di conseguenza, per i destini dell’umanità. Ventiquattro anni dopo, infatti, viene pubblicata L’origine della specie: secondo il darwinismo le specie non sono immutabili e perfette come sostenuto dal creazionismo, ma piuttosto si sono evolute nel tempo in un processo di selezione naturale che ha fatto trionfare solo gli individui più forti e adatti a sopravvivere.Per certi versi i centri NBA di oggi hanno molto in comune con i fringuelli di Darwin. Certamente la stazza non è la stessa e le differenze tra i vari giocatori sono notevoli, ma osservandoli con cura è impossibile non vedere come siano essenzialmente simili, come se pure loro avessero un antenato comune e fossero passati attraverso lo stesso processo di selezione naturale per sopravvivere in un ambiente ipercompetitivo come l’NBA. Lo scopo di questo articolo è quello di mostrare il percorso evolutivo di questa posizione, attraverso i giocatori e le fasi che più hanno rivoluzionato il ruolo, dagli albori ai giorni nostri.OriginiIl basket è uno sport verticale per sua stessa natura: tende e si sviluppa verso l’alto come pochi altri. Di conseguenza la fisicità incide terribilmente: prima ancora della capacità di mettere la palla per terra, l’altezza e la corporatura sono i primi indicatori delle qualità di un giocatore. Quindi, per quanto banale possa essere, più alto e robusto sei e, spesso, meglio è. Questa legge non scritta, riassunta nel detto “non si può insegnare l’altezza”, definisce la concezione moderna della pallacanestro e sublima nel ruolo del centro fino a definirlo come “lungo”, appunto.Negli anni ‘30 e ‘40 però le cose andavano diversamente. Si pensava infatti che i giocatori oltre i due metri fossero inadatti al gioco perchè troppo grandi e scoordinati: la loro stazza era quindi un limite, non un vantaggio. È solo con George Mikan che inizia una vera e propria rivoluzione all’interno del basket che porterà al capovolgimento di questo modo di intendere il gioco. Mikan è stato il primo grande centro, in ogni senso possibile: è il principio da cui tutto comincia. La sua carriera dura relativamente poco, appena dieci anni dal 1946 al 1956, ma il suo impatto sul gioco è enorme: al di là dei titoli individuali e di squadra, Mikan ha cambiato per sempre la concezione del ruolo e il basket stesso. È solo con lui che il basket diventa “a big-men game” come lo concepiamo ora. I suoi 208 centimetri diventano il suo più grande punto di forza. In un basket caratterizzato da giocatori con fisici “normali”, Mikan è così tanto dominante che è necessario cambiare le regole. Per limitare quella superiorità fisica, come poi avrebbero fatto con Wilt Chamberlain e Kareem Abdul Jabbar, viene introdotto il goaltending sui tiri, viene ampliata l’area del tiro libero e, soprattutto, viene inventato il cronometro. Mikan, è quindi l’antenato comune di tutti i centri che questo sport ha visto. È la specie originale.Wilt Chamberlain, che inizia a giocare solamente tre anni dopo il ritiro di Mikan, rappresenta in questo percorso una sua evoluzione. Se Mikan era infatti già un gigante tra gli uomini, con Chamberlain questa situazione si amplifica fino a sembrare esagerata. Wilt è 2.16 per 125 chili: semplicemente enorme per qualsiasi epoca, figuriamoci gli anni ‘60. Guardando le immagini di lui in campo si percepisce perfettamente il senso di impotenza che hanno tutti i giocatori intorno a lui, pure i compagni di squadra. In campo decide tutto, è padre e padrone: la sua terza stagione da professionista in cui realizza 50 punti e 25 rimbalzi di media rappresenta uno standard inarrivabile e un lascito della sua onnipotenza.

Da un punto di vista tecnico Wilt, però, non costituisce un vero e proprio passo in avanti. Infatti, pur avendo sviluppato negli anni un tiro in allontanamento nel pitturato semplicemente immarcabile, un antesignano del tiro a là Nowitzki, ed avendo dimostrato buone capacità da passatore (soprattutto nella seconda metà della sua carriera, quasi per ripicca verso i suoi detrattori), Wilt è principalmente un giocatore d’area sia in attacco che in difesa. Non ha nulla di particolarmente rivoluzionario in termini di ampliamento delle zone d’influenza: Chamberlain infatti ha impatto principalmente sull’aspetto fisico di questo sport. La sua stessa persona è l’esempio vivente della direzione che da lì a poco avrebbe preso il gioco: la fisionomia dei giocatori stava cambiando e presto l’NBA sarebbe stata popolata da atleti incredibili.Bill Russell, che gioca dal 1956 al 1969, è stato però il vero protagonista di quest’epoca, vincendo undici anelli in tredici anni. Ma anche in questo caso, misurarne l’impatto solamente in termini di trofei è limitante: bisogna invece vedere come si muoveva in campo per capirne l’importanza fondamentale per il basket moderno. Russell era un tipo di centro completamente diverso rispetto ai due lunghi che abbiamo già affrontato: non si tratta tanto del fatto che il numero 6 di Boston fosse un giocatore più difensivo rispetto agli altri due che abbiamo già affrontato (anche se, secondo lui, la difesa era parte integrante dell’attacco), ma piuttosto bisogna soffermarsi sul modo in cui tutti e tre usavano il loro strapotere fisico. Mikan e Chamberlain infatti erano due finalizzatori in attacco, ovvero erano il punto in cui il gioco delle loro rispettive squadre convergeva; Russell era invece l’opposto, un facilitatore che creava per i compagni. La sua fisicità quindi era messa a servizio della squadra e non viceversa, diventando il fulcro offensivo e difensivo di quei Celtics in modo simile a quanto accade ora con un playmaking 5 nell’era dello Small Ball. A ciò si aggiunge che, proprio a livello di struttura, Russell era più basso (208 centimetri) ma più longilineo e rapido, cosa che gli permetteva sia di cambiare sui piccoli in difesa che di iniziare lui stesso il contropiede e terminare sopra al ferro. Era un centro così completo che nel 1962, l’anno dei 50 di media di Wilt e delle triple doppie di Oscar Robertson, l’MVP della stagione regolare lo vinse comunque lui. Russell è stato il primo vero antenato del centro moderno.

TransizioneUna specie di legge non scritta di questi primi anni della NBA vuole che, nel momento in cui un grande centro si ritira, ce ne sia un altro subito pronto a prendere il suo posto, come se l’esistenza della lega fosse legata indissolubilmente alla presenza di uno di questi giganti. Era successo con Mikan e Russell nel 1956 e poi con Russell e Kareem Abdul-Jabbar nel 1969, anno in cui viene appunto scelto al Draft dai Milwaukee Bucks.Kareem però, soprattutto all’inizio della sua carriera, ricordava più Chamberlain che il numero 6 dei Celtics, non tanto per il colore della divisa quanto per una strabordante fisicità in comune: Kareem, in particolare, era alto due metri e diciotto centimetri, e, proprio come Wilt, usava la sua altezza per imporsi su chiunque. Jabbar vince 167 partite su 171 tra high school e college, nonostante la NCAA avesse cercato di arginare i suoi centimetri attraverso la “Lew Alcindor Rule”, una regola ad personam che aveva reso illegale schiacciare a livello collegiale dal 1967 al 1977. Questo fatto però segna un passaggio fondamentale della sua carriera e un punto di rottura con lo stile rappresentato da Wilt: Kareem, non potendo più giocare sopra al ferro, smette di essere un giocatore “brutale” e diventa invece un raffinatissimo giocatore in post basso che fa dell’iconico gancio cielo la sua arma principale.

In vent’anni di carriera diventa il primo marcatore di sempre e un esempio di grandezza per chiunque sia venuto dopo di lui.

Kareem quindi, che è il giocatore più iconico di quegli anni, rappresenta già di per sé un piccolo allontanamento con il modello più fisico rappresentato dai primi centri degli anni ‘50 e ‘60 grazie al suo gioco tecnico. Più in generale, gli anni ‘70 confermano questa tendenza lasciando intravedere in quali direzioni potesse evolvere questo ruolo. Innanzitutto, molti lunghi dell’epoca, non potendo competere in altezza proprio con giocatori come Jabbar, sono stati costretti ad evolversi, ampliando il loro gioco per non soccombere nel pitturato. I “5” quindi hanno dunque smesso di essere dei giocatori prettamente d’area e hanno iniziato a sfruttare la loro rapidità, data dalla minor statura, in contropiede contro i lunghi più statici. I centri quindi non si limitavano più a recuperare il rimbalzo e ad aprire al play, ma potevano invece occupare una parte molto più attiva in una fase di gioco fondamentale (in questo la lezione di Bill Russell è molto evidente).Ancora più importante è stato poi l’apporto dato da giocatori come Bob McAdoo e Bill Walton. McAdoo è stato il primo centro ad essere veramente capace di tirare, con precisione e costanza sia piedi per terra che dal palleggio. Bill Walton è stato invece uno dei primi grandi lunghi passatori in grado di agire da vero e proprio playmaker aggiunto nella metà campo offensiva. Certamente loro due erano delle eccezioni per l’epoca, ma già rendevano l’idea di come potesse evolvere il ruolo: in termini tattici, McAdoo e Walton sono gli antenati degli stretch five e dei playmaking five che abbiamo oggi, due varianti fondamentali di come questa posizione è interpretata ora. L’esistenza di predatori più feroci, ovvero la presenza di giocatori fisicamente più forti, ha dunque spinto alcuni centri a diversificarsi per sopravvivere all’interno della lega. È lo stesso principio che ha spinto i fringuelli di Darwin ad evolversi: o ti adatti o ti estingui.Lo sviluppo di questo ruolo ha poi reso possibile anche lo sviluppo del gioco stesso. Nella Milwaukee post-Kareem, per esempio, Don Nelson aveva la possibilità di sperimentare lo Small Ball proprio perché, tra il materiale umano a disposizione, aveva Bob Lanier, un lungo di 2 metri e 8 centimetri che sapeva fare tutto ciò che ci si aspettava da un centro ma che sapeva anche correre in contropiede e tirare in allontanamento dal gomito se necessario. Il basket di Don Nelson era ancora un prototipo e lo Small Ball si affermerà solamente più avanti, però questo è stato sicuramente un inizio. Gli anni ‘70 per i lunghi, e in più in generale per il basket, sono quindi un l’inizio di periodo di transizione che però lascia presagire grandi cose per il futuro.The Golden AgeGli anni ‘80 e ‘90 sono due decenni estremamente formativi e importanti per l’NBA. Non solo la lega diventa l’istituzione internazionale che conosciamo ma, proprio a livello di qualità in campo, l’NBA raggiunge dei picchi mai visti fino ad allora: sono gli anni di Larry Bird e Magic Johnson, dei Detroit Pistons di Isiah Thomas e poi dei Chicago Bulls di Michael Jordan.Da un punto di vista tattico generale, l’introduzione del tiro da tre punti all’inizio della stagione 1979-80 inizia a cambiare radicalmente il modo di intendere questo sport. Prima di questa innovazione, infatti, la partite si decidevano principalmente sotto a canestro (non c’erano motivi validi per allontanarsi dall’area) e di conseguenza il gioco era schiacciato nei pressi del pitturato. È solo dal 1979 in poi che il campo, metaforicamente, si allarga e il basket inizia quindi ad essere anche uno sport orizzontale, con geometrie tutte nuove e fatto di distanze da rispettare. Questo nuovo approccio ha segnato poi un momento decisivo per lo Small Ball, proprio perché l’introduzione del tiro da tre ha fatto sì che aumentare il numero di giocatori del backcourt, a discapito proprio dei “4” e “5”, portasse dei benefici (più tiro da tre e spaziature) che prima semplicemente non c’erano. È solo da questo punto in poi che le squadre iniziano ad “andare piccole” con più frequenza, per poi diventare un fenomeno più frequente negli ultimi anni.Parlando dei lunghi, però, è sbagliato credere che l’avvento del tiro da tre e la rivoluzione tattica che ha iniziato ne abbiano solamente ridotto l’importanza. Il fatto che il gioco sia uscito dall’area ha sicuramente dato più rilevanza agli esterni (oggi siamo in una lega dominata dalle guardie), ma è anche stato un passaggio fondamentale per l’evoluzione del ruolo al punto che spesso questo periodo è ricordato come la sua epoca d’oro. I nuovi spazi in attacco infatti hanno spinto i lunghi a sviluppare il proprio gioco fronte a canestro e a sviluppare un solido tiro da due (e poi da tre), diventando sia giocatori più completi offensivamente che generando anche un vantaggio tattico non indifferente. Ancora una volta, come era successo nelle Galapagos, delle condizioni ambientali avverse hanno generato uno sviluppo che ha rafforzato la specie, aumentandone così le probabilità di sopravvivenza.Ovviamente, davanti ad un simile stravolgimento del gioco, molti allenatori sono rimasti scettici, convinti comunque che in una NBA fisica come quella di quegli anni fosse necessario affidarsi ad un centrone “tradizionale”, capace di garantire solidità sia in attacco che in difesa. Gli anni ‘80 e ‘90 sono quindi caratterizzati da una lampante ambivalenza dovuta a questo divisione interna alla lega davanti a questo cambiamento. L’esempio che forse meglio incarna la contrapposizione tra queste differenti filosofie è dato dai due protagonisti delle finali NBA del 1995 tra Orlando e Houston, Shaquille O’Neal e Hakeem Olajuwon.

Lo scontro tra i due centri più iconici degli anni ‘90.

Shaq fisicamente era incontenibile per chiunque e faceva dei suoi 217 centimetri e 147 chili la sua forza principale, proprio come i grandi del passato (Shaq di questo ne era così consapevole da voler pagare i funerali di George Mikan per rendergli omaggio). Nei tre anni in cui è stato al massimo della forma, che sono poi anche gli anni del Three-Peat dei Lakers e del suo titolo di MVP della stagione regolare, è stato il giocatore che forse più ha ricordato cosa deve essere stato vedere giocare Wilt Chamberlain. “Dominante” è spesso un aggettivo abusato nel mondo dello sport, ma qui rende perfettamente l’idea della sua presenza in campo.Non si può dire che Olajuwon fosse il suo opposto: era comunque un centro di due metri e tredici per 116 chili, ma il suo stile era molto più completo (Hakeem, insieme a David Robinson, è stato uno dei quattro giocatori di sempre a registrare una quadrupla doppia) e costruito dunque su basi completamente diverse. The Dream era dotato di una rapidità di piedi, di una tecnica e di un QI cestistico unici: mai fino ad allora si era visto un lungo giocare così, sembrava un esterno nel corpo di un lungo. Quando tirava in allontanamento o metteva palla per terra per attaccare in uno contro uno Hakeem era tutto tranne che goffo, al contrario, tutto gli riusciva in maniera assolutamente naturale e fluida: è stato il primo centro ad imporsi grazie al suo gioco fronte a canestro, senza ovviamente per questo rinunciare al lavoro in post basso. Di conseguenza il suo impatto è stato enorme e duraturo. Guardando i lunghi NBA moderni ci si rende subito conto di quanto ognuno di loro gli sia debitore sia nei movimenti che, in generale, nell’evoluzione che ha fatto compiere a questo ruolo. In questo il suo apporto è stato molto maggiore rispetto a quello di Shaq e non a caso O’Neal, che spesso fa lo stupido ma stupido non è, in un’intervista rilasciata ancora una decina di anni fa parlava di se stesso come dell’ultimo esemplare di un certo tipo di lungo. Per quanto la sua affermazione avesse una forte nota autocelebrativa, aveva comunque ragione: da lì a breve, più precisamente dal 1998 in poi, un centro “à la Shaq” non sarebbe più potuto esistere nella lega perché poco adatto al gioco moderno.AdattamentoL’evoluzione in natura è la legge. È un meccanismo necessario ma allo stesso tempo vario, dietro a cui si nascondono molte cause differenti. Spesso può avere carattere difensivo: in questi casi non si tratta di un’azione che la singola specie compie nei confronti del mondo esterno; piuttosto, è la reazione della stessa specie a un problema che l’ambiente circostante pone.Nel basket le cose non vanno molto diversamente. L’evoluzione è un suo elemento costituente e formativo che ne modella lo sviluppo. Spesso però è difficile comprenderne l’origine. Come è emerso da una mia recente chiacchierata con David Breschi, le evoluzioni tattiche possono avere più cause: spesso sono dovute a uno sviluppo del gioco apportato dai singoli, come abbiamo visto fino ad ora, ma è altrettanto vero che altre volte, come in natura, l’origine è di carattere difensivo, ovvero si tratta di una risposta della difesa a un quesito posto dall’attacco. L’evoluzione compiuta dai centri ad inizi anni 2000 presenta entrambe queste caratteristiche.Nel 2004 l’NBA ha approvato l’“hand checking rule”, una regola che di fatto ha permesso agli esterni di penetrare in area con molta più facilità visto che ai difensori veniva impedito di mettere le mani addosso agli esterni per limitarne i movimenti. Questo ha indirizzato definitivamente la lega verso uno stile di gioco più rapido e dinamico come lo Small Ball in cui le guardie hanno prosperato a discapito dei centri statici e convenzionali. Infatti la mancanza di mobilità negli spostamenti laterali rendeva i lunghi tradizionali molto più facili da attaccare per i playmaker nelle situazioni in cui si generava un cambio dopo un qualsiasi blocco, soprattutto se poi i “5” erano costretti a inseguirli oltre la linea da tre. Di conseguenza i centri granitici e lenti sono stati condannati a estinguersi proprio perchè la lega trovava nel loro elemento costituente, la loro stazza, un punto debole. Questo cambio di mentalità ha segnato la fine dell’era iniziata da George Mikan: per la prima volta il basket era tornato a valutare l’eccessiva stazza dei lunghi come un limite più che come un vantaggio, iniziando poi a usare da “5” quelli che una volta sarebbero stati considerati esclusivamente come “4”.Nel frattempo, sei anni prima, Dirk Nowitzki veniva scelto al Draft dai Dallas Mavericks. Il suo arrivo in NBA ha sconvolto definitivamente la concezione di lungo e ha segnato l’ultima grande evoluzione del ruolo. Dirk è stato infatti il primo “unicorno”, anche se forse non si è capito immediatamente la portata del suo arrivo nella lega, probabilmente anche a causa del fatto che fosse europeo e che Shaq, l’altro grande lungo insieme a lui e a Duncan ad aver dominato i 2000, era all’apice della sua carriera. Nowitzki però si è distinto sin da subito: Dirk ha l’altezza di un lungo, pur essendo più magro e longilineo della norma, ma è dotato di una sensibilità nelle mani mai vista fino a quel momento in un uomo di quelle dimensioni.

Hakeem sapeva tirare, ma Dirk tira. È diverso.

Nowitzki non è mai stato schierato esplicitamente da “5” fino agli ultimissimi anni, preferendo coprirgli le spalle con un lungo più tradizionale come Tyson Chandler nelle sue migliori annate, ma era capace di mettere palla per terra come un piccolo (con tanto di crossover) e di farsi tutto il campo in coast to coast perchè aveva una mobilità inspiegabile per i tempi, ma che in realtà si adatta perfettamente allo stile di gioco moderno. È stato, e tuttora è, un giocatore avanguardistico: su Youtube si può trovare un video della sua prima partita in cui ha realizzato più di 20 punti, era la sua stagione da rookie, e guardandolo ci si rende subito conto di quanto fosse semplicemente avanti. Al di là dei canestri che segna (quasi tutti tiri in fadeaway), il momento che più mi ha più colpito è che ad un certo punto Dirk è libero fuori dalla linea da tre e credo, chiunque, ritrovandosi con la palla in mano, non si farebbe scrupoli a passarla a uno dei migliori tiratori e realizzatori di sempre. In quella partita però il play dei Mavs, Robert Mack, ci mette quattro secondi per autoconvincersi che lasciare che il suo lungo si prenda una tripla smarcato sia una buona idea. Effettivamente prima del suo arrivo in NBA avrebbe anche avuto ragione, ma Dirk ha distrutto quegli ultimi dogmi rimasti su cosa potesse o non potesse fare un lungo e ha portato avanti una rivoluzione tattica in cui i centri erano dei componenti fondamentali.La presenza infatti di un lungo con queste caratteristiche tecniche costringeva il “5” avversario a seguirlo fino alla linea da tre, togliendo così un protettore del ferro dall’area e facilitando le penetrazioni degli esterni. A livello difensivo poi (anche se Dirk è sempre stato un po’ carente in questo fondamentale), avere un centro così mobile permetteva di cambiare o addirittura raddoppiare sui pick and roll avversari, ritardandone così l’attacco. Per sfruttare quindi questo vantaggio molti allenatori hanno quindi iniziato a usare le ali grandi da 5, rinunciando così a centimetri e peso ma acquistando in cambio tiro, spaziature e una difesa più aggressiva. Questo trend, iniziato dai Phoenix Suns di Mike D’Antoni con Amar’e Stoudemire e poi proseguito magistralmente dai Miami Heat di Erik Spoelstra con Chris Bosh, ha accompagnato lo sviluppo dello Small Ball, fino ad arrivare ai Golden State Warriors che usano Draymond Green, che in uscita da Michigan State non si capiva quale dei due spot di ala dovesse occupare, come centro.Presente e FuturoNegli ultimi dieci anni i centri NBA sono stati spesso considerati alla stregua dei panda, come se fossero a tutti gli effetti una specie in via di estinzione. In realtà questa analisi è quanto più lontana dall’essere vera: certamente il ruolo ha vissuto una transizione necessaria dalle glorie degli anni Novanta al basket di oggi, ma questo passaggio non ne ha segnato la fine, anzi, ora giocano in NBA i centri più completi che questo sport abbia mai visto. Infatti, il livello tecnico-atletico-tattico richiesto oggi a un centro per restare in campo è estremamente più alto rispetto a quello degli anni ‘80, ‘90 e ‘00. Lunghi come Dwight Howard, per esempio, che hanno dominato la prima metà dei Duemila, in questo momento probabilmente stanno a malapena nella media della NBA e, sebbene il carattere e l’età siano comunque dei fattori da tenere in conto, la sua marginalizzazione all’interno della lega è sicuramente dovuta alla sua incapacità ad adattarsi a uno stile di gioco in cui il ruolo dei “5” è sostanzialmente diverso. Alla stessa maniera Roy Hibbert, che è stato fondamentale per i Pacers tra il 2012 e il 2013 e che sembrava poter essere un ritorno ad un certo modo di interpretare il ruolo, è ora senza una squadra perché incapace di tenere il passo dell’evoluzione atletica del gioco. I lunghi “grandi e grossi” sono stati quindi costretti a reinventarsi per sopravvivere, specializzandosi in alcuni particolari del gioco (soprattutto rimbalzi, blocchi e agire da rim protector, pensate a DeAndre Jordan o Tristan Thompson) o diventando dei “playmaking 5” se hanno le caratteristiche necessarie per farlo. Pure Andre Drummond, che è forse il “5” che più ricorda i centri come una volta, quest’anno è stato costretto ad ampliare il suo gioco, da Stan Van Gundy che gli ha affidato degli schemi in cui deve giocare da vero playmaker occulto, registrando così il suo massimo in carriera in assist e permettendo ai Pistons maggiori spaziature in attacco.I lunghi di oggi, grazie anche alle nuove modalità di allenamento, sono quindi in grado di fare, ovviamente chi più e chi meno, le stesse cose che fanno gli esterni: siamo arrivati al punto che è normale vedere un centro giocare da playmaker aggiunto o prendersi una tripla da un metro la linea da tre, mentre cinquant’anni fa non pensavano neanche alla possibilità di uscire dall’area. È un cambiamento abissale che, in linea di massima, ci permette di dire che questa, più degli anni ‘80 e ‘90, sia in realtà la vera Golden Age dei centri, non tanto per il loro peso in campo che è sicuramente più marginale, ma perché lo sviluppo tecnico che è stato raggiunto non ha precedenti. E l’esistenza di giocatori come Joel Embiid, Anthony Davis, DeMarcus Cousins, Karl-Anthony Towns, Kristaps Porzingis e Myles Turner non fa altro che confermarlo. Gli “Unicorni”, come vengono chiamati, sono, per il momento, il culmine del percorso iniziato con George Mikan. Hanno preso il meglio dalla tradizione del ruolo e lo hanno riadattato al contesto in cui giocano ora: sono il presente e il futuro della lega, capaci di spingere ancora più in là i limiti di questo sport.

Per esempio, in una NBA che cerca sempre più spaziature e quindi tende naturalmente ad “andare piccola”, un giocatore come Embiid è potenzialmente un enigma. Joel è due metri e tredici ma ha una mobilità laterale impressionante in difesa, cosa che gli permette di rimanere in campo anche contro quintetti più piccoli e rapidi che però non possono contenerlo fisicamente. Per quanto possa sembrare esagerato ora, Embiid e gli altri Unicorni potrebbero destabilizzare lo Small Ball proprio per il loro mix unico di stazza, velocità e tecnica. Siamo quindi di fronte a un’altra possibile rivoluzione copernicana che potrebbe dare un nuovo ruolo ai lunghi.Concludendo, il ruolo di centro è forse quello che maggiormente si è evoluto insieme al gioco attraverso i suoi interpreti più illustri ma penso sinceramente che si dovrebbe guardare a questo cambiamento in maniera positiva. Perdersi in nostalgici rimorsi di ciò che è stato è, ora come ora, inutile e privo di senso perché non si può far retrocedere uno sport a un livello precedente, alla stessa maniera in cui non si può forzare una specie a regredire. Sarebbe tanto controproducente quanto fare paragoni tra oggi e ieri. Il basket e i centri moderni si sono sviluppati insieme, in maniera armonica, influenzandosi a vicenda, e continueranno a farlo anche in futuro. Dovremmo solamente gioirne tutti.

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