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La scalata di Toronto
28 apr 2016
28 apr 2016
I Raptors sono passati dai bassifondi della NBA al secondo posto a Est in meno di 6 anni. Eppure hanno ancora molto da dimostrare, soprattutto a loro stessi.
(articolo)
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A fine settembre 2013, in una conferenza stampa tenutasi presso l’Air Canada Center, Tim Leweke, presidente e CEO della Maple Leaf Sports & Entertainment, società proprietaria dei Raptors, annunciò che Toronto nel 2016 avrebbe ospitato l’All-Star Weekend NBA.

Nella stessa occasione rese noto che nel consiglio organizzativo dell’evento avrebbe preso parte anche Drake, il 6ix più famoso del momento, assunto come Global Ambassador della società. Drake, non soddisfatto di aver composto un successo mondiale dietro l’altro, conquistato milioni di fan e infranto record ultra decennali come questo, questo oppure questo, ritenne necessario trovare del tempo anche per provare a cambiare look, karma, percezione e mentalità a una franchigia, quella per cui ha sempre tifato, che nell’ultimo decennio era solamente nota come l’attrice non protagonista degli 81 di Kobe. I risultati gli daranno ancora una volta ragione.

Dal suo incarico i Toronto Raptors hanno modificato logo e colori sociali, ospitato il primo All-Star Game fuori dai confini americani, realizzato sold out in ogni occasione possibile (non avveniva dai tempi di Vince Carter), creato un’attrattività in termini tecnico-sportivi-mediatici completamente differente e realizzato il salto necessario non solo per partecipare stabilmente alla post season, ma anche per giocarsi il primo turno col fattore campo a favore.

We The North, il team brand per eccellenza attualmente nella NBA, con una semplicità minimalista che avrebbe reso orgoglioso anche Mies van der Rohe, rappresenta non solamente una tifoseria o una società sportiva, ma un’intera comunità nazionale.

We are the North Side, a territory all our own. And if that makes us outsiders, we’re in.

Sei anni fa, però, non era così.

Dimenticatevi i playoff, la conquista dell’Atlantic Division, due All-Star a roster davanti al loro pubblico, Drake, le copertine di SLAM, Jurassic Park fuori dall’Air Canada Center… Sei anni fa era il mondo al contrario. Da Chris Bosh a coach Dwane Casey, da Masai Ujiri a Norman Powell: cronistoria di una vertiginosa scalata alla Eastern Conference.

You should go, before you stay too long.

(Good Ones Go – Perception)

Il 7 luglio 2010, ventiquattro ore prima che ESPN girasse presso il Boys & Girls Club di Greenwich, Connecticut un inedito e non replicato programma di discreta audience chiamato “The Decision”, Chris Bosh e Dwyane Wade, in una delle più agitate free agency della storia delle leghe professionistiche americane, decidono di accettare la corte del più diabolico mastermind della NBA, Pat Riley, che li convince ad andare/ritornare in quel calderone infernale di South Beach. La notizia occupa le home page di tutte le principali testate sportive online al di là e al di qua dell’Atlantico. Due dei tre All-Star ancora disponibili sul mercato si erano accordati per giocare e vincere insieme.

Ma mentre i due augurano buona fortuna a LeBron con la sua scelta e il mondo intero si interrogava su cosa avrebbe fatto il Prescelto, le notizie su Bosh, sulla sua fuga dal Canada, sul futuro di Toronto, sulle sofferenze dei suoi tifosi, sulla perdita del loro recordman di punti, doppie doppie, riconoscimenti personali… come per i piccoli indiani, and then there were none.

La stagione successiva inizia e finisce nei bassi fondi della Eastern Conference. Saltata senza preavviso una trade ormai definita con Charlotte che avrebbe dovuto portare in Canada Tyson Chandler e Boris Diaw (due futuri campioni NBA con due squadre diverse), ai Raptors non rimane che affidarsi ad un tanking estremo per arrivare a Kyrie Irving. Sfiga: i Cavs post-LeBroniani, super specialisti nel campo, fanno peggio di loro e ricevono la prima delle tre prime scelte assolute che accumuleranno nei successivi quattro Draft.

I Raptors, pronosticati a Las Vegas con un record al termine della stagione di 28-54 (risultato buono per il terzultimo posto nella lega), riusciranno a fare peggio. Ed essendo vittime naturali di sostanzialmente tutte le leggi di Murphy, dopo averne perse 60 in stagione attraverso il generoso contributo della peggior difesa delle lega (quasi 113 punti concessi su 100 possessi) non ottengono né la prima (come detto Cleveland, passando per i Clippers perché in una storia di karma loro non possono mai mancare), né la seconda (Minnesota), né la terza (Utah), né la quarta (ri-Cleveland), bensì la quinta scelta al Draft, che si tramuterà in Jonas Valanciunas.

Started from the bottom, now we are here.

(Started From The Bottom - Nothing Was The Same)

Al termine della stagione, a causa dell’inesistente identità difensiva della squadra, coach Jay Triano viene sollevato dall’incarico. Al suo posto i Raptors ingaggiano Dwane Casey, coordinatore difensivo di quei Dallas Mavericks che avevano appena vinto il titolo costringendo attacchi guidati da Kobe Bryant, Kevin Durant, Russell Westbrook, LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh a 103.4 punti su 100 possessi — pari alla media ottenuta, seppur in regular season, dagli stessi Toronto Raptors da 22 vittorie.

Coach Casey viene ritenuto dal presidente e general manager Bryan Colangelo il mentore ideale per allenare e trasformare in vincente un gruppo di ragazzi – terzo roster più giovane della lega – come Andrea Bargnani, DeMar DeRozan e Jonas Valanciunas, con buone potenzialità in attacco ma scarse attitudini difensive.

Nelle sue prime due stagioni — entrambe perdenti e al termine delle quali verrà allontanato il GM Colangelo — i suoi giocatori raccontano che l’80% di ogni allenamento veniva dedicato esclusivamente alla metà campo difensiva, partendo dal recuperare fondamentali come gli spostamenti laterali, il posizionamento di braccia, busto e gambe davanti all’avversario e le rotazioni da effettuare nello svolgimento di un’azione. Al termine di questo biennio, nella stagione 2013-14 Toronto si posizionerà tra le prime dieci nella lega come defensive rating (102.4).

Dall’arrivo di coach C ad oggi, i Raptors hanno scalato non solo la Eastern Conference ma l’intera NBA migliorando il proprio record del 40%, posizionandosi terzi come delta positivo in questo lasso di tempo, dietro solamente ai Cavs, aiutati dal ritorno di James, e Golden State, aiutati dall’essere divenuti imbattibili.

Migliorati di anno in anno con l’attutale direzione tecnica — unica franchigia dal 2010 ad oggi con il differenziale record tra due stagioni sempre in positivo — i Raptors hanno definitivamente svoltato nel maggio 2013 quando è ritornato a Toronto Masai Ujiri, primo general manager africano tra tutte le major sportive americane, appena insignito del titolo di dirigente dell’anno alla guida dei Denver Nuggets. Ritornato perché nel 2007 era stato assunto proprio dal suo predecessore, Bryan Colangelo, come Director of Global Scouting dei Toronto Raptors, diventando l’anno successivo assistente GM dello stesso Colangelo, prima di andarsene, come Bosh, nel silenzio generale durante l’estate del 2010.

If you let me, here’s what I’ll do, I’ll take care of you

(Take Care ft. Rihanna – Take Care)

Masai, subito dopo aver occupato il suo nuovo ufficio, mette immediatamente in pratica la prima indicazione della guida “General Manager NBA di squadre a fine corsa”: liberare al più presto quanto più spazio salariale possibile. Pagano per tutti Rudy Gay e Andrea Bargnani, i due con l’ingaggio più alto. Al Mago, scambiato a inizio luglio, toccherà cercare fortune (senza trovarle) su entrambe le sponde del Williamsburg Bridge. Al suo posto arrivano Novak (scambiato), Camby (tagliato), Richardson (tagliato) e la prima scelta non protetta dei Knicks al Draft che sta per arrivare, in Lottery (un furto).

Gay, dopo un inizio di stagione da 6 vittorie nelle prime 18 e un personale Net Rating da -11.0, viene spedito insieme al suo ricchissimo contratto a Sacramento in cambio di Patrick Patterson, Chuck Hayes, John Salmons e Greivis Vazquez. Sia il Salmone che il venezuelano verranno a loro volta successivamente scambiati ricevendo in cambio prospetti come Lucas Nogueira e Norman Powell, un futuro Sesto Uomo dell’Anno (Lou Williams) e la prima scelta dei Clippers nel Draft 2017.

In due (non tanto) semplici mosse ha snellito la situazione salariale della franchigia regalandosi la possibilità di competere su giocatori di ottimo livello difensivo in free agency (DeMarre Carroll, Cory Joseph e Bismack Biyombo su tutti, anche se il disastro di nome Totò Bennett una menzione particolare la meriterebbe), aggiunto sia elementi di prospettiva ad un roster già molto giovane che veterani pronti all’uso per guidare dentro e fuori dal campo i più inesperti e guadagnato asset fondamentali per una squadra in continua crescita raccogliendo scelte, anche elevate, per i prossimi Draft.

In realtà le due semplici mosse furono tre, poiché tre erano i giocatori che, secondi i piani dirigenziali, sarebbero dovuti partire. Il terzo, Kyle Lowry, per quindici ore di metà dicembre fu un giocatore dei Knicks. Il percorso inverso sarebbe stato compiuto da Raymond Felton, Iman Shumpert e Metta World Peace generosamente accompagnati da una prima scelta nel Draft 2018. Il tutto saltò per un improvviso cambio d’intenzioni del proprietario James Dolan, storicamente incerto sul da farsi e timoroso nel dover concludere un altro affare con Ujiri, il quale, secondo Dolan, lo aveva già saccheggiato di prime scelte con gli scambi di Carmelo Anthony e Bargnani.

Al momento della trade che non fu mai, il record dei Raptors riportava 7 vittorie e 13 sconfitte e la stagione sembrava destinata ad affiancarsi alle cinque perdenti precedenti, con la differenza di potersi posizionare in prima fila per arrivare al bersaglio grosso del Draft, Andrew Wiggins aka “Maple Jordan”. Con la partenza di Lowry si sarebbe compiuto il progetto di smantellamento e ricostruzione che aveva in mente la dirigenza. Dal veto imposto da Dolan, però, Toronto proseguì la stagione vincendo 41 delle 62 gare rimanenti e staccando il biglietto per la post-season con un impronosticabile terzo posto ad est.

Per valutare l’operato di Masai Ujiri si possono, come appena fatto, snocciolare tutte le operazioni da lui compiute e le loro future implicazioni — oppure molto semplicemente è possibile guardare i record delle franchigie prima, durante e dopo la sua gestione. I Denver Nuggets, la stagione seguente al cambio di GM, hanno interrotto una striscia di partecipazioni consecutive ai playoff che durava da 10 anni. E al momento il numero di stagioni concluse a inizio aprile è arrivato a tre. Tre, casualmente, sono anche le partecipazioni consecutive dei Raptors alla post-season, che mancava a Toronto dal 2009, quando furono eliminati, stranamente, al primo turno contro i Magic che saranno spazzati in finale dai Lakers. Cinque stagioni consecutive ai playoff con due franchigie diverse, le quali o prima o dopo di lui sono state costrette a vacanze anticipate. The Masai Way.

Lookin’ for the right way to do the wrong things

(Lord Knows ft Rick Ross – Take Care)

Nel corso degli ultimi anni in NBA si è sviluppata una nuova corrente filosofica, sublimata dai San Antonio Spurs nelle Finals 2014 e dagli ultimi due anni dei Golden State Warriors. L’assioma è semplice: andare piccoli fino all’estremo schierando cinque esterni che possano tutti portare palla, cambia sempre sui blocchi e metterla con continuità da tre. L’applicazione concreta un po’ meno: senza avere i James, i Green, i Leonard o i Towns di questo mondo, cioè ali di oltre due metri che corrono il campo e muovono la palla come guardie, i risultati possono risultare meno brillanti.

I principali oppositori a questa nouvelle vague cestistica sono i Grizzlies e i Raptors. Mentre Memphis esprime la sua contrarietà giocando con due lunghi veri e propri e proponendo una pallacanestro estremamente fisica (Grit&Grind school of basketball) basata principalmente sui post di Gasol e Randolph, l’obiezione canadese si manifesta con una totale astensione dalla corsa nella metà campo offensiva. Ma dovendo necessariamente fare i diversi, nonostante abbiano il penultimo numero di possessi della lega (dietro di loro solamente i Jazz), i Raptors sono la miglior squadra in termini di realizzazione in transizione.

Attaccano principalmente negli ultimi 7 – se non 4 – secondi dell’azione (un possesso su tre), non prendono mai un tiro wide-open (14.2% è la loro percentuale di tiri presi con più di due metri di spazio), non la passano mai senza aver effettuato almeno 4 palleggi (peggio persino dei Lakers Bryant-dipendenti di queste ultime uscite) e hanno comunque chiuso con il quinto attacco dell’intera NBA.

Lowry e DeRozan, i due leader offensivi della squadra, sono entrambi tra i primi dieci giocatori della lega per numero di penetrazioni effettuate a partita (11.6 DeRozan, 9.5 Lowry). Di queste quasi la metà vengono concluse con un tiro a difesa schierata e concentrata esclusivamente sul penetratore. Questo tipologia di attacco può generare risultati vincenti in regular season, con maggiori spazi e minore intensità difensiva, ma nei playoff alla lunga il rischio di generare brutti tiri e conseguenti contropiedi avversari aumenta notevolmente, come ben visto nella difficile serie disputata contro Indiana fino a questo momento.

Proprietaria di due tra i primi nove peggiori quintetti titolari (Lowry, DeRozan, Scola, Valanciunas, Carroll/Johnson) della stagione (-7 di Net Rating, quart’ultimi), Toronto è sempre in grado di ribaltare le partite con la propria second unit che realizza offensivamente numeri impressionanti (secondi, ma neanche di troppo, solamente a quelli irreali dei Warriors con 131.6 punti su 100 possessi) mantenendo comunque una notevole identità difensiva. Rappresentazione perfetta dell’energia proveniente dalla panchina è Norman Powell, assoluta sorpresa uscita da UCLA e miglior rookie — Net Rating alla mano — tra coloro che hanno giocato almeno metà regular season. Non a caso quando in campo ci sono Joseph, Ross o Powell, Patterson e Biyombo più solamente uno tra Lowry o DeRozan, i Raptors sono il quarto miglior quintetto tra quelli hanno giocato almeno 200 minuti insieme (+15.1 punti su 100 possessi). Con questi cinque il campo è spaziato perfettamente: Ross/Powell, Patterson e Lowry, sgravato da compiti di playmaking grazie alla presenza di Joseph, sono per frequenza ed efficienza dall’arco nettamente i tre migliori presenti a roster, senza considerare Carroll fuori per quasi 60 partite in regular season. Questo quintetto viene utilizzato da coach Casey agli inizi dei quarti quarti delle partite, il momento in cui i Raptors cambiano passo. Con un Net Rating di +6.3, i Raptors sono la terza squadra della NBA per efficienza nell’ultimo periodo (davanti a loro Hawks e Spurs, ma solamente perché i Warriors le vincevano nei primi tre).

Nonostante la (non) presenza offensiva di Biyombo, autentico muro difensivo (gli avversari con lui nei pressi del ferro tirano oltre 10 punti percentuali in meno rispetto alle loro medie) senza letteralmente mai vedere la palla in attacco (un tocco ogni 1.8 minuti in cui è in campo, secondo i dati di SportVU), i suoi “roll” a canestro all’interno delle eccellenti spaziature fornite dalle percentuali offensive degli altri tre generano automaticamente tiri e scarichi migliori per i continui ingressi nel pitturato del Lowry o DeRozan della situazione. Tanto è vero che in gara-5 hanno concluso con quattro guardie (i due All-Star più Joseph e Powell) attorno a Biyombo, rimontando e salvando buona parte della stagione con un ultimo quarto da 25-9.

I 34 di DeRozan in gara-5

Il glue guy, elemento necessario per una squadra così altalenante, è rappresentato perfettamente da Patrick Patterson. Proprietario del miglior differenziale della squadra (+9.3 punti per 100 possessi) e quarto in tutta la lega tra coloro che non partono in quintetto, l’ex Kentucky è funzionale per qualsiasi esigenza la squadra necessiti: lavora da semplificatore in attacco aprendo il campo con quasi il 40% sui catch and shoot da tre (oltre ad una buona proprietà di finta e penetrazione in caso di close-out), ma è in difesa che cambia realmente il volto della squadra. Arrivato da Sacramento come contropartita nella trade Gay, Patrick Patterson è la rappresentazione perfetta della scalata verticale di questa franchigia: partendo dalla panchina e realizzando un’infinità di piccole cose, incide nella sua squadra come pochi altri nella lega, il tutto senza dover mai catturare l’occhio. Proprio come i Raptors.

Partiti da zero sei anni fa, nel silenzio generale sono arrivati al secondo posto a Est alle spalle dei Cavs, a un passo dal potersi legittimamente considerare una contender. Questo passo, però, è quello che si sta rivelando il più difficile, ovverosia superare il primo turno per la seconda volta nella storia della franchigia — uno scoglio mentale ancor prima che tecnico, perché questi Raptors sulla carta sono superiori agli Indiana Pacers come probabilmente lo erano dei Brooklyn Nets due anni fa e volendo anche degli Washington Wizards l’anno scorso. Eppure, una volta arrivati ai playoff, negli ultimi anni questo gruppo ha fatto fatica a esprimersi compiutamente (anche per via di qualche infortunio a giocatori chiave come Lowry), giocando partite incomprensibili come quelle in gara-1, gara-4 o nei primi tre quarti di gara-5 contro Indiana. Come se le attese di tutto il paese — essendo l'unica squadra NBA oltre il confine vengono considerati "The Canada's Team" — li bloccassero sul più bello e li mandassero in tilt emotivo.

Ma se riuscissero a liberarsi di questo blocco mentale, la regular season ha dimostrato che a Est — tolti i Cavs — è difficile trovare una squadra che li superi per talento offensivo, profondità del roster, flessibilità tattica e possibilità di accoppiarsi in un’eventuale serie contro Cleveland. Le finali di conference sono il posto in cui vogliono arrivare, perché la scalata è stata lunga e come dice Drake: it’s far from over.

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