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Dario Vismara
Quella notte da 81 punti
22 gen 2016
22 gen 2016
Dieci canestri per rivivere la miglior partita della carriera di Kobe Bryant, dieci anni fa.
(di)
Dario Vismara
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Dieci anni fa oggi Kobe Bryant segnava 81 punti in una singola partita NBA. Solamente Wilt Chamberlain, in quel

, è riuscito a fare di meglio, segnandone 100. Ma di quella partita a Hershey, Pennsylvania ci rimangono poche cose: il racconto tramandato dai 4.000 che c’erano, qualche registrazione audio, l’iconica foto con il fogliettino ideata da Harvey Pollack. Gli 81 di Kobe, invece, sono cestisticamente successi

, e della partita

— il che non li rende meno irreali, perché, usando le parole di Tim Duncan, «la gente non capisce quanto sia difficile segnarne già solo 40 nella NBA. Che qualcuno potesse metterne 81, oggi, non lo avrei mai ritenuto possibile».

 

Per celebrarne il decimo anniversario, ho scelto 10 canestri più rappresentativi di quello che è successo quella notte allo Staples Center di Los Angeles. Non per forza i più belli, non per forza i più difficili, ma quelli che secondo me raccontano meglio la seconda miglior performance nella storia della NBA.

 





In un

, Jalen Rose ha ripercorso quella serata vissuta dall’altro lato della barricata — o, per meglio dire, ha cercato di farci capire cosa si prova a essere travolti dalla marea Bryant. La prima ma fondamentale annotazione tattica ce la dà dopo 40 secondi: «Giocavamo con una difesa a zona 1-2-2. Nella NBA. Contro Kobe Bryant.

», aggiungendoci una faccia come a dire

. Il problema è quello che dice immediatamente dopo: «A inizio partita stavamo anche vincendo. E questo mi sa che ci ha dato delle false sicurezze». In questo primo canestro si vede bene perché quella tattica fosse suicida: la zona (che in realtà era una 2-3) va in tilt e Kobe ha un comodo tiro senza nessuno addosso per segnare i punti numero 5 e 6 della sua serata. Non sarebbero stati gli ultimi, né come punti, né come tiri comodi.

 

Nella NBA contemporanea e sabermetrica probabilmente avrebbe fatto un ulteriore passo indietro per tirare in ritmo da tre invece di accontentarsi di un tiro da due, ma con quei compagni — titolari insieme a lui: Smush Parker, Lamar Odom da ala piccola, Kwame Brown e Chris Mihm…

— Kobe non poteva permettersi molte sottigliezze: appena trovava un tiro con spazio, se lo prendeva senza pensarci. D’altronde era reduce da 12 partite a oltre 40 di media e nelle precedenti due — un back-to-back tra Sacramento e Phoenix — ne aveva segnati rispettivamente 51 e 37. A fine gennaio avrebbe concluso il secondo mese più prolifico di sempre a 43.4 punti di media, dietro solo — manco a dirlo — a Wilt Chamberlain.

 




Se volete farvi del male, andate a riguardarvi i primi sei minuti del secondo quarto, vale a dire gli unici che Kobe passa in panchina. Poi provate a immaginarvi cosa gli passa per la testa mentre i suoi compagni tirano 1/11 e Kwame Brown commette

infrazioni di tre secondi offensive nel giro di qualche possesso. Il comico Chris Rock, intervistato a bordocampo in quanto una delle poche celebrità presenti (Jack Nicholson nemmeno c’era… immaginatevi quanto gli roda ancora), definisce Kobe come «

» e i commentatori non riescono a smettere di ridere per quanto è vera quella frase, nonostante i Lakers abbiano un tutto sommato rispettabile record sopra il 50% di vittorie (21-19).

 

Logico che, dopo aver assistito a quello scempio, al primo pallone toccato Kobe spari da tre senza pensarci — anche perché Pope Sow, pace all’anima sua, per qualche motivo si stacca e gli lascia il tiro dall’angolo, arrivando a contestarlo quando è già troppo tardi (grande idea la zona, coach Mitchell!). Nonostante altri 9 punti nel quarto, però, i Lakers non riescono a fermare l’attacco dei Raptors, che trascinati da un Mike James da 5/5 da tre vanno all’intervallo sul +14, sul 63-49. Bryant ha segnato 26 punti «in relativo silenzio», come dichiara Stu Lantz, il commentatore dei Lakers, che durante l’intervallo aggiunge: «È possibile che Kobe ne debba segnare 50 per permettere ai Lakers di vincere».

 





 

I Raptors di quella stagione sono una squadra stranissima: 5° miglior attacco della lega a 106.7 punti segnati su 100 possessi di media, ma anche la seconda peggior difesa a 109.7. Nel terzo quarto si vede bene come sia possibile questo bipolarismo: l’attacco produce tiri comodi che Mike James (complice la difesa

di L.A.) continua a trivellare, toccano il massimo vantaggio sul +18 con una tripla di Matt Bonner e i Lakers sembrano destinati all’oblio.

 

Questo contro Bosh è il secondo canestro di una serie di sette consecutivi che per me rappresentano un blocco unico e indivisibile: rivederli uno dopo l’altro fanno capire come Bryant sia potuto arrivare a 81 punti, perché si ha la netta percezione che Kobe abbia detto “Ok, adesso basta” e abbia deciso che la sua serata da “ottima” dovesse diventare “leggendaria”. In particolare, capisce che ricevere il pallone sul lato gli permette di attaccare i buchi della zona di Toronto in uno contro uno, evitando qualsiasi raddoppio (non che Sam Mitchell dalla panchina di Toronto ne abbia ordinato uno, eh…). Da lì diventa una

.

 





 

Il normale sviluppo dell’azione vorrebbe che Kobe servisse Smush Parker, che sta “provando” a smarcarsi e uscire dai blocchi sotto canestro, per la verità senza troppa convinzione. Non appena Kobe capisce che non sarebbe successo, però, è come se dicesse a se stesso e i compagni: “Vabbé, sapete che c’è? Io adesso tiro”. Quindi fa un palleggio superando la linea da tre punti e spara sopra le braccia protese di Jalen Rose:

.

 

Chiariamoci: è un tiro orrendo, senza ritmo, inefficiente (perché vale due punti e non tre), senza alcun senso. Però va dentro, e nella testa di Kobe si fa largo la convinzione che quella sera sarebbe stata

.

 





 

Nonostante i canestri in fila, i Lakers sono ancora sotto di 16. Però in difesa riescono a recuperare un pallone e, in transizione, Kobe spara da tre dopo aver palleggiato in mezzo alle gambe per mettersi in ritmo: canestro. Il pubblico inizia a scaldarsi, Kobe pure (su Twitter, anni dopo, scriverà «

»). L’unico a non pensarla così è Stu Lantz, che appena il tiro entra sentenzia: «Troppo carico offensivo sulle spalle di un solo giocatore per poter vincere regolarmente». Ha ragione. Non è plausibile che una squadra vinca a lungo affidandosi così tanto a un solo giocatore. In quel momento Kobe ha segnato più della metà dei punti dei Lakers e li sta trascinando di peso alla vittoria con un canestro più impossibile dell’altro, ma c’è anche da considerare che Phil Jackson dalla panchina ha ordinato la sua celebre difesa a tutto campo, che manda in totale tilt l’attacco dei Raptors e permette il rientro dei

.

 




Si fa fatica a scegliere cosa sia peggio: la zona-non-zona dei Raptors o il

di Smush Parker che, nonostante Kobe sia chiaramente in ritmo, cerca insistentemente di dare palla dentro a

— e solo dopo essersi reso conto di non avere la linea di passaggio, la passa a Bryant che stava aspettando da un quarto d’ora.

 

Kobe, che non è mai stato un grandissimo tiratore da tre (33% in carriera, 34.7% in quella stagione, picco massimo al 38%), spara senza pensarci perché tanto ormai è

. La definizione che ha dato poi di quella sensazione è un po’ diversa da quello che ci si aspetterebbe: «Non vedevo il canestro come una vasca da bagno, era una

diversa: mi sentivo instancabile». E dire che fino al riscaldamento si sentiva piuttosto male, con un ginocchio in disordine e le gambe indolenzite dagli sforzi profusi fino a quel momento per tenere la squadra in linea di galleggiamento, con uno

— la percentuale di possessi “finalizzati” mentre era in campo — del 38.7%, la più alta mai registrata nella storia della NBA (solo Jordan e Westbrook gli si sono

). Nonostante l’impegno sovraumano, Kobe definisce quella stagione «quel raro momento in cui alle abilità fisiche si uniscono quelle mentali». Questa serata degli 81 — e prima ancora quella dei 62 in tre quarti contro i Dallas Mavericks in cui fece arrabbiare Brian Shaw perché, alla possibilità di segnarne 70, rispose solamente “Nah, li farò un’altra volta” — ne sono una dimostrazione.

 





 

Nel gergo cestistico americano lo chiamano

, letteralmente “controllo della temperatura”: di solito sono tiri che i giocatori si “sentono” quando ne hanno segnati due o tre in fila — e di solito sono anche dei tiri orrendi, tipo questo in transizione senza aver fatto annusare il pallone a nessun altro, ma che i realizzatori si sono “guadagnati” con i canestri segnati in precedenza. È una regola non scritta del basket: hai segnato due tiri in fila? Allora hai il diritto di provarne un terzo, indipendentemente dal risultato.

 

Poi Kobe aveva anche un altro motivo per dare il meglio di sé quella sera, e lo avrebbe rivelato solo

: «Una cosa che non tutti sanno di quella serata è che sugli spalti c’era mia nonna, che non mi aveva mai visto giocare prima dal vivo, neanche al liceo. Ed era anche il compleanno di mio nonno, che era morto giusto un anno prima». Viene da chiedersi: nonna Bryant è mai tornata altre volte a vederlo? Perché se questi sono i risultati…

 





 

Jalen Rose ha definito Kobe in quella serata usando questa metafora: «Avete presente quando al campetto c’è un ragazzo che può schiacciare in un canestro ad altezza regolare e si gioca con un canestro mezzo metro più basso? Quello era Kobe Bryant quella sera.

». Questo contro il povero Mo Peterson — che pure era un ottimo difensore perimetrale — è un canestro di pura onnipotenza cestistica. Cosa si può fare contro uno così?

 

Un’idea sarebbe quella di raddoppiare — e infatti Jalen Rose, Mike James e un altro paio di veterani si avvicinano a Sam Mitchell dicendogli: «

, che ne dici di raddoppiare quel tizio e farci battere da qualcun altro? Potrebbe aiutare, sa». Il problema è che Mitchell non ci sente e continua imperterrito a non raddoppiare Bryant — anzi, per alcuni possessi a uomo

, un rookie che era (ed è) un pessimo difensore. Rose nel video dice: «Ogni tanto i coach lo fanno: ‘Visto non mi hai ascoltato al 100%, ti lascio là fuori per darti una lezione e mandarti un messaggio’. Solo che Kobe ce ne ha mandato uno peggiore». Nel frattempo Bryant ha portato i suoi da -18 a +6. nel giro di 9 minuti, segnando 27 punti nel solo terzo quarto e ormai sente l’odore del sangue.

 





 

Solo a inizio ultimo quarto, dopo un colpo subito a centro area che gli costa un fallo tecnico per proteste, Bryant sembra mostrare un minimo di cedimento fisico, un piccolo segnale di umanità. Giusto? Sbagliato: quel colpo lo fa solo incazzare di più. Riesce a costringere Peterson al quinto fallo e ricomincia la festa: in questo canestro Rose e Bosh riescono nell’impresa di difendere passivamente su un giocatore che ha segnato 57 punti fino a quel momento (!) e farsi bucare su un pick and roll in cui il bloccante (Kwamone!) non deve nemmeno portare un blocco serio.

 

Kobe dirà poi: «A quel punto il gioco è diventato lento davanti ai miei occhi e l’unica cosa che devo fare è ricevere il pallone». Questo slow-mo probabilmente rappresenta come si sviluppava il gioco agli occhi di Bryant in completa trance agonistica. O forse è la difesa dei Raptors a essere letargica, visto che da questo momento in poi inizia a commettere falli su falli perché non sa più cosa fare per fermarlo.

 







 

Il canestro con cui Kobe supera il record di franchigia detenuto da Elgin Baylor è forse il più bello in assoluto della serata. Non solo perché la difesa di Peterson è perfetta o quasi (davvero, cos’altro può fare? Lo ha costretto a un tiro difficilissimo, non salta sulla finta e gli è letteralmente appiccicato), ma anche per l’irreale coordinazione occhi-piedi-mano (sinistra, per di più) che ci vuole per fermarsi con l’inerzia del corpo che va da un’altra parte, fintare, riconoscere che il difensore non ha saltato e quindi alzarsi per tirare e segnare in allontanamento. Solo i grandissimi possono far sembrare

un canestro del genere.

 

Il video che ho trovato su YouTube nell’ultimo quarto ha il commento dei telecronisti della tv canadese che trasmette le partite dei Raptors, e anche loro sconsolati possono solo dire: «

». Jalen Rose, intanto, descrive così il

della panchina di Toronto in quel momento: «Facciamo schifo. Siamo degli idioti. Come abbiamo potuto permettere che succedesse? Perché non lo abbiamo preso a cazzotti?». La gente intanto da lì in poi inizia a gridare appena Kobe supera la metà campo, ma vedrà solo un altro canestro dal campo, una tripla smarcata sbagliata (avrebbe potuto segnare anche di più? Kobe su Twitter dirà: «Con i tiri facili che ho sbagliato, sarei potuto arrivare a 100») e qualche fallo subito, tipo questo:

 



 

Il tabellino finale dice: 28 canestri segnati su 46 tentati, 7/13 da tre, 18/20 ai liberi, 6 rimbalzi, 2 assist, 3 recuperi, 1 stoppata, 3 palle perse, 1 fallo, +25 di plus-minus. Fanno 55 punti nel secondo tempo, contro i soli 39 dei Raptors. Eppure nessuna cifra può realmente restituire quello che ha fatto Kobe Bryant quella sera — o, se è per quello, neanche nessuna parola. Solo le immagini possono andarci vicino, quelle che ci sono state negate per i 100 di Wilt e che invece potremo goderci da qui all’eternità per la serata in cui Kobe Bryant ha fatto la storia, dieci anni fa.

 

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