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(di)
Giovanni Timillero
Tutta la storia dentro Kosovo-Svizzera
12 set 2023
12 set 2023
Reportage da una partita con un significato speciale.
(di)
Giovanni Timillero
(foto)
IMAGO / justpictures.ch
(foto) IMAGO / justpictures.ch
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Nei Balcani presente e passato si combattono, o forse si mischiano facendo finta di combattersi. È passato circa un anno dalla partita tra Serbia e Svizzera ai Mondiali in Qatar, seguita in Albania come se giocasse la propria Nazionale, per via dei molti giocatori svizzeri di origine albanese o kosovara, per via quindi della guerra che negli anni '90 ha costretto i serbi a uccidere i kosovari, e in alcuni casi viceversa. Sabato la storia è tornata di nuovo sul luogo del delitto, mettendo insieme Svizzera e Kosovo nello stesso girone di qualificazione ai prossimi Europei, con il primo confronto ufficiale nella storia tra le due Nazionali che si è giocato sabato a Pristina (una prima amichevole si era giocata nel marzo dello scorso anno, in terra elvetica). Semplificando e quindi distorcendo: se Serbia-Svizzera era la partita della guerra, Kosovo-Svizzera è stata la partita della pace, o forse sarebbe meglio dire del futuro, della pace come possibilità di rinnovamento. C'è uno stretto rapporto di fratellanza che unisce il Kosovo alla Svizzera che affonda le proprie radici in un periodo anche precedente alla guerra, negli anni ‘80, quando alcune persone hanno deciso di partire, per povertà o persecuzione politica, da quella che allora era solo una piccola provincia autonoma della Jugoslavia, scegliendo la Svizzera come nuova casa. È tuttavia con gli anni ‘90 e con l’infelice escalation del conflitto nei Balcani che i numeri della diaspora kosovara subiscono un’impennata, con interi villaggi che lasciano il paese cercando rifugio dalla guerra. Oggi più di 100mila kosovari vivono in Svizzera (comunità estera seconda solo a quella tedesca) e sono ben 250mila i cittadini svizzeri che hanno dichiarato di avere come prima lingua l’albanese, confermando come le seconde e addirittura terze generazioni siano ormai pienamente radicate tra le Alpi. Le persone, come spesso succede, hanno preceduto i trattati. Oggi Kosovo e Svizzera hanno consolidati accordi bilaterali in vari settori, da quello politico a quello economico passando per la cooperazione allo sviluppo. I due Paesi sono rimasti amici, dopo i finanziamenti svizzeri per la ricostruzione post-conflitto che rimangono in vigore ancora oggi in vari progetti in ambito idrico, sanitario e di sviluppo nel sociale. La partita era un'occasione unica per vedere celebrata questa amicizia, che si muove dalla riconoscenza per il passato verso un futuro che potrebbe finalmente riservare qualcosa di nuovo. Il giorno della partita parto in autobus da Tirana, città in cui vivo e lavoro. Ci metto 4 ore abbondanti per raggiungere lo stadio Fadil Vokrri di Pristina, felice di avere finalmente un’occasione per indossare la maglia della nazionale kosovara che da ormai un paio d’anni fa parte della mia collezione personale. È un'occasione per riguardare quel colletto che mi ha sempre colpito. Sopra c'è scritto: “Dardani: cresciuti dalla guerra, più forti della paura”. La Dardania è l’antico nome della regione che oggi comprende non solo il Kosovo ma anche parte dell’Albania, della Macedonia del Nord e della Serbia, un territorio contraddistinto principalmente da comunità e tribù di montagna, di cui ancora oggi una parte della società kosovara dice di andare molto fiera, forse per l'incorruttibilità che questa immagine riesce immediatamente a trasmettere. Anche allo stadio, durante le partite della Nazionale, uno dei cori più amati dai tifosi è: “jemi Kosova, jemi dardanet”, letteralmente “siamo il Kosovo, siamo dardani”.

La mitologia del proprio passato, o addirittura del passato del proprio passato come in questo caso, ha un'importanza cruciale nelle società balcaniche. Un'importanza legata soprattutto alla guerra, che in queste zone è soprattutto resistenza strenua a un'oppressione: i dardani addirittura contro quella dei macedoni, nel III secolo avanti Cristo - scrigno mitologico da cui tornare ad attingere per rinfocolare tutte le altre che sono venute dopo: prima contro gli ottomani, infine contro i serbi. Al di là dei proclami simbolici, però, c'è una realtà che è fatta da una doppia chiave di lettura: se da un lato i kosovari, evocando i dardani, rivendicano con fierezza il fatto di aver resistito all'oppressione serba negli anni ‘90, dall’altro cercano oggi quanto più possibile di superare l'immagine della guerra a cui è ancora associato il Paese.

Da questo punto di vista l'influenza della Svizzera, e degli altri Paesi alpini che hanno accolto i suoi cittadini come l'Austria e la Germania, ha un ruolo centrale che va molto oltre la parola accoglienza. La cultura kosovara è infatti inestricabilmente legata al patrimonio naturale, soprattutto alle catene montuose che oggi ne tracciano i confini con l’Albania, il Montenegro e la Macedonia del Nord, e che ieri hanno permesso alle proprie tribù di rimanere sostanzialmente indipendenti da ogni tipo di dominazione, come dimostra l'incredibile storia del codice orale del Kanun. Oggi che il Paese è però indipendente e sostanzialmente pacificato, le montagne significano altro: una meta ideale per alpinisti, viaggiatori ed escursionisti che cercano un contesto alpino ancora in gran parte incontaminato e fuori dai circuiti turistici classici.

Il calcio riesce ad esprimere tutto questo in maniera immediata, senza parole, o con le poche che bastano ad occupare un colletto, e non è un caso che la Nazionale di calcio maschile sia stata utilizzata dal Kosovo come ariete simbolico per portare avanti le proprie istanze. In un Paese relativamente “nuovo” e con un'identità tutta da costruire, il calcio rappresenta un potentissimo strumento politico di visibilità per la comunità internazionale, col potenziale di favorire il processo di riconoscimento da parte di tutti gli altri Stati ed accelerare i negoziati per l’entrata del Paese nell’Unione Europea.

Di questo tema abbiamo parlato anche in Trame, il nostro podcast di sport e geopolitica.

Me lo conferma al mio arrivo a Pristina anche il mio collega Liridon, che mi accoglie esibendo la maglia di capitan Rrahmani, vero e proprio leader carismatico della Nazionale e giocatore più rappresentativo, soprattutto dopo la vittoria dello scudetto con il Napoli. Liridon, kosovaro rientrato a Pristina dopo diversi anni di studio e lavoro in Italia, mi racconta che dal 2016, anno della sua fondazione, nulla come la Nazionale è riuscita nell’intento di unire trasversalmente il popolo kosovaro.

Questa partita sembra però dimostrare che è possibile andare oltre alle identità. Intorno allo stadio la stragrande maggioranza dei tifosi svizzeri indossa il plis, il copricapo di feltro tradizionale di Albania e Kosovo. Dietro la maglie leggo soprattutto i nomi di Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, che proprio qui in Kosovo affondano le radici delle proprie storie. Oltre all’albanese, per strada si sente parlare in tedesco, francese, inglese ed italiano, sulle tribune le bandiere di Svizzera, Kosovo e Albania sono praticamente intercambiabili e i tifosi delle varie Nazionali si mischiano: uno di quei rari casi in cui si sarebbe potuto fare a meno di separare il settore ospiti dal resto dello stadio. Certo, non è facile conciliare tutto questo. In un’intervista al Guardian di qualche mese fa proprio Shaqiri raccontava il proprio contrasto interiore nell’affrontare il Kosovo con la maglia della Svizzera, esprimendo contemporaneamente patriottismo, riconoscenza e difficoltà emotiva nel gestire un momento così intenso.

Foto dell'autore.

L’amore incondizionato dei tifosi kosovari sugli spalti del Fadil Vokrri verso i due figlioli prodighi finalmente rientrati in "patria", Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, inizia a manifestarsi sin dal momento del riscaldamento. Xhaka, capitano della Svizzera prossimo con 116 presenze a diventare recordman di tutti i tempi della Nazionale, non fa in tempo a uscire dal tunnel che si è già fiondato sotto la tribuna di casa per salutare e ringraziare i propri "connazionali", i quali rispondono con ovazioni e cori. Identico discorso per Shaqiri, acclamato anch’egli come un eroe illirico (o forse sarebbe meglio dire dardanico?) di ritorno dalla guerra. Mentre i titolari svizzeri si riscaldano vicino alla nostra tribuna, si forma un capannello di tifosi kosovari che intonano cori e cercano di fotografare i due giocatori che sentono propri.

Xhaka e Shaqiri non hanno infatti mai potuto giocare con la Nazionale kosovara, nata troppo tardi rispetto allo sviluppo delle proprie carriere, eppure hanno continuato a portare avanti le istanze del proprio Paese di origine, a modo loro. È il famoso caso della provocatoria esultanza con il gesto dell'aquila, a forti connotazioni nazionaliste albanesi, dopo i gol contro la Serbia, che tra l'altro gli attirarono non poche antipatie in Svizzera.

Foto dell'autore.

Senso di appartenenza e patriottismo in merito alle scelte di Nazionale sono un tema delicato in Kosovo, come testimoniato dalla coreografia che la curva espone mentre risuona l’inno nazionale (e durante il quale Shaqiri tiene saldamente la mano sul cuore). L’immagine raffigura una serie di personaggi che si sono contraddistinti rappresentando idealmente il Kosovo: non solo calciatori, ma anche infermieri, soldati e pompieri. Al centro è rappresentata la celebre cantante Rita Ora - ormai una specie di personificazione femminile del Kosovo, avvolta dalla bandiera nazionale blu a stelle. Sotto c'è scritto: La patria celebra gli uomini coraggiosi, non i miserabili e i traditori. Il capo ultras della curva spiegherà nel post partita che il riferimento è a Uran Bislimi, giocatore di origine kosovara che recentemente ha deciso di rappresentare la Svizzera, e che secondo lui era in panchina dalla parte sbagliata.

Foto dell'autore.

La partita non offre grandi contenuti tecnici. La Svizzera è saldamente prima al comando del girone e gestisce il pallone con ritmi compassati, sapendo di poter contare su una superiorità tecnica in grado prima o poi di costruire facilmente almeno un paio di occasioni da gol. Il Kosovo invece si affida in difesa alla solidità del capitano Rrahmani, mentre il peso dell’attacco è tutto sulle spalle dell’altro idolo delle folle, "il Pirata" Vedat Muriqi. La battaglia tattica si gioca tutta sui duelli aerei tra l’attaccante del Maiorca ed il suo diretto marcatore, Akanji. È la Svizzera a passare in vantaggio, con un gol a rimorchio su cross da destra del neo bolognese Remo Freuler, uno dei punti fermi del centrocampo svizzero. Nel secondo tempo la Svizzera cerca di addormentare la partita giocando con l’orologio. Xhaka e Shaqiri non giocano esattamente la miglior partita della loro carriera, sembrano distratti dal fatto che ogni qualvolta si avvicinano alle tribune per calciare un angolo o battere una rimessa vengono sommersi dagli applausi (qualcosa che lascerà qualche strascico postumo sulla stampa svizzera, che ha criticato neanche troppo velatamente le loro prestazioni). È una strana rilassatezza in cui il Kosovo si infila, riuscendo a trovare il pareggio con un colpo di testa proprio di Muriqi a metà del secondo tempo. La Svizzera si ridesta e attraverso una serie di cambi prova a rimettere la testa avanti, riuscendo a trovare il raddoppio a un quarto d’ora dalla fine ancora con Remo Freuler. Sembra la fine della partita e invece all’ultimo secondo dell’ultimo minuto di recupero il Kosovo trova, grazie allo spessore dei suoi due leader, un ultimo goccio di energia mentale. Rahmani in veste di attaccante crossa basso, sulla palla sporcata "il Pirata" gira sul primo palo col piede debole, mandando in estasi totale tutto lo stadio.

Quando esco dallo stadio mi imbatto in una famiglia. I figli più piccoli indossano la casacca blu del Kosovo mentre sventolano due bandierine rossocrociate. Parlo brevemente con il padre per farmi raccontare la loro storia: mi dice che loro sono nati in Svizzera e tifano Svizzera, ma che questa era un'occasione speciale in cui il tifo contava poco. L’unica cosa importante era esserci, essere testimoni di questa cosa. Il giorno dopo la partita lascio Pristina attraversando la via principale che dal centro porta verso fuori, boulevard Bill Clinton. Su di me, e su tutti gli altri, campeggia una gigantografia dell'ex presidente americano. Il ricordo del passato mi guarda, mentre la storia continua a cambiare.

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