Scrivere di Kobe Bryant a un anno dalla sua morte non è un compito semplice. Un po' perché su quella tragedia e soprattutto sulla vita e le imprese del campione è stato scritto tutto il possibile, un po' perché il coinvolgimento emotivo, seppur mitigato dalla distanza temporale, rimane profondo.
Per chi adora il basket, soprattutto per chi è cresciuto con la stella dei Los Angeles Lakers all’apice della carriera, Kobe Bryant era l’equivalente di ciò che le onde sono per gli amanti del mare. Le onde, si sa, non piacciono a tutti; anzi molti le disprezzano o le temono, pur riconoscendole come parte integrante dell’oggetto del loro amore. Bryant è stato a lungo come le onde: adorato da molti, disprezzato e temuto da altrettanti, ma comunque presenza ineludibile nella vita di chiunque.
Ciò che la tragedia di Calabasas ci ha insegnato è che invece le onde possono scomparire, come in un improvviso quietarsi della marea. E osservare il mare così piatto, oggi, non può che indurre qualche riflessione.
Vietato morire giovani
Quello tra divi della musica o del cinema e stelle dello sport mondiale è un paragone ormai abusato e, qualora si volesse individuare il contesto adatto a renderlo plausibile, la NBA rappresenterebbe con ogni probabilità l’ambiente ideale. La capacità della lega di costruire un’aura di epicità attorno ai suoi protagonisti è ben nota, a maggior ragione se il protagonista vive la sua intera parabola indossando i colori dei Los Angeles Lakers, una franchigia che aspira a essere la trasposizione hollywoodiana del gioco della pallacanestro.
A differenza di quanto avviene nella musica o nel cinema, però, la perpetuazione del mito sportivo prevede che venga alimentato dalla presenza fisica nel corso degli anni, anche ben oltre la durata dell’avventura agonistica. Le ragioni dietro a tale differenza sono molteplici, a partire dal fatto che, pur con le dovute eccezioni, la vita di uno sportivo non è soggetta ai vizi e agli abusi che spesso caratterizzano quelle di rockstar e attori. Appare quindi comprensibile che nell’immaginario comune le stelle dello sport siano destinate a invecchiare, mostrando magari i segni dell’incedere del tempo, ma portando il peso della loro leggenda sulle spalle con stoica resistenza.
Il più grande di sempre, Muhammad Ali, è rimasto tale anche mostrando in pubblico gli effetti del morbo di Parkinson che l’aveva colpito poco dopo i quarant’anni.
Nel mondo dello sport non esiste niente di paragonabile al celeberrimo “club dei 27”, la lunga lista di artisti morta a 27 anni. La scomparsa prematura di un atleta non fa parte di una sceneggiatura consolidata e si configura come autentica fatalità, vedasi i casi di Drazen Petrovic e Ayrton Senna, per citare solo i più noti tra gli sportivi deceduti per cause del tutto fortuite. È quindi facilmente comprensibile come la scomparsa improvvisa di Kobe Bryant sia stata un evento spiazzante, un glitch in grado di mandare in tilt l’intero sistema mediatico della NBA e non solo, almeno per qualche giorno.
A complicare ulteriormente le cose è stato poi il periodo particolare vissuto da Kobe al momento dell’incidente. In quel momento Bryant non era più da tempo una stella della NBA, ma non aveva nemmeno ultimato il percorso intrapreso dopo il ritiro e che lo stava portando lontano dal basket, almeno da quello giocato. Il Kobe Bryant che abbiamo perso era un uomo in transito verso una fase nuova della sua esistenza e, anche per questo motivo, la sua perdita ha generato così tanti rimpianti. Avevamo appena cominciato a conoscere un uomo nuovo quando ci è stato portato via, per non parlare di quanto prometteva la figlia Gigi nel basket femminile.
Un mistero ben noto
Digitando “Kobe Bryant’ nella stringa di ricerca di Google compaiono circa 119 milioni di risultati: la query legata al suo nome è stata la terza più cercata in tutto il mondo nell’anno 2020, dietro solo a coronavirus e le elezioni USA. Eppure, a dispetto della sterminata copertura mediatica riservatagli, Kobe rimane per certi versi un oggetto misterioso, quasi la versione cestistica del monolite di 2001: Odissea nello spazio. Tutte le biografie più o meno postume insistono sugli stessi tasti: il furore agonistico, l’ossessione per la vittoria, l’ego smisurato, la maniacale cura dei dettagli e l’irreprensibile etica lavorativa, l’individualismo sfrenato e la passione bruciante per la pallacanestro.
Si tratta di caratteristiche ben note, che messe insieme compongono quella che definiremmo una verità storica, ma che allo stesso tempo tratteggiano una figura monodimensionale che forse non è del tutto autentica. Gli spiragli intravisti nel periodo tra il ritiro e la prematura scomparsa hanno infatti insinuato il dubbio che il Kobe narrato in tutte quelle biografie, ovvero il Kobe che tutti abbiamo visto, corrisponda alla versione che lui, il diretto interessato, ha consapevolmente contribuito a fabbricare. Kobe ha messo in mostra ciò che voleva farci vedere, lasciando il resto ben celato dietro alla patina, a essere sinceri un po’ ripetitiva, della Mamba Mentality.
Più che raccontare per l’ennesima volta i tiri presi, segnati o sbagliati, o l’allenamento solitario alle 4 del mattino, dovremmo quindi chiederci: quello che abbiamo visto e vissuto è il meglio di Bryant? Oppure sotto la pelle del Black Mamba albergava un altro Kobe, un Kobe diverso che avrebbe voluto e potuto mutare il corso della sua vita? Lo schianto sulle colline a ovest di Los Angeles ci ha privato della possibilità di rispondere a queste domande. Nondimeno, il modo in cui è stata trattata la storia personale di Bryant, e in parte anche quella dell’altro grande mito dello sport venuto a mancare lo scorso anno, Diego Maradona, offre spunti d’interesse che vanno oltre il singolo caso.
Kobe definisce Maradona “idolo mio” in una breve intervista alla TV argentina Canal 9.
Diego & Kobe
C’è poco da fare: la traiettoria della vita di uno sportivo professionista viene decisa da ciò che fa nell’arco di quei 10, 15 o, nei casi più fortunati 20 anni in cui vive la fase attiva della sua carriera. Poco importa che a quel periodo corrisponda un’età anagrafica caratterizzata dall’immaturità o che le scelte effettuate in quegli anni siano influenzate da pressioni esterne, interessi economici e dagli effetti collaterali del successo. La tendenza comune è identificare lo sportivo in quella versione di sé, dimenticando che per lui - come per ogni essere umano - esiste un prima e un dopo. La stella dello sport viene incasellata in una definizione giocoforza grossolana che si trasforma nell’idea che l’opinione pubblica si fa non solo dell’atleta, quanto della persona.
Così, sempre tenendo Bryant e Maradona come esempi, raccontiamo ciò che è successo prima che diventassero famosi - Kobe figlio d’arte che cresce girovagando per l’Italia, Diego bambino povero nei sobborghi degradati di Buenos Aires - solo se è funzionale a scolpire l’immagine del ragazzo ossessionato dalla competizione o del più classico caso di ragazzo ingenuo che si lascia inghiottire dall’improvvisa notorietà. Ciò che succede dopo, quando la palla ha terminato di rotolare nelle loro mani o tra i loro piedi, ci interessa ancora meno. O, meglio, ci interessa solo se sconfina nelle pagine di cronaca, altrimenti diventa una nota a margine in una trama già delineata, senza possibilità alcuna che il protagonista ne modifichi lo svolgimento.
In questo senso, nella percezione generale e nel coro di voci che ne cantano le gesta, Kobe rimarrà per sempre il despota che non sopporta la sconfitta, il censore dei comportamenti dei compagni, l’agonista ossessivo che non sorride mai. Un’immagine che è stato lui stesso a cesellare, almeno fino a quando in ballo c’è stata la pallacanestro.
Un breve esempio di Kobe che interpreta Kobe, in maniera alquanto naturale.
Non è più la NBA di Kobe Bryant
Se quella del nuovo Bryant post-ritiro rimane una storia secondaria, troncata poco dopo le battute iniziali, l’eredità di quanto ha raggiunto in vent’anni di basket risulta più tangibile, o almeno avrebbe dovuto esserlo.
Quanto c’è di Kobe nella NBA di oggi? Rispondere con franchezza a questa domanda significa ammettere che, a quasi cinque anni dalla sua ultima partita e a dodici mesi dalla morte, di Bryant nella NBA odierna rimane davvero poco. Certo, la partecipazione emotiva subito dopo l’incidente del 26 gennaio è stata straordinaria e ha vissuto una seconda fase, tanto prevedibile quanto inevitabile, quando al termine di una stagione a tratti drammatica i Lakers hanno riportato a casa il Larry O’Brien Trophy che a Los Angeles mancava da un decennio.
Tra le tante celebrazioni postume, a volte un po' posticce, il grido “Kobe!” lanciato da Davis dopo il canestro decisivo in gara-4 delle finali di conference è forse il tributo più autentico a Bryant, non fosse altro perché è quello che il Mamba avrebbe apprezzato maggiormente.
Al di là delle dediche, delle citazioni durante le interviste e delle canotte celebrative, però, l’impronta di Bryant sulla NBA del 2021 è quasi impalpabile. Innanzitutto nel gioco, amore e ossessione di Kobe, dove c’è poca o nessuna traccia della sua eredità. Gli aspetti in cui eccelleva, dall’utilizzo del tiro dalla media distanza ai movimenti spalle a canestro, oggi sono ritenuti tutto sommato accessori, quando addirittura non deleteri per lo sviluppo e il successo di un giocatore (chiedere a DeMar DeRozan per conferme). Non bastasse, agli eredi - o presunti tali - di quello che per comodità definiamo “Hero Ball”, da James Harden a Russell Westbrook, viene spesso imputata la tendenza ad accentrare su di sé la manovra offensiva, influenzando pesantemente la conformazione tattica e i risultati complessivi di squadra. Proprio quella tendenza che, a posteriori, costituisce un pilastro della canonizzazione di Kobe e, per quanto ovvio, del suo modello di riferimento, Michael Jordan. (Nota a margine: lo Usage Rate di media del Bryant all’apice del solipsismo, stagione 2005-06, quella degli 81 punti segnati ai Raptors, è terzo ogni tempo dietro proprio ai due epigoni di cui sopra rispettivamente nelle stagioni 2018-19 e 2016-17, mentre Jordan arriva solo quinto con quella 1986-87).
Ora come ora il modello a cui le giovani stelle della lega, da Antetokounmpo a Doncic, si ispirano è chiaramente un altro, ed è LeBron James. La concezione del gioco praticata da James è per molti aspetti antitetica la concetto di “Hero Ball” e passa attraverso un’idea più partecipativa, ovvero si basa sulla convinzione che elevare il rendimento dei compagni sia il modo migliore per arrivare alla vittoria. Tuttavia, occorre ammetterlo, è un terreno scivoloso quello in cui si prova a definire lo stile di gioco dominante nella NBA attuale, perché a dispetto dell’accezione ormai negativa data al termine “Hero Ball”, la decisione di non prendersi sempre e comunque l’ultimo tiro in una partita importante rimane oggetto di pesanti critiche.
Insomma, lo stile che ha caratterizzato la carriera di Bryant pare soddisfare la critica solo quando produce vittorie; ciò che appare certo, invece, è che a prescindere dai singoli episodi oggi come oggi sui campi della NBA si gioca in modo assai diverso a come giocava Kobe, che agli occhi di appassionati e addetti ai lavori è diventato, parecchio in fretta, un prototipo di giocatore superato.
Vecchia scuola
Sono in molti a sostenere, con argomentazioni tutt’altro che estemporanee, che Bryant non sia stato il miglior giocatore della sua generazione. L’impatto dell’amico/nemico Shaquille O’Neal e dell’eterno rivale Tim Duncan può essere in effetti considerato almeno pari, se non superiore a quello avuto dal figlio di Jelly Bean. Ciò non toglie che Kobe sia stato indiscutibilmente l’uomo copertina della NBA durante gli anni zero, lungo momento di transizione in cui la lega che era stata di Jordan e della generazione del primo Dream Team è passata nelle mani di James, Curry e di una generazione con cui Kobe scontava un gap anagrafico consistente. E Kobe, protagonista di quel periodo di mezzo, rimaneva con tutta evidenza ancorato al sistema di valori e comportamenti condivisi dalla “vecchia scuola” della NBA.
Bryant al picco della sua notorietà si teneva distante dall’attivismo politico e sociale, usava in modo discontinuo e rudimentale i social network, non fraternizzava con gli avversari (e spesso nemmeno con i compagni) anche se le due avventure olimpiche ne hanno un po' incrinato l’immagine di lupo solitario, e non si poneva il problema di cambiare squadra preferendo vestire una sola maglia per tutta la carriera (ma, a dire la verità, almeno un momento di sbandamento nella lunga storia d’amore con i Lakers c’è stato).
Kobe Bryant, in definitiva, pur rappresentando un ponte tra due generazioni era molto più vicino alla NBA degli anni ’90, in particolare a Jordan, maestro riconosciuto, rispetto a quella a cui ha ceduto il testimone dopo l’ultimo trionfo nel 2010. Non c’è quindi da stupirsi se in piena epoca di “player empowerment” la sua figura, il modo in cui ha gestito carriera e immagine, risulta poco attuale se non addirittura antiquata. Anche in questo, infatti, il modello a cui guardare è James e in seconda battuta Durant o Leonard. E la sensazione di aver perso un personaggio appartenente a un’altra epoca storica, lontana dall’attualità, quasi inevitabilmente fa aumentare il sentimento di nostalgia.
Il toccante tributo del maestro e “fratello maggiore” MJ a Kobe.
Una questione urgente
Ci si sente un po' stupidi, ora, considerato l’immane carico funesto dell’anno appena trascorso, a provare tristezza per la perdita di un campione dello sport. Eppure se c’è una cosa che la pandemia dovrebbe averci insegnato è proprio a non dare nulla per scontato. Un esercizio non solo retorico che gli amanti del basket avevano già sperimentato, in piccolo, con la scomparsa di Bryant. Anche per chi lo dileggiava è stato impossibile non accorgersi da subito di quanto mancasse e di quanto sarebbe mancato. E oggi quanto manca Kobe? Difficile dare una risposta che non sia intima, la quantificazione del vuoto lasciato è una questione strettamente personale.
Così come personale è la risposta all’altra domanda ricorrente, un anno fa come ora: in che modo vogliamo ricordare Kobe? Ognuno ha il sacrosanto diritto di ricordarlo come meglio crede: chi lo ama lo ricorda come campione leggendario, chi lo rispetta lo vede come simbolo di tenacia e dedizione, per chi non lo perdona può essere un presunto violentatore che ha tradito sua moglie o, come magari sarebbe piaciuto a lui, se ne parlerà come il più grande stronzo di tutti i tempi.
Oppure il tributo più appropriato potrebbe consistere nel non considerare Bryant come un monumento, magari limitandosi a magnificarne lo splendore, e piuttosto provare a grattare la superficie di una figura ricca di spigoli, difetti e contraddizioni. Si tratta di un’occasione urgente, improrogabile considerando come le dinamiche della narrazione sportiva abbiano subito un balzo evolutivo con il successo di piattaforme come The Players’ Tribune e format quali All or Nothing da cui d’ora in avanti sarà difficile, se non impossibile prescindere. E visto che una versione di The Last Dance a tinte gialloviola sembra inevitabile, allora meglio non perdere tempo.
Nella sfida su come rendere il giusto omaggio a un autentico gigante, se fossimo sul parquet rimarrebbero dunque pochi secondi a cronometro. E con Kobe di mezzo sapete già come andrebbe a finire.