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Foto di Stephen Chernin/Getty Images
NBA Francesco Andrianopoli 8 aprile 2016 9'

Quella notte in Colorado

Il momento più oscuro della vita di Kobe Bryant: il processo per violenza sessuale in Colorado.

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Il Cordillera Lodge & Spa di Edwards, Colorado, è un resort di lusso ispirato a un castello europeo e appollaiato sulla cresta di una montagna che si affaccia sulla valle di Vail e Beaver Creek, due delle località montane più famose del mondo. Nel pomeriggio del 30 giugno 2003 la giornata scorre noiosa per la receptionist K.F. e il fattorino Bob Pietrack, visto che solo quattro delle 56 stanze sono occupate.

 

Alle 16 ricevono una richiesta di prenotazione telefonica da una agenzia di viaggi per tale “Javier Hernandez”: dopo aver chiesto qualche dettaglio in più, scoprono che in realtà si tratta dell’allora 25enne Kobe Bryant, che deve  alloggiare in Colorado in vista di un’operazione al ginocchio da lui concordata, all’insaputa dei Los Angeles Lakers, per la mattina dell’1 luglio presso la celebre Steadman-Hawkins Clinic di Vail.

 

Il turno di K.F. finisce alle 19, ma si trattiene per poter conoscere il campione, che arriva attorno alle 22 con due accompagnatori/guardie del corpo, Mike Ortiz e Joe Carlson. È lei ad accompagnarlo alla stanza che gli è stata assegnata, la numero 35: i due parlano del più e del meno e poi si accordano per un “giro turistico” del resort e la firma di alcuni autografi, non appena K.F. avrà sistemato anche le due guardie del corpo, che posano i bagagli nelle stanze 18 e 20 e poi si piazzano nella lobby per dissuadere eventuali curiosi dall’andare a disturbare Kobe.

 

K.F. ritorna da Kobe, lo guida attraverso il resort e viene vista chiacchierare, ridere e scherzare con lui dalla sua responsabile Trina McKay e da alcuni clienti: dopo alcuni minuti rientrano in stanza, continuano a flirtare parlando dei tatuaggi della ragazza, finché non iniziano a baciarsi.

 

Da questo momento in poi, le due versioni iniziano a divergere, e la realtà dei fatti diventa cronaca giudiziaria.

 

**********

 

È difficile affrontare un argomento del genere, per molti motivi.

 

Perché la vita privata e quella professionale di un campione dello sport dovrebbero restare separate e nessuna delle due dovrebbe influenzare i giudizi sull’altra — ma allo stesso tempo questa vicenda è qualcosa di più serio di una multa per ebbrezza.

 

Perché un caso così delicato impone di prendere in considerazione il contesto giuridico in cui si colloca: non è sufficiente dire “questi sono gli elementi, giudicate voi”, come si faceva con i calci di rigore qualche anno fa. Quando si parla di reati gravi, l’opinione “da uomo della strada” è irrilevante — e anzi spesso fuorviante.

 

Perché di questo caso si è già parlato e scritto molto, ma quasi sempre per prendere posizione a priori a favore dell’una o dell’altra parte, piuttosto che per fornire un resoconto “asettico” — e non è  obiettivo di questo articolo scatenare l’ennesima cascata di commenti sull’argomento del tenore “Lui è uno stupratore!!!” oppure “No è lei che è una baldracca!!!”.

 

Vogliamo comunque provare a raccontare quello che è successo, e per farlo non possiamo che partire da quel che è emerso durante il processo.

 

***********

 

Il giorno dopo l’incontro, il 1 luglio, K.F. chiama la polizia locale e racconta al vice sceriffo della Eagle County, Marsha Rich, di voler denunciare una violenza sessuale: nel pomeriggio Rich e il detective Doug Winters si recano a casa di sua madre, dove registrano una lunga testimonianza.

 

K.F. dichiara che Kobe, dopo averla baciata per alcuni minuti, avrebbe iniziato a toccarla nelle parti intime e quindi, tenendola ferma per la gola, le avrebbe tolto i vestiti, l’avrebbe fatta chinare su un divanetto e l’avrebbe penetrata da dietro per circa 5 minuti, costringendola poi a lavarsi nel bagno della camera e intimandole di non dire nulla a nessuno.

 

Al termine dell’interrogatorio, la ragazza si fa visitare presso il locale ospedale, dove le vengono riscontrate alcune microlesioni alla “commessura labiale posteriore”, compatibili con una violenza sessuale; gli investigatori raccolgono come prova i suoi vestiti, compresa la biancheria intima, per farla esaminare.

 

Si recano quindi al Lodge con un mandato: prima consultano Trina McKay, superiore di K.F. e addetta al turno di notte, la quale dichiara di aver visto K.F. allontanarsi per 10-15 minuti, poi rientrare, concludere il suo turno contando il denaro in cassa e quindi rientrare a casa, senza dare segni di turbamento o agitazione.

 

Passano quindi a interrogare Kobe, che alle prime domande nega decisamente di aver toccato, abbracciato o persino baciato K.F., ma cambia subito idea dopo che gli investigatori gli fanno notare di aver già sottoposto la ragazza ai test medici. Secondo la sua versione, è stata K.F. a prendere l’iniziativa, prima slacciandosi il vestito per fargli vedere un tatuaggio, e quindi baciandolo; Kobe dichiara che il rapporto sessuale è stato pienamente consensuale, che gli capita spesso di avere rapporti extraconiugali in giro per gli Stati Uniti e sempre con quelle modalità (penetrazione da dietro e mano attorno al collo), e suggerisce agli agenti di accertarlo contattando alcune delle sue amanti abituali. Bryant conclude affermando che il rapporto si è interrotto quando ha chiesto alla ragazza se poteva eiacularle in faccia, ma lei ha rifiutato, e infine consegna spontaneamente i vestiti indossati il giorno prima; nel corso dell’interrogatorio si mostra più preoccupato per la reazione della moglie Vanessa che per le reali implicazioni giudiziarie della vicenda.

 

La conferenza stampa con cui Kobe professa la sua innocenza

 

Il 3 luglio gli investigatori chiedono e ottengono un mandato di arresto: si andrà a processo, che si prospetta un nuovo “processo del secolo”, l’evento giudiziario-mediatico più rilevante dai tempi di O.J. Simpson.

 

Gli ingredienti ci sono tutti: ovviamente la questione di genere, come sempre accade nei casi di violenza sessuale; la questione economica, con la studentessa che lavora part-time durante l’estate contro l’oscenamente ricco campione NBA (il sindaco della città di Eagle, sede del processo, dichiarò che l’anello di fidanzamento da 4 milioni di dollari regalato da Kobe a Vanessa subito dopo i fatti valeva più del doppio dell’intero budget comunale annuo); la questione razziale, visto che l’accusatrice era bianca e biondissima, e l’accusato un nero, all’interno di un contesto sociale etnicamente monolitico (la contea di Eagle è a stragrande maggioranza bianca, borghese e conservatrice, mentre i neri rappresentano solo lo 0,5% della popolazione); la questione mediatica, che fece diventare figure popolari a livello nazionale e internazionale i membri della comunità, le forze dell’ordine, i giudici, la pubblica accusa, gli esponenti politici di un minuscolo paesino di provincia (Eagle contava all’epoca 3500 abitanti, e il suo tribunale godeva di 22 posti a sedere: i soli reporter assegnati a tempo pieno al caso erano circa 500, e tenevano occupati alberghi e ristoranti della zona in un raggio di decine di chilometri).

 

*********

 

Nel corso delle udienze preliminari la pubblica accusa mette a segno un paio di colpi che sembrano poter essere decisivi: prima di tutto l’assegnazione del giudice, che finisce per ricadere su Terry Ruckriegle, noto nel suo distretto per essere molto severo, tendenzialmente più colpevolista che innocentista, e soprattutto col pugno molto pesante al momento di irrogare le sanzioni — che per un reato come questo andavano da un minimo di 4 anni all’ergastolo. Gli inquirenti si fanno forti delle dichiarazioni contraddittorie rese da Kobe, che in prima battuta ha negato di aver avuto qualsiasi contatto, anche solo un abbraccio, con la presunta vittima, salvo ritrattare subito dopo; il tutto senza dimenticare che la composizione della giuria sarebbe stata (per via della composizione etnica della contea di Eagle menzionata in precedenza) a schiacciante preponderanza bianca, rurale e conservatrice, un elemento spesso determinante in casi come questo (O.J. Simpson, per fare un confronto, fu giudicato e assolto da una giuria a maggioranza di colore, estratta da un contesto metropolitano e multietnico).

 

L’accusa, infine, mette a segno un colpo apparentemente decisivo con i risultati degli esami scientifici sui vestiti consegnati da Kobe: all’interno della maglietta usata quel giorno vengono reperite tracce di sperma ma anche di sangue di K.F., verosimilmente derivanti dal fatto di essersi pulito nell’interno della maglia dopo il rapporto; un elemento che, unito alle microlesioni riscontrate nella ragazza, rende molto complicata la difesa del campione, comportando inevitabilmente forti dubbi sul fatto che il rapporto sessuale fosse stato pienamente consensuale dall’inizio alla fine.

 

La partita della difesa, con questo elemento, si mette decisamente male, perché per essere condannati per violenza sessuale non servono gesti eclatanti e terribili, ma è sufficiente che una partner che inizialmente ha acconsentito cambi idea, anche solo per un secondo, e tecnicamente quello diventa (ed è) uno stupro a tutti gli effetti.

 

Le prime buone notizie per Kobe arrivano quando i suoi difensori iniziano a passare in rassegna le dichiarazioni di K.F., scoprendo almeno due palesi contraddizioni: il fatto di esser stata costretta a lavarsi nel bagno della stanza del giocatore, che risulta totalmente inventato; e quello di aver avuto problemi all’auto che l’avevano costretta a entrare al lavoro con due ore di ritardo, quindi costringendola a “recuperare” trattenendosi finché non era arrivato Kobe al resort. Risulta invece che quella mattina K.F. è semplicemente arrivata in ritardo per non aver sentito la sveglia, e di aver atteso l’arrivo di Kobe non per obblighi di turno, ma perché moriva dalla voglia di conoscere il campione.

 

Un altro vantaggio per la difesa arriva dalla condotta approssimativa degli impiegati del tribunale e della procura, che in due distinte occasioni rendono pubblici per errore documenti ufficiali in cui il nome della ragazza viene riportato per esteso e non “nerettato”: in ogni caso di violenza sessuale proteggere l’identità della vittima è fondamentale, e lo è a maggior ragione in una situazione in cui l’accusato è un soggetto di tale notorietà pubblica. I documenti incriminati vengono subito corretti, ma su Internet ormai girano senza controllo le generalità complete della ragazza, che inizia a subire decine di telefonate, lettere, email di insulti, richieste di interviste, interessi morbosi e quant’altro. Si verifica addirittura l’arresto di un figuro che si era proposto all’entourage di Kobe per uccidere la ragazza.

 

La vera svolta in favore della difesa arriva però in occasione delle udienze sulla “rape shield law” del 21 e 22 giugno 2004: in base alla legge USA, nei processi per violenza sessuale non è ammesso argomentare in merito alla condotta della vittima, dato che il processo al presunto colpevole non può diventare un processo alla vittima. Allo stesso tempo, le qualità personali della vittima non devono avere alcuna rilevanza in un processo per violenza sessuale: quel che conta è l’atto compiuto dal perpetratore, vale a dire se è o non è una violenza sessuale — a prescindere dal fatto che la vittima sia una suora o una donna di facilissimi costumi, una persona innocente e timida o una provocatrice. [Per questi stessi motivi, in questo pezzo abbiamo preferito menzionare l’accusatrice soltanto con le sue iniziali: benché la sua vera identità sia, come detto, agevolmente reperibile in rete, così come le sue foto, i suoi profili social, le sue vicende successive, queste sono tutte informazioni che non hanno alcuna attinenza (né giornalistica né giuridica) col merito della vertenza, e possono avere un valore soltanto da un punto di vista sensazionalistico, morboso e/o “gossipparo”, ambiti che questo sito e l’autore di questo pezzo non hanno alcun interesse a cavalcare o enfatizzare.]

 

Tornando alle udienze del 21-22 giugno 2004, la difesa di Kobe punta a fare ammettere numerose prove mirate a mettere in discussione la credibilità, la condotta morale e sessuale, l’equilibrio emotivo e anche mentale della ragazza: ci si attende che tutte queste istanze vengano respinte dal giudice senza battere ciglio, per le ragioni appena esposte, ma tutto cambia quando arrivano gli esiti degli esami del DNA effettuati sulla vittima e sui suoi indumenti.

 

Da quelli emergono evidenze di DNA e peli pubici di un maschio bianco caucasico sia sulla ragazza che su entrambi gli slip esaminati, sia quelli che indossava il 30/6 che quelli che aveva addosso quando si era recata in ospedale il giorno dopo. La procura tenta di sostenere che si tratti di tracce di DNA risalenti nel tempo, ma secondo gli esperti quelle risultanze sono verosimilmente compatibili con il fatto che K.F. abbia avuto rapporti sessuali con questo sconosciuto maschio bianco caucasico (che la difesa identifica con un suo ex fidanzato, tale Herr, o con il collega Bobby Pietrack) poco prima e/o poco dopo gli eventi del 30 giugno, nelle 15 ore intercorse tra l’incontro con Kobe e gli esami in ospedale.

 

Queste risultanze cambiano tutto: la difesa a questo punto può validamente sostenere che le prove sulla condotta sessuale di K.F. non siano volte a screditarla, ma ad accertare se le sue lesioni non possano derivare da differenti rapporti sessuali avuti in prossimità di quella notte al Cordillera. Il giudice a quel punto non può che accettare tale argomentazione, autorizzando la difesa ad introdurre nel giudizio anche il comportamento tenuto da K.F. fino a 72 ore prima dell’arrivo di Bryant all’hotel.

 

L’accusa continua a fingere sicurezza, ma gli avvocati e la famiglia della ragazza ritengono il caso ormai compromesso, imputandolo a errori e leggerezze della pubblica accusa: il 10 agosto 2004, K.F. cita Kobe in una causa civile di risarcimento danni per “lo stress e le sofferenze mentali e fisiche” patite, chiudendo di fatto il processo penale. La parte lesa in un processo penale normalmente ne attende gli esiti, prima di introdurre la causa civile di risarcimento danni: farlo nel corso del processo significa ammettere che la parte lesa ritiene il processo penale inevitabilmente compromesso, e al tempo stesso rende impossibile utilizzare la sua testimonianza, per l’interesse economico che viene ad avere nell’esito del processo.

 

Il 1 settembre 2004, mentre sono in corso le operazioni di selezione della giuria popolare, a una settimana dall’inizio del processo vero e proprio il Procuratore Distrettuale Mark Hurlbert si vede costretto a ritirare tutte le accuse, avendo perso la pietra angolare dell’intera accusa, la testimonianza di K.F. Il successivo 5 marzo, le parti interessate chiudono la causa civile con un accordo monetario, e sulla vicenda cala definitivamente il sipario con una dichiarazione scritta in cui Kobe si scusa per l’accaduto con la ragazza, la sua famiglia, i tifosi e i cittadini del Colorado.

 

*********

 

Il “Giudicate voi”, come detto, non si può utilizzare: il processo penale non è una partita, non è un gioco, e non si può sostituire alla verità giudiziaria la verità “logica” o “secondo il senso comune”.

 

La vicenda rimane peculiare: entrambe le parti hanno mentito spudoratamente nel corso dei primi interrogatori, e hanno visto le loro affermazioni contraddette da prove fisiche; è certo che nell’incontro tra i due ci sia stata una notevole componente di consenso iniziale, ed è però verosimile che questo consenso, anche se solo alla fine, e solo per un istante, sia venuto meno.

 

Resta in sospeso, e lo resterà per sempre, l’interrogativo se quel “sì” sia veramente diventato un “no”. Ma gli unici a saperlo resteranno le due persone coinvolte.

 

Tags : coloradokobe bryantnbaprocesso

Francesco Andrianopoli: classe 1980, avvocato, folgorato dal basket NBA nell'adolescenza dopo essere stato cresciuto esclusivamente a pane e calcio. Parla di NBA su Ball don't lie e ne ha scritto su Play.it Usa.

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