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Daniele Manusia

Il gol di Joao Felix vi ha ricordato qualcosa?

Contro lo United un raro momento di armonia per il portoghese.

Vedendo Joao Felix colpire in tuffo il cross di Renan Lodi la memoria è andata al 13 giugno 2014, quando Robin van Persie ha segnato, sempre in tuffo, nella partita d’esordio dell’Olanda al Mondiale. Prima di parlare del gol di Felix però è bene ricordare quello di van Persie, la cui bellezza dipende da più fattori e prima di tutto dal contesto. 

 

Davanti, quel giorno, c’era la squadra più forte degli ultimi sei anni, la Spagna capace di vincere Europeo-Mondiale-Europeo, la Spagna con a centrocampo Sergio Busquets, Xavi e Xabi Alonso, con Iniesta e David Silva esterni d’attacco (e l’intruso, tatticamente parlando, Diego Costa). La Spagna che aveva battuto l’Olanda in finale del Mondiale precedente, nonostante l’Olanda avesse provato a fermarla in tutti i modi, anche a costo di diventare violenza – una finale con 15 cartellini gialli, di cui 9 olandesi, che ha chiuso la partita con l’uomo in meno. 

 

L’Olanda del 2010 era stata definita «brutta» e «volgare» da Johan Cruyff, ma anche quella del 2014, con van Gaal in panchina, era arrivata all’esordio tra le critiche e lo scetticismo. Insoddisfatto dai risultati ottenuti con il 4-3-3 van Gaal aveva deciso, nell’ultima amichevole prima del Mondiale, contro l’Ecuador, di provare la difesa a 3, confermata nella partita contro la Spagna, con Sneijder trequartista e Robben, un po’ a sorpresa, seconda punta. Quel giorno, con una luminosa intuizione, van Gaal ha inaugurato – ormai otto anni fa – un nuovo ciclo fortunato per un 3-4-1-2 (3-4-2-1) fortemente orientato sull’uomo e sull’attacco in transizione che, poi, tanto per fare un esempio, avremmo visto nel Genoa e nell’Atalanta di Gasperini. 

 

«Conta solo vincere. Voglio vincere», aveva detto van Gaal che, a quanto pare, aveva predetto con particolare precisione l’andamento della partita con la Spagna. «Se avessi visto la sue previsioni, e poi come è andata la gara… incredibile», ha detto van Persie dopo la partita. Persino il suo primo gol, quello del pareggio a fine primo tempo – dopo che la Spagna era andata in vantaggio su rigore ed entrambe le squadre si erano divorate un’altra occasione a testa – faceva parte del piano: «Il cross di Daley Blind era fantastico, ma è stata la copia esatta di quello che avevamo fatto in allenamento». Per questo dopo il gol ha fatto cinquanta metri di corsi per dare il cinque a van Gaal (strana forma di esultanza al tempo stesso intima e distaccata, che non è un abbraccio ma neanche un dito puntato da lontano per ringraziare). 

 

L’Olanda ha demolito la Spagna con altri quattro gol nel secondo tempo, tutti in seguito a transizioni feroci e così naturali che quella partita sembrava aver messo fine al dominio del calcio spagnolo una volta per tutte. 

 

Quindi Van Persie ha eseguito un gesto spettacolare, geniale, all’interno di un contesto studiato. In contraddizione col fatto che si è trattato di uno schema preparato c’è la descrizione, sempre di van Persie, del suo colpo di testa come «un azzardo» tentato dopo aver visto Iker Casillas fuori dai pali. Una cosa, poi, è sfruttare lo spazio alle spalle di una difesa alta – e sfruttare l’ampiezza per cambiare gioco e trovare l’esterno relativamente libero, come era Blind in quell’occasione – un’altra è trovare con precisione da orologiaio il tempo dell’inserimento sfruttando l’abbassamento di Piqué (che ha seguito Robben) e la disattenzione di Sergio Ramos e Jordi Alba, in mezzo a cui è passato van Persie.

 

È impossibile ridurre un gesto del genere al contesto tattico. I dettagli contano troppo. A cominciare dal fatto che, poco prima di mettersi a correre a tutta velocità, van Persie si stava aggiustando i calzettoni, un gesto che forse ha contribuito a far rilassare Sergio Ramos davanti a lui.

 

Poi ci sono la bellezza del lancio di Blind, che vede il punto in cui può arrivare van Persie con una manciata di secondi di anticipo su van Persie stesso; la plasticità del suo tuffo, l’incontro a mezz’aria con la palla, la frustata con cui riesce a darle una spinta ulteriore per scavalcare Casillas (che era tornato indietro di pochi passi dopo aver abbozzato l’uscita ma si trovava comunque con i piedi sul limite dell’area piccola). «Un colpo di testa», ha detto van Persie, secondo cui è stato il più bel gol della sua carriera, «Ma un colpo di testa a pallonetto. Un gran gol». 

 

C’è qualcosa di “classico”, di armonico in senso assoluto. Si tratta di uno di quei gol che, se lo hai visto dal vivo, non dimenticherai mai. Quell’anno van Persie è arrivato secondo al premio Puskas, dietro al tiro al volo di James Rodriguez contro l’Uruguay in quello stesso Mondiale, un gol forse altrettanto indimenticabile e persino più classico – in particolare per l’armonia con cui James controlla la palla col petto seguendo poi il movimento della stessa verso il suo piede sinistro.

 

Ancora oggi è vivissima l’impressione di bellezza unita alla sorpresa e allo shock di vedere la Spagna ferita così facilmente, con un lancio da metà campo e un colpo di testa quasi dal limite dell’area. 

 

Il gol di Joao Felix, ovviamente, non può avere questo tipo di epica. 

 

(Chris Brunskill/Fantasista/Getty Images)

 

L’ottavo di finale di Champions League tra Atletico e Man United aveva intorno un’aura un po’ decadente. Entrambe le squadre sono lontane dalle migliori dei loro rispettivi campionati, con lo United di Ragnick impantanato in un eterno rinnovamento impossibile, e quella di Simeone che è la fotocopia sbiadita di quella che non avrebbe subito gol in casa neanche giocando novanta minuti nella propria area di rigore – e infatti ha preso il gol del pareggio per un errore banale, sull’unica occasione avversaria. 

 

E poi Joao Felix non è van Persie. Non ha la sua freddezza – che era cinismo e senso di superiorità – non ha neanche la sua eleganza – che è, per definizione, sempre, nonchalance, leggerezza, l’illusione che tutto sia naturale. Joao Felix sembra in continua lotta con quello che lo circonda per ottenere il risultato minimo alla portata del suo talento: la titolarità in una grande squadra e qualche bel gol. E invece, dopo essere stato acquistato per 127 milioni nel 2019, è ancora a metà tra strada tra il campo e la panchina, il migliore in campo in partite deludenti per l’Atletico, come quella di ieri, sostituito a un quarto d’ora dalla fine. Griezmann ha fatto in tempo a vincere un Mondiale, andare al Barcellona, fallire, e tornare, che Joao Felix è sempre al punto di partenza.

 

L’eleganza del suo tocco, di quei palloni che si sposta con l’interno o con l’esterno del piede, ruotando sul posto, girandosi verso la porta e poi strappare in avanti, come all’improvviso qualcuno avesse tolto il freno a mano a una macchina parcheggiata in discesa, raramente porta a qualcosa di utile. Paradossalmente, nelle sue partite migliori, è il volume di gioco a sembrare la parte più solida del suo talento, la sua capacità di giocare con continuità in spazi stretti, la qualità nei filtranti, o nei cross, più che il dribbling o il tiro. Finisce, però, per influenzare la partita con giocate banali, tutto sommato, per uno con le sue qualità. Forse per questo sembra pigro ad alcuni, per questa impressione di potenziale inespresso, trattenuto, come se fosse Joao Pedro a volercelo negare. 

 

Ed è ancora più strano che un gol così bello, forse uno dei più belli e importanti della sua carriera, lo abbia segnato di testa. Si spiega, almeno in parte, sapendo che il padre, professore di educazione fisica, lo allenava proprio sui colpi di testa. «Mi diceva che, secondo lui, i gol più belli erano quelli di testa», ha raccontato. Non esattamente Oliver Bierhoff, o Miro Klose, in realtà Joao Felix ha segnato il suo primo gol da professionista (alla sua seconda presenza con la prima squadra del Benfica in un derby con lo Sporting), con un bel colpo di testa. Meno bello, certo, di quello segnato allo United.

 

Nel secondo tempo, poco prima di uscire, Joao Felix ha tentato un’improbabile rovesciata da una posizione defilata dentro l’area di rigore. Se fosse entrato, lo avrebbe segnato senza dubbio lì, il gol più bello della sua carriera. Ma il pallone è finito – proprio come un banale tiro a giro di destro dal limite, dopo pochi minuti dall’inizio della partita – in mezzo ai tifosi. Joao Felix è schiacciato tra momenti di quel tipo, in cui sembra inoffensivo, un gatto tigrato che soffia minaccioso sentendosi una tigre, e momenti di una bellezza fulminante. In quei momenti, come nella partita contro il Salisburgo dell’ottobre del 2020, Felix sembra poter diventare – essere già – uno tra i giocatori offensivi più completi e devastanti in assoluto. Non sembra più sotto sforzo, ma semplicemente potente, pieno di energia.

 

Nel gol segnato dopo sette minuti allo United Joao Felix restituisce ancora questa impressione di eleganza violenta. Il movimento che fa è complesso, anzitutto perché deve aspettare che Renan Lodi, a cui la palla è arrivata in seguito a un calcio d’angolo battuto lungo dalla parte opposta del campo, salti Fred per ricavarsi lo spazio per il cross. E poi perché non passa dietro a Maguire – come ha fatto van Persie con Ramos – bensì davanti, bruciandolo nei primi passi e colpendo quindi all’altezza del primo palo. 

 

De Gea non si è mosso dal centro della porta, forse aspettandosi una palla deviata sul secondo palo, visto che il cross di Lodi era alto e piuttosto lento. Probabilmente non aveva letto le interviste di Felix e non considerava la sua abilità nel gioco aereo un problema: esattamente come van Persie, Felix si stacca da terra dandosi lo slancio per arrivare con forza sulla palla, colpendola poi con un movimento secco, mandandola dritta e forte sul primo palo. Per capire con quanta forza abbia saltato basta guardarlo mentre cade a terra e rotola per quattro o cinque metri. Per capire con quanta forza ha colpito la palla, invece, basta guardare De Gea seguire la palla che va da un palo all’altro senza permettergli di muovere nessun muscolo se non quelli del collo.

 

Joao Felix ha trovato un “grande” momento all’interno di una sua “grande” partita. Una cosa scontata per i “grandi” giocatori, ma non così facile da ottenere per lui. La combinazione di forza, velocità, tecnica ed eleganza di quel colpo di testa però rappresenta bene le potenzialità del suo talento, che Simeone fatica a sfruttare (quest’anno a dirla tutta, sembra faticare a sfruttare anche il resto della squadra) e che forse non tutti hanno ancora capito.

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).