Nel finale di Donnie Brasco, dopo aver scoperto di essere stato tradito dall’agente dell’FBI Johnny Depp, che aveva introdotto a tutto il resto della famiglia mafiosa, Al Pacino sa di dover morire. Quando riceve la telefonata, mentre guarda un documentario su delle iene, si sfila tutti gli anelli dalle dita, la collana dal collo, il fermasoldi e i soldi dalla tasca del cappotto, saluta la bellissima moglie e dice: «Se chiama Donnie, digli che se proprio doveva farlo qualcuno sono contento che l’abbia fatto lui». Sottintendendo: se proprio qualcuno doveva tradirmi. Ovviamente anche Donnie ci sta malissimo e quando riceve la medaglia, per il suo tradimento, sembra volerla ingoiare e farla sparire. Chissà se si sono sentiti come Al Pacino i tifosi del Milan, o almeno alcuni tifosi del Milan, quando Hakan Calhanoglu si è procurato e ha trasformato il rigore del momentaneo vantaggio nel derby di inizio novembre, dopo aver indossato la maglia rossonera per quattro stagioni - se proprio deve segnarci qualcuno in questo derby, Hakan, sono contento sia stato tu. Non credo. Di sicuro Calhanoglu non si è sentito come Johnny Deep, non c’era ombra di rimorso, o quanto meno di dispiacere, mentre si portava le mani sulle orecchie chiedendo a San Siro di fischiarlo più forte.
Nella realtà - che non è vero che è scadente, per citare l’ultimo film di Sorrentino, semmai solamente meno poetica di alcune sceneggiature, si arrangia meno bene sui bisogni del pubblico - il tradimento scatena sentimenti più complessi e difficili da definire. I tifosi del Milan, ad esempio, hanno dedicato a Calhanoglu uno striscione in cui, al di là della misoginia più evidente (ancora col rinfacciare all’uomo la vita sessuale della donna stiamo?) era curioso che loro, appena traditi, ricordassero un presunto tradimento da lui subito. Non lo so, ma ci vedo un’amarezza simile nelle parole di Zlatan, che nel suo ultimo libro ha scritto che Calhanoglu ha «tratto vantaggio» dalla situazione di Eriksen, per rimediare un’offerta che altrimenti non avrebbe avuto. Che Zlatan parli da persona ferita si capisce quando aggiunge: «Prima che arrivassi io, Çalha non faceva i numeri che ha tirato fuori dopo», e si chiede se riuscirà a fare le stesse cose senza di lui. Be’ la realtà, questo animale ingannevole, difficile da afferrare, sorprendente, sta facendo invecchiare alla velocità della luce queste parole.
Dopo quattro mesi in nerazzurro Calhanoglu non solo è lanciato per realizzare la sua miglior stagione da quando è in Italia per quanto riguarda gol e assist (rispettivamente 6 e 7 al momento; 9 e 9 due anni fa) ma qualcosa sembra essersi sbloccato in lui proprio il derby. Ovvero: nelle ultime 7 partite di campionato ha segnato 5 gol e realizzato 5 assist. Tra cui 3 assist e 1 gol da calcio d’angolo. Se si sommano gol e assist (13) ha realizzato o assistito un gol ogni novanta minuti. Il suo rendimento offensivo in Serie A non è mai stato così buono se si eccettua la prima stagione al Milan - 0.51 npxG + xA (Expected Goals senza rigori più Expected Assist) in media ogni novanta minuti, contro gli 0.57 della prima stagione in cui, però aveva realizzato 6 gol e 6 assist in tutto - e insomma viene da chiedersi se manchi di più Hakan a Zlatan che non il contrario.
Sembrerebbe scontato, considerando che l’Inter è la squadra campione in carica e che nell’ultimo mese, con sei vittorie consecutive, 16 gol fatti e solo 2 subiti (entrambi dal Napoli), si è ripresa il primo posto in classifica. Ma basta andare con la memoria al suo passaggio in nerazzurro, in un momento in cui non solo sembrava difficile sostituire Eriksen ma anche il Luis Alberto che Simone Inzaghi aveva avuto a disposizione alla Lazio, per ricordare che c’era più di un dubbio sulla sua possibile riuscita in nerazzurro. Tanto per cominciare quando aveva giocato in un 3-5-2, con Montella, si era trovato male; secondo poi Calhanoglu aveva sempre dato il meglio in sistemi di gioco verticali e intensi, che gli permettessero di giocare in transizione sfruttando gli spazi aperti e il disordine. Mentre l’Inter di Inzaghi, si poteva immaginare anche per via dell’assenza di Lukaku, sostituito da un giocatore come Dzeko, meno dinamico ma perfetto per tenere palla e far salire il resto della squadra, sarebbe stata una squadra dal baricentro più alto, dalla manovra più ragionata.
Che Calhanoglu fosse stato così a proprio agio, così influente da subito, e che l’Inter avesse trovato così rocambolescamente, sottraendolo proprio alla rivale cittadina, la mezzala di possesso che le serviva, non era affatto detto.
Federico Aqué, confrontando Calhanoglu con Luis Alberto, sottolineava la fondamentale differenza tra i due giocatori: «(Calhanoglu) Può affettare uno schieramento disordinato, ma non gli viene facile disordinarlo in prima persona, manipolare la pressione, attirarla per poi dare la palla al compagno che si libera alle spalle, fare passaggi interlocutori solo per muovere le linee avversarie e trovare lo spazio migliore in cui far avanzare la palla».
Una spiegazione diretta dell’adattamento di Calhanoglu in nerazzurro sta proprio nel fatto che queste sue mancanze tecniche e tattiche sono compensate dal sistema di gioco e dalle qualità dei suoi compagni di squadra. Un esempio utile viene dal gol di Dzeko alla Roma. In molti hanno sottolineato la fluidità posizionale dell’Inter e, in particolare, di Alessandro Bastoni, finito nel cuore dell’area di rigore romanista; in pochi però hanno sottolineato l’inserimento di Calhanoglu e il suo passaggio per il numero 9, staccatosi dalla linea difensiva. La fluidità dell’Inter serve proprio a disordinare lo schieramento avversario, senza bisogno che sia un giocatore in particolare a vedere un passaggio che altri non vedono o a spezzare individualmente l’inerzia.
D’altra parte, a pensarci bene, neanche gli altri giocatori offensivi dell’Inter sono pienamente autosufficienti, né Lautaro, né Dzeko, né Barella, né Perisic, né Dumfries, né Correa, né Sanchez. Nessuno di loro è il tipo di giocatore in grado di cominciare e finire un’azione partendo dalla trequarti, o di inventare un pericolo con una giocata totalmente inaspettata. O meglio, può capitare ad ognuno di loro in un determinato momento particolarmente creativo - compreso Calhanoglu che contro il Genoa, il Cagliari e il Venezia ha segnato da fuori area e contro la Juventus ha fatto segnare Dzeko dopo aver preso l’incrocio dei pali - ma nessuno di loro può mettersi sulle spalle l’intera forza offensiva di una squadra che ambisce a vincere lo Scudetto e a fare bene in Europa.
Sono pochi, però, i giocatori con qualità tali da poter brillare indipendentemente dal sistema, senza bisogno di conoscere e collaborare con i propri compagni. Anzi, il valore di un giocatore è inscindibile da quello del contesto, e questa forse è la cosa che ci si dimentica più spesso quando si valuta i singoli calciatori. Ma quando si parla di Calhanoglu, forse confondendolo con i numeri 10 tradizionali, ci si dimentica anche che è un calciatore quantitativo, con un grande volume di gioco, cioè, oltre ad alcune qualità tecniche eccezionali.
A inizio stagione, scrivendo del Milan 2021-22, sostenevo che «Calhanoglu, semplicemente, faceva moltissime cose e sarà difficile sostituirlo». Lo scorso anno era fondamentale sia per risalire il campo (dopo Theo, Calabria e Kessié: e non è un caso che mancando 3 su 4 di questi giocatori il Milan stia faticando in questa parte di stagione) sia per finalizzare (dopo Ibra era quello che calciava di più in porta ed era anche il giocatore a creare più tiri con una giocata immediatamente precedente: un dribbling, un passaggio, un fallo subito). Quest’anno nell’Inter svolge le stesse funzioni, ma con modi e pesi diversi.
Tanto per cominciare, la costruzione dell’Inter si poggia sul quadrilatero formato dai tre difensori e da Brozovic, e la pressione avversaria si concentra soprattutto sul centrocampista croato, al fianco del quale Calhanoglu di tanto in tanto si abbassa per scambiare con la difesa o permettergli di muoversi e scrollarsi la marcatura di dosso. Ma non è lui il giocatore centrale in questa fase (già Federico Aqué in fondo sottolineava come non fosse mai stato un accentratore di gioco): le qualità indiscutibili di Brozovic, di gran lunga il giocatore ad effettuare più passaggi nell’Inter e quello ad aver fatto risalire più metri alla propria la squadra passando la palla, e l’abitudine dei difensori a giocare in avanti, specialmente Bastoni (secondo in entrambe le statistiche citate per Brozo), fanno sì che Calhanoglu e Barella, che si divide con lui questo compito, facciano spesso da uomo in più, un appoggio che garantisce fluidità alla circolazione senza vere e proprie responsabilità.
Quando è pressato (come successo contro il Napoli, ad esempio) ha quasi sempre una soluzione da giocare con pochi tocchi, o con una sponda di prima, senza bisogno di eludere l’avversario e girarsi, ma anche quando non viene seguito e riceve palla comodamente più che cercare per forza di cose un passaggio verso le punte si limita a gestire il possesso con un giocatore vicino, o a cercare uno sfogo laterale. Il suo dinamismo - con movimenti che compensano quelli di Barella in modo da non abbassarsi simultaneamente - e la capacità di giocare sul breve come sul lungo cambiando campo si adattano bene a un gioco più orizzontale di quello a cui era abituato.
La sua corsa aggiunge ritmo e soluzioni alla manovra già ben oliata dell’Inter, rende più imprevedibile la sua manovra e si incastra bene con la fluidità che porta anche i difensori al lato del centrale a spostarsi con grande libertà. Sulla trequarti l’occupazione migliore degli corridoi da parte dell’Inter lo aiuta a non forzare la giocata, trovando spesso un appoggio sicuro verso il centro (Brozovic o alla sua altezza Barella) o un cambio di campo utile a smuovere la situazione e, per lui, di semplice esecuzione. Anche il fatto di avere un attaccante in più davanti a sé, nella fascia centrale del campo, lo aiuta a trovare un appoggio o gli crea lo spazio in cui infilarsi. Non deve fare niente di eccezionale, se non è un eccezionale “possibile”, con dei presupposti creati dal lavoro collettivo.
Il numero di passaggi (sempre in media ogni 90 minuti, secondo Statsbomb) è aumentato rispetto allo scorso anno (68.8 quest’anno, 56.7 lo scorso) ma è aumentata anche la sua precisione (da 77.4%, la passata stagione, a 81.6% in quella corrente). E anche se il numero di tiri è pressoché identico, è migliorata la percentale di goal per tiro in porta (più o meno il doppio degli scorsi anni: 0.44 contro un massimo in rossonero di 0.21) segno, secondo me, che all'Inter le condizioni in cui arriva al tiro gli permettono di essere più efficace.
Al tempo stesso Lautaro Martinez, Edin Dzeko e persino Dimarco hanno creato più xG (senza rigori) e xA di lui in media (a cui si aggiungono Sanchez e Vecino, che però hanno giocato meno della metà dei suoi minuti) e Dumfries e Barella (e anche Gagliardini, per cui vale lo stesso discorso di Sanchez e Vecino) gli sono vicini. Martinez, Dzeko, Sanchez e Vidal tirano in porta più di lui. Brozovic è il giocatore a far entrare più palloni nell’ultimo terzo di campo; Barella, Dimarco, Bastoni, Vida, D’Ambrosio, Brozovic e Perisic, tutti hanno portato palla in avanti più di lui. Insomma, non è più lui a dover fare volume per il resto della squadra, e diminuendo l’urgenza delle sue giocate sembra aumentata la sua capacità di selezione.
Ma forse l’aspetto che è più migliorato, la parte del gioco di Calhanoglu che il sistema dell’Inter ha più facilitato, è la lettura degli spazi e la gestione della velocità. Se già prima eccelleva nelle letture in verticale, in un campo lungo, sembra essersi adattato velocemente a un gioco più palleggiato, che gli chiede di galleggiare sulla trequarti, o far muovere il pallone da un lato all’altro del campo, prima di accelerare e provare l’imbucata o l’inserimento.
Oggi si trova in una squadra che crea di più (2.21 xG ogni novanta minuti, in media, contro gli 1.87 del Milan lo scorso anno) con giocatori dalle caratteristiche che forse si incastrano meglio con le sue e un gioco che lo sgrava da responsabilità individuali troppo grandi. Non c’è un giocatore magnetico come Ibra su cui far finire tutte le azioni, né un portatore di palla a cui fare spazio come Theo (Dumfries, anzi, preferisce prendere velocità senza palla, l’ideale per lui). Ma anche Lautaro sembra associarsi meglio con lui di quanto non facessero, per dire, Leao o Rebic, mentre Brozovic è un regista molto più indipendente di Bennacer o Kessié. Anche quando si tratta di battere i calci piazzati, 5 dei 7 assist realizzati finora vengono da angolo - fa comodo avere compagni abili nel gioco aereo come Skriniar, Dzeko o Perisic.
In una squadra in cui tutti fanno un po’ di tutto - anche lui difende, in avanti e all’indietro, pur non essendo la sua specialità - Calhanoglu sembra essere diventato un giocatore più completo. Non più un numero dieci incapace di produrre con costanza giocate di qualità, quanto un centrocampista offensivo che lavora sodo, e di tanto in tanto, non in tutte le partite magari, non ogni volta che ha la palla tra i piedi sicuramente, si lascia andare a una giocata più brillante, a una lettura più profonda o a un’iniziativa più pericolosa delle altre. In fin dei conti sembra che a Calhanoglu faccia bene essere un giocatore meno fondamentale per la sua squadra.
Per qualcuno magari si tratta di un ridimensionamento, di un aggiustamento al ribasso delle sue ambizioni, ma i numeri di Calhanoglu dicono il contrario, che forse è proprio cedendo un po’ di centralità che ha potuto concentrarsi sulle cose che gli riescono meglio, dando potenzialmente una nuova dimensione al suo gioco.