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Foto di Streeter Lecka/Getty
Classificone Redazione basket 2 gennaio 2017 10'

I 10 giocatori che hanno fatto il botto nel 2016

Chi è migliorato di più nel corso degli ultimi 12 mesi di NBA?

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Giannis Antetokounmpo

di Lorenzo Neri

 

Nei suoi primi 30 mesi di carriera NBA, Giannis è diventato velocemente un fenomeno virale: la sua capacità di eseguire giocate apparentemente impossibili per uno con le sue misure gli hanno permesso di diventare un habitué di highlights e top-10, tanto che su Twitter venne lanciato un account (@GreekFreakAlert) che raccoglieva tutte le volte che il fenicottero greco si faceva notare nelle nottate di partite.

 

Ma se la sua reputazione da Internet sensation stava crescendo a dismisura, allo stesso modo aumentavano i dubbi su come incanalare il potenziale di un giocatore così particolare e inedito, un concentrato di forti istinti per il gioco ma con una duttilità tattica ancora inesplorata e, a una prima valutazione, inesplorabile.

 

La svolta si è avuta nella partita del 22 febbraio contro i Los Angeles Lakers, quando per la prima volta Jason Kidd ha deciso di dare il via all’operazione Point Giannis. Dandogli le chiavi dell’attacco, Kidd ha potuto sviluppare un nuovo concetto di giocatore, capace di sfruttare l’inedito mix di stazza-agilità-velocità per innescare l’azione offensiva della squadra.

 

Sebbene i Bucks facciano ancora fatica a trovare continuità nelle prestazioni, è chiaro che l’esperimento stia trovando le giuste risposte, come dimostra l’immagine qui sotto.

 

foto1

 

L’esplosione di Antetokounmpo non si limita solo al campo statistico – sul parquet ogni sera dimostra di aver fatto quello step nella comprensione del gioco che gli permette questa continuità di rendimento, aggiungendo una componente mentale che, combinata a quella atletica, fa di lui un giocatore rivoluzionario.

 

 

La dimostrazione della maggiore consapevolezza nei suoi mezzi: nonostante lo sforzo per recuperare palla (tra l’altro: dov’è andato a prenderla?!?!), Giannis ha comunque la lucidità per servire Teletovic utilizzando un palleggio in più per attirare la massima attenzione di Luis Scola. Con questi spazi sono 3 punti facili per il bosniaco.

 

L’aspetto che fa rabbrividire (in senso positivo, ovviamente) è la sensazione che comunque stia ancora grattando la superficie del potenziale che lo avvolge, mostrando continui miglioramenti sera dopo sera. Oramai Giannis non è più una notizia e non lo sarà neanche una più che probabile convocazione all’All Star Game di Febbraio.

 

 

Isaiah Thomas

di David Breschi

 

Il percorso che ha portato Isaiah Thomas a diventare il punto di riferimento dei Boston Celtics partendo dalla 60° chiamata assoluta del Draft 2011 è affascinante: quando venne scelto in pochi si immaginavano potesse “fare la squadra”, poi nel corso degli anni in molti si erano ricreduti tra Sacramento, Phoenix ed infine Boston, ma nessuno si poteva aspettare un impatto del genere.

 

I 27.7 punti a partita che sta mietendo con una continuità disarmante – 19 ventelli consecutivi, la striscia attiva più lunga in questa stagione dell’intera NBA, 30 volte in 31 partite oltre i 20 punti con l’unica eccezione dei 18 segnati contro i Warriors lo scorso 18 novembre e molte escursioni oltre i 30 culminate con i 52 segnati agli Heat stanotte – lo proiettano al 5° posto della classifica marcatori, ma stanno anche assumendo contorni storici: nella storia della lega nessun giocatore sotto i 180 cm ha mai avuto una media punti così alta.

 

Il suo gioco è un tripudio di accelerazioni e ripartenze, cambi di direzione e velocità, arcobaleni e zingarate a canestro: segna 10.2 punti a partita in penetrazione, top NBA ed è in grado di finire al ferro con il 55% su oltre 7 tentativi a sera – solo Westbrook tra i “piccoli” arriva al ferro più di lui – in un sistema offensivo che gli permette di essere servito sempre in movimento e trovare facilmente la via del canestro. Questo 2016 è stato decisamente il suo anno della svolta.

 

 

Contro la miglior difesa NBA, slalom gigante attorno 4 difensori per chiudere con il gioco da tre punti nel cuore dell’area.

 

 

Kyrie Irving

di Davide Bortoluzzi

 

Su Kyrie Irving ci sono sempre state grosse aspettative fin dai tempi dell’high school, passando per l’anno speso a Duke. Un anno dove Irving ha dimostrato molto del proprio potenziale, ma anche caratterizzato da un infortunio che ne ha condizionato il rendimento e di riflesso i risultati di squadra. Nel 2011 l’arrivo a Cleveland con la prima scelta assoluta nell’era post “The Decision” lo ha caricato delle responsabilità di salvatore della patria, in un contesto tecnico e dirigenziale però incompatibile con una mentalità vincente. Dopo il premio di Rookie dell’Anno nel 2012 sono seguite stagioni grigie sul piano dei risultati per la squadra, con in panchina Byron Scott e Mike Brown e le scelte discutibili al Draft di Anthony Bennett e Sergei Karasev. Dal punto di vista statistico Irving è stato stabilmente tra le migliori PG della lega anche in quel periodo, senza tuttavia poter dimostrare in maniera completa, e quindi vincente, tutte le sue qualità. Anche se il 2015 è stato l’anno della svolta, con il ritorno di James ed il raggiungimento delle Finals, l’infortunio che lo ha costretto a stare fuori nelle gare decisive ha comunque lasciato l’amaro in bocca. Il 2016 è invece stato sicuramente l’anno della definitiva esplosione, delle scimmie tolte dalle spalle, della piena consacrazione – della vittoria, appunto. L’epica ha un ruolo spesso fondamentale nello sport, per questo la sua gara-7 la scorsa estate segna inevitabilmente il passaggio dalla rincorsa a quello della consacrazione, che si esprime perfettamente con il tiro qui sotto. Kyrie è definitivamente un vincente.

 

 

 

C.J. McCollum

di Dario Vismara

 

Dei miglioramenti di C.J. McCollum ci ha parlato a lungo e in maniera più che eccellente Lorenzo Neri poco tempo fa, perciò mi limito ad aggiungere solo pensieri brevi e sparsi sul “Most Improved Player” della scorsa stagione. Se io fossi un giocatore NBA, vorrei essere C.J. McCollum – e non solo perché sogno il giorno in cui rifonderà Grantland e rivoluzionerà la figura del giocatore-che-diventa-giornalista, ma perché ci ha messo tutto l’impegno possibile e immaginabile per trovare il suo spazio nella NBA, spremendo fino all’ultima goccia il quantitativo di talento che Madre Natura gli ha fornito. Ogni volta che McCollum attacca sembra conoscere perfettamente ogni centimetro quadrato del campo e sa esattamente cosa quanti passi gli servono per arrivare a quello che vuole fare, come un saltatore in lungo che ha stampato in testa la quantità e la lunghezza dei passi di cui ha bisogno per arrivare preciso all’appuntamento con la pedana. McCollum sa che non può permettersi di sbagliare di un centimetro i complicati passi della sua danza verso l’ennesimo tiro dalla media perché i suoi limitati mezzi fisici lo mettono in una situazione di inferiorità rispetto agli atleti che girano nella NBA – ma sa anche che con astuzia, lavoro e con un piano ben congegnato può costruirsi (quasi) qualsiasi tiro. Forse tutte queste cose le sapeva già, ma solo nel 2016 le ha messe in mostra: keep up the good work, C.J..

 

 

Kyle Lowry & DeMar DeRozan

di Nicolò Ciuppani

 

Lowry e DeRozan sono in attesa di un periodo di stallo per entrare nella Stanza dello Spirito e del Tempo ed esercitarsi nella fusione, in modo da creare una combo-guard potentissima in grado di sconfiggere LeBron e la sua tirannia dell’est. Al momento, però, la fusione è solo una lontana ipotesi: i due si limitano a completarsi, come fossero stati ideati assieme da uno stesso produttore. DeRozan è una minaccia ad aggredire il ferro, Lowry è diventato un cecchino dalla lunga distanza; DeRozan penetra per scaricare fucilate nell’arco, Lowry premia il rollante con dei lob dolcissimi; DeMar corre in transizione più veloce di tutti, Kyle preferisce sbucare dal nulla per tirare piedi per terra. Toronto ha per le mani due All-Star abilissimi a guidare il pick and roll e a dividersi il ruolo di portatore di palla. Il Canada, nell’attesa forse ancora lunghissima del Guerriero Definitivo, ha in mano due giocatori che formano uno dei migliori backcourt della lega e che fino a pochi anni fa erano ai margini delle aspettative di tutti. Non è un caso che grazie a loro l’attacco di Toronto stia tenendo cifre mai viste nella storia

 

 

Kemba Walker

di Dario Vismara

 

Se ci fosse un premio per un “Giocatore più Migliorato Romantico”, uno dei principali candidati sarebbe Kemba Walker – su cui presto arriverà un pezzo ben più completo di quello che sto per scrivere, perché la sua stagione se lo merita. Se dovessi individuare il singolo tiro che ha fatto svoltare la carriera del prodotto di UConn nell’ultimo anno, quel tiro sarebbe la tripla dal palleggio: nel 2013-14 (il primo anno che stats.nba.com ci mette a disposizione per questo tipo di conclusione) ne tirava 1.5 a partita segnandola col 32%; nella stagione successiva è salito come tentativi (2 a gara) ma peggiorato nelle percentuali (25.6%); l’anno scorso ha avuto un ulteriore incremento nei tentativi (3.3 a partita) pur mantenendo percentuali mediocri (32.3%); quest’anno sta tirando col 38.3% su oltre 4 conclusioni di media. Dopo aver aggiunto questo tiro al suo arsenale, la metà campo offensiva si è aperta davanti ai suoi occhi come le acque davanti a Mosè: ora le difese non possono più permettersi di passare “sotto” i blocchi contro di lui, e le migliorate spaziature degli Hornets gli concedono corsie più libere in cui buttarsi per arrivare fino al ferro (50.3% nelle penetrazioni) o fermarsi per l’amato tiro dalla media (che quest’anno sta utilizzando di meno, ma con percentuali migliori). Considerando anche la costanza di rendimento di questa stagione (sempre in doppia cifra, solo due volte sotto i 17 punti segnati), una chiamata all’All-Star Game nel 2017 è il giusto coronamento per i miglioramenti fatti vedere nell’ultimo anno solare

 

 

Steven Adams

di Nicolò Ciuppani

 

All’inizio del 2016 Steven Adams era globalmente considerato un titolare nella media borghesia della NBA: magari un po’ falloso, sicuramente duro e capace di scambiare un paio di scortesie sotto canestro senza reagire. Nessuno o quasi si era reso conto di quanto fosse giovane, e di quanto lo sia tuttora.

 

A fine 2016 Steven Adams ha firmato un rinnovo quasi al massimo salariale, ha giocato dei playoff eccellenti soppiantando Serge Ibaka nelle gerarchie di squadra e convincendo Sam Presti a fare a meno di lui, ha cantato “I want it that way” dei Backstreet Boys meglio di alcuni Backstreet Boys, è diventato ricevitore privilegiato degli assist di Westbrook, è uno dei migliori bloccanti del pianeta, è uno dei migliori difensori capace di restare a contatto del palleggio dei piccoli e fare amabilmente a cazzotti con i più grossi.

 

La sua produzione in attacco è ancora piuttosto acerba e spesso si limita a concludere a pochi centimetri da canestro dopo aver rollato abilmente verso il pitturato, ma ha visione di gioco e capacità di sfoderare passaggi del genere.

 

 

 

In definitiva: Steven Adams ha decisamente fatto il botto nel 2016.

 

 

Rudy Gobert

di Fabrizio Gilardi

 

In questo momento il lungo (facciamo anche lunghissimo) francese è 5° in NBA per rimbalzi, 2° per stoppate e nettamente 1° per Defensive Real Plus Minus, cioè ha elevato a livelli di assoluta eccellenza e concretizzato in impatto tangibile le proprie abilità principali. Capita anche che sia 1° per distacco in tutte le graduatorie di percentuali al tiro (escluse le triple, ovviamente) e prima di far scattare l’obiezione “grazie, schiaccia e basta” bisognerebbe valutare che siamo nei dintorni della miglior stagione di sempre da questo punto di vista, il che testimonia gli enormi progressi anche in fase offensiva e la grande coscienza dei propri punti di forza e dei propri limiti. E in caso si avessero dei dubbi su quanto sposti è sufficiente considerare che i Jazz continuano ad essere martoriati dagli infortuni, ma la sola presenza di Gobert abbinata a quella di un ball handler e realizzatore competente (Hill a inizio stagione, Hayward poi) e a un supporting cast degno assicura il 60% di vittorie nella Western Conference.

 

Difesa, attacco, risultati di squadra e probabilmente anche riconoscimenti individuali, dall’inclusione nel miglior quintetto difensivo (ci sarebbe da scommetterci la casa) a traguardi più prestigiosi (Difensore dell’anno? All-Star? All-NBA?): Rudy non ha bisogno di staccarsi da terra per arrivare al ferro, ma Il Salto l’ha fatto eccome.

 

 

Avery Bradley

di Daniele V. Morrone

 

Avery Bradley potrebbe sembrare fuori luogo in una lista che comprende tutti giocatori che nel 2016 sono esplosi per diventare stelle della lega (o qualcosa di più). Anche perché Bradley l’anno dell’esplosione l’ha già avuto a 23 anni nel 2013, quando è passato da semplice role player a ottimo 3&D. Il 2016 però per lui ha significato un ulteriore cambio di marcia, praticamente modellando l’entrata nel prime della carriera sui difetti della sua squadra, ha migliorato il suo gioco in modo considerevole dove serviva per essere la chiave di volta del sistema di Stevens.

 

Bradley ci è riuscito diventando élite in quello che già sapeva fare: ora prende 5 triple a gara tirando col 40% e ha imparato a gestirsi in difesa per poter agire in crescendo e dare il meglio proprio nell’ultimo quarto cambiando la partita. Il ragazzo di Tacoma tiene l’avversario diretto a un 41% dal campo nell’ultimo quarto, che equivale a 3 punti percentuali in meno rispetto a quanto tirano normalmente. Ma appunto navigando in acque inesplorate per aiutare la propria squadra ha capito, ad esempio, che era necessario che qualcuno si sporcasse le mani a rimbalzo viste le carenze strutturali del front court e ha avuto un incremento inusuale per una guardia, passando dal 4.6% di rimbalzi presi all’11.3% (che si traduce in un passaggio da 3 a 7 rimbalzi a partita con praticamente lo stesso minutaggio). E pur tirando meglio che mai in carriera (percentuale reale al 56.3%) ha deciso di assumersi più responsabilità con la palla in mano, per non lasciare solo Thomas come iniziatore dei pick and roll, diventando efficiente nelle decisioni.

 

 

Bradley è il giocatore che nel 2016 ha preso l’etichetta di 3&D e l’ha tirata fino a strapparla. Il suono di questo strappo è stato un bel botto.

 

 

Steph Curry

di Dario Vismara

 

È la terza volta in altrettante liste che mi ritrovo a scrivere del 2016 di Steph – e se vi siete un po’ stufati, lo capisco anche. Però, seriamente: nel 2016 (e negli ultimi mesi del 2015, ovviamente) Curry ha compiuto il miglioramento più difficile che un giocatore possa affrontare, quello di passare dallo status di MVP (che già è difficile di suo da raggiungere) a quello di supernova. Forse riusciremo a comprendere in pieno la stagione passata solamente tra un po’ di tempo, quando celebreremo giocatori che superano le 300 triple in una singola stagione come se fosse un avvenimento – ricordando continuamente che l’anno scorso Curry ne ha segnate quattrocentodue pur giocando poco più di 34 minuti a partita. O forse comprenderemo meglio il 2016 di Curry scrutando ogni minuzia del suo 2017, che già in questi ultimi mesi – per le condizioni del ginocchio dopo l’operazione estiva? Per la presenza di Kevin Durant? Perché perfino lui può giocare male? – ha visto ridurre un po’ il suo potenziale distruttivo. Ad ogni modo, anche se il suo 2016 rimanesse un unicum nella sua carriera, il suo miglioramento rispetto a dodici mesi fa è da sottolineare una volta di più.

 

 

Tags : cj mccollumGiannis Antetokounmpoisaiah thomaskyrie irvingsteph curry

La redazione basket è composta da gente molto alacre che vorrebbe giocare a basket ma che purtroppo sarebbe troppo bassa anche per il campionato filippino. Almeno due membri della redazione basket sono convinti che il film A Beautiful Mind parli di loro.

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