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L’amore per il caos di Gennaro Gattuso
17 giu 2025
Quindi, che allenatore è Gattuso?
(articolo)
14 min
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IMAGO / PA Images
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«You speak too much» dice Gennaro Gattuso, che si rifiuta di dare la mano a Josko Jelicic. È un’intervista post-partita, ma “Ringhio” non vuole prestarsi alle cortesie istituzionali. «Sei stato un ex giocatore e dovresti capire certe dinamiche, ma non hai rispetto per le persone».

Il suo Hajduk Spalato ha appena perso 3-0 lo scontro diretto contro il Rijeka ed è nervoso, ha rabbia, dice a Jelecic di dirgli le cose in faccia. Cosa vorrebbe? Fare a botte davanti alle telecamere? Il video aveva circolato molto in Italia, a marzo. Qualcuno lo aveva guardato con compatimento, pensando malignamente: come si è ridotto, Gattuso, a fare il teatrino nella tv croata dopo una partita persa - che in quel momento comprometteva in modo serio le speranze di titolo. Qualcun altro però avrà provato affetto: era la prova che Ringhio non cambiava mai. Poteva anche andare ad allenare in Croazia, poteva cadere nel fango, ma la sua rabbia - e quindi ciò che lo rende lui - sarebbe rimasta immutata. C’è qualcosa di più forte di tutte le cadute.

Di certo però tutti concordavano su un fatto: la carriera da allenatore di Gattuso aveva preso ormai una piega poco competitiva. Interessante, magari, stimolante, curiosa, ma la piega di chi ha ormai rinunciato a misurare il proprio valore nei migliori campionati europei.

Chi poteva immaginare che tre mesi dopo quel teatrino televisivo Gennaro Gattuso sarebbe stato nominato commissario tecnico della Nazionale italiana. Le cose sono andate molto in fretta. Sono sembrate improvvise e inevitabili allo stesso tempo. La Nazionale è andata verso un precipizio che era di fronte ai nostri occhi ma che abbiamo ignorato fino all’ultimo istante: la partita contro la Norvegia, da affrontare fuori casa con l’ossatura dell’Inter a meno di una settimana dalla sconfitta catastrofica dei neroazzurri in finale di Champions League. Il momento perfetto per provocare l’ormai tradizionale collasso spallettiano. Come le persone particolarmente ansiose, vivendo come un corpo unico, abbiamo ignorato il problema per paura di affrontarlo, finché non ne abbiamo direttamente pagato le conseguenze.

La nomina di Gattuso, pure, è sembrata al contempo improvvisa e inevitabile. Ancora non ci rendiamo bene conto di quello che è successo, eppure ci è sembrata l’unica soluzione possibile. Perché abbiamo l’impressione che Gattuso fosse l’unico che poteva accettare la panchina della Nazionale? Come ci siamo ridotti a questo punto?

Ma soprattutto, che idea c’è dietro l’idea di Gattuso allenatore?

LA CARRIERA MEDIA DI GATTUSO

Gattuso ha risolto consensualmente il contratto con l’Hajduk Spalato dopo una stagione buona ma non eccezionale. La squadra puntava al titolo ed è arrivata terza, pur giocandosi il campionato fino all’ultima giornata. Gattuso, nel frattempo, ha litigato con tutti; a cominciare da Ivan Perisic, mandato via a gennaio in mezzo al caos - «Domenica sera qualcun altro si è fatto avanti e ha deciso che no, non aveva più bisogno del mio aiuto». Perisic poi è andato al PSV e si è rivelato ancora in grado di decidere serate di Champions League.

Gattuso già qualche settimana fa ammetteva che non sarebbe mai rimasto, nonostante avesse ancora un anno di contratto. L’addio, sugellato dal litigio televisivo, sembrava la chiusura del cerchio di una carriera iniziata in modo altrettanto pirotecnico, e con altri due marchi di fuoco: l’esonero dal Palermo di Zamparini dopo sei partite e le dimissioni dall’OFI Creta dopo sette partite. In mezzo la leggendaria conferenza in freestyle. Non la dimenticheremo mai. Gattuso con gli occhi intensi fissi in un punto imprecisato davanti a sé, mentre impasta un’inglese duro col greco, stile In the panchine: «one hundred percent malakia» e una massima di vita che vorremmo tutti tatuarci sul petto a caratteri gotici: «Sometimes maybe good, sometimes maybe shit».

Gattuso si è poi ricostruito al Pisa, in Serie C, dove va menzionata la promozione ottenuta in finale playoff sul Foggia di Roberto De Zerbi. Anche in quel caso Gattuso non è riuscito a tenersi lontano dai guai. In finale si prende una bottiglietta in testa in mezzo al pandemonio totale; poi fa la solita conferenza di fuoco che comincia a diventare il suo format - una versione autentica dei “SUPERSFOGHI” che funzionano oggi su YouTube.

Il Pisa l’anno dopo retrocede in C, ma sembra più che altro la conseguenza di una squadra poco attrezzata e di una proprietà debole. Gattuso va ad allenare il Milan primavera, ma c’è qualcosa che continua ad attirarlo verso i guai. Come un falena va verso l'intensità delle cose, è uno di quelli che vuole metterci la faccia anche solo per il gusto di venirti a dire che è uno che ci mette sempre la faccia. E così dopo nemmeno tre mesi finisce sulla panchina della prima squadra, lasciata vacante dall’esonero di Vincenzo Montella.

Attorno a Gattuso succedono sempre cose strane. Una calamita di eventi fuori dall’ordinario. Pareggia all’esordio contro il Benevento a causa di un gol di testa del portiere Brignoli al minuto 95. Poi risolleva un po’ la squadra, col suo 4-3-3 Suso-centrico. Lo spagnolo riceve palla a destra e corre in diagonale verso la porta in modo sia banale che ipnotico, crossa o tira. In quelle settimane Gattuso viene definito “un leader”, Cutrone “la certezza”. Poi c’è lo spirito operaio di Fabio Borini e “Jack” Bonaventura, Franck Kessie e Hakan Calhanoglou - che in quel momento è un enigma.

È un Milan strano, che non va nemmeno così male. Una squadra duttile, che gioca con strumenti tattici contemporanei, o almeno ci prova. Fa la costruzione dal basso, passa dal centro e rifinisce dall’esterno. Sta per lo più basso, attacca in modo semplice e diretto. Dopo qualche mese si azzarda persino a pressare, ogni tanto; riesce anche a bilanciare la pendenza tutta a destra della manovra, trovando una bella associazione a sinistra fra Bonaventura e Calhanoglou. Però è una squadra che fa pochi gol; in difesa è ben organizzata ma cede troppo facilmente a errori individuali e subisce tante reti da cross. Al secondo anno Gattuso deve integrare Gonzalo Higuain e la squadra comincia a patire brutti infortuni. Abbandona il 4-3-3 e cerca di rendere la squadra più flessibile. Prova il 4-4-2, che però non gli dà abbastanza garanzie difensive, e allora passa a un 3-5-2 in cui prova a recuperare anche palla più in alto. È un Milan più confuso dell’anno prima, ma che trova una sua paradossale continuità - pur dentro i fallimenti dei vari investimenti estivi. A marzo la squadra è terza, poi crolla. Infine arriva quinta e l'esito è difficile da leggere: è il miglior risultato in termini di punti dal 2012/23, ma è stato fallito l’obiettivo di qualificarsi in Champions League.

Gattuso si dimette, rinunciando ad altri due anni di contratto. La società è d’accordo ma è un gesto insolito nel contesto del calcio italiano. Ne esce bene, l’immagine di un allenatore che non può fare miracoli, ma che il lavoro lo porta più o meno a casa. Non fa schifo. Dietro le sue dimissioni c’è l’idea che non sarà semplice migliorare i 68 punti fatti in stagione, soprattutto se si prospetta un mercato austero fatto di acquisti di Under 23 - come Gazidis gli avrebbe minacciato.

Gattuso subentra ad Ancelotti sulla panchina del Napoli a dicembre del 2019. La squadra è settima e tatticamente disorientata. Lui fa quello che gli viene più istintivo fare in queste situazioni: 4-3-3, blocco medio-basso, transizioni, direttrici di gioco semplici. Spogliatoio bacchettato, riempito di veleno. C’è il covid di mezzo e quando si riprende, a giugno, vince la Coppa Italia - più o meno di punto in bianco. Batte in finale la Juventus del tridente Cristiano Ronaldo, Douglas Costa, Dybala. Ci riesce rinunciando completamente al pallone e difendendosi vicino alla propria area, con una forte densità centrale. È il Napoli di Diego Demme che pare dappertutto. Dopo pochi giorni dal suo arrivo, Gattuso aveva definito il Napoli una squadra “non pensante”. Per il suo gusto quella di Ancelotti si muoveva in modo troppo istintivo, con posizioni troppo liquide, cercando associazioni poco disciplinate in giro per il campo. Il suo lavoro è stato soprattutto quello di fissare dei punti e di giocare un calcio su binari più posizionali, pure dentro una flessibilità soprattutto sull’altezza difensiva.

Come già al Milan, però, al secondo anno Gattuso ha iniziato a sperimentare. Del resto il Napoli è una squadra tecnica, con centrocampisti di palleggio eccelsi come Fabian Ruiz, Lobotka, Zielinski. Contro le grandi squadre pensa spesso a compattarsi su un blocco medio e togliere profondità, in generale però è una squadra che insiste molto sulla costruzione dal basso, che palleggia in modo anche insistito in zone basse, e poi punta su una riaggressione alta. Dopo una grossa flessione di risultati alla fine del girone d’andata, la stampa inizia a criticarlo per questa ossessione del 4-3-3, le radio locali sostengono che lo spogliatoio non lo regge più. Lui, come sempre, alza i toni: «Si dicono stronzate». Da segnalare la sua relazione complicata col “Chucky” Lozano. Secondo le statistiche la squadra funziona: domina il gioco, tira più di tutti in campionato e subisce poco. Ci sono prestazioni memorabili e altre terrificanti, senza mezze misure.

Una delle migliori partite del Napoli di Gattuso.

Calcolando solo il girone di ritorno, comunque, il Napoli è secondo in classifica. Però, di nuovo, manca la qualificazione in Champions League all’ultima giornata pareggiando contro l’Hellas Verona già retrocesso. Una partita che segna il destino di Gattuso, che probabilmente sarebbe rimasto in carica se si fosse qualificato alla Champions dopo quel girone di ritorno. In fondo il suo Napoli ha messo insieme 76 punti con 86 gol segnati e 41 subiti.

Dobbiamo forse ricordarci di quella squadra. Quel Napoli brillante, ambizioso, capace di segnare 4 o 5 gol spesso. Una squadra che vuole dominare le partite, per aggrapparci al miglior ricordo possibile di Gattuso allenatore. In quel momento sembrava in un limbo: le sue squadre non giocavano male, e lui aveva dimostrato di saper gestire contesti anche molto complicati come quello del Milan e del Napoli. Non aveva pienamente fallito, ma nemmeno era riuscito negli obiettivi stagionali. Ci si era pure messa di mezzo po’ di sfortuna, e si era comunque lasciato bene con tutti. Persino col presidente con cui ci si lascia sempre male, Aurelio De Laurentiis.

Da quel momento, però, la sua carriera naufraga. Forse non sempre assistito al meglio dal suo procuratore, Jorge Mendes, Gattuso fa il Grand Tour delle panchine più complicate d’Europa. Va alla Fiorentina il 25 maggio e il 17 giugno decide di andarsene ancora prima di firmare il contratto. Il problema, a quanto pare, era il mercato. Dopo un anno va al Valencia, fa 20 punti in 18 partite; a gennaio se ne va con la squadra quasi in zona retrocessione. L’anno dopo subentra in corsa all’Olympique Marsiglia, ma non riesce comunque a concludere la stagione. Anzi, non supera nemmeno l’inverno: a febbraio viene esonerato con 21 punti in 16 gare.

ANCHE SE FALLIREMO CI SAREMO VOLUTI BENE

Ho voluto ricostruire la carriera di Gattuso perché non credo che in molti conservino la memoria di queste stagioni. Giustamente, per ragioni pure di sopravvivenza, da appassionati di calcio dimentichiamo il dimenticabile. Mi pare comunque significativo che quegli anni intensi e controversi di Gattuso siano oggi tutto sommato dimenticabili. Non hanno lasciato grandi tracce.

Di Gattuso ricordiamo le conferenze leggendarie, i modi di dire, le dichiarazioni oneste ma spesso su di giri. Ricordiamo poco delle sue idee tattiche o del carattere delle sue squadre. Questo è ingiusto ma racconta le contraddizioni di Gattuso: da una parte un personaggio intenso e indimenticabile, dall’altra un allenatore vago e poco riconoscibile. Non ha ottenuto grandi risultati né dato alle sue squadre uno stile di gioco molto caratterizzato. Gattuso è un’atmosfera, un linguaggio, una retorica, ben sintetizzata dal profilo X “Rino Gattuso Bot”. Gattuso va a scavare le buche con la faccia, organizza torelli di un’intensità “allucinante”, ti mangia il cuore, ha fame, si sacrifica. Manda giù lumache se si tratta di dare due soldi in più ai magazzinieri. Vuole giocatori con la gamba frizzante e gente che fa le scintille. Ha qualcosa che lo rode dentro, non si sa cosa, che lo agita e lo rende inquieto. Un tarlo, una maledizione, o piuttosto: un veleno.

E però le sue squadre non hanno mai rispecchiato questa personalità larger than life. Questa sua generosità litigiosa, questo modo intenso e leale di stare al mondo. Le sue sono squadre dai contorni deboli. Squadre abbozzate a matita. Le ha raccolte da allenatori che stavano vivendo momenti difficili (Montella al Milan, Ancelotti al Napoli) e gli ha fatto attraversare stagioni non gloriose ma nemmeno fallimentari. Dopodiché queste squadre hanno vinto lo Scudetto, il Milan con Pioli e il Napoli con Spalletti. Il meglio che si possa dire, è che è un aggiustatore. Ha dimostrato di saper giocare in tutti i modi, ma nessuno particolarmente notevole o efficace. Scuote i gruppi, come stereotipo vuole? Come succede agli allenatori che vanno allo scontro, in alcuni casi sì, in altri no. Almeno questo ci dice la sua carriera.

In questi giorni si parla del suo carattere e mai delle sue idee; del suo temperamento e non di come faceva giocare le sue squadre. Si parla cioè della cosa più riconoscibile e vendibile di Gattuso. Gianluigi Buffon lo ha definito «la migliore scelta possibile», e ha poi parlato di «intensità emotiva» che va «ricercata, voluta e coltivata». Buffon, a cui Gattuso voleva dare un bacio sulla lingua, è probabilmente il suo più grande sponsor dentro la federazione; ma non è stato il solo ad aver celebrato l’arrivo di Gattuso: “L’Italia ringhiò”, “L’Italia a tutta grinta”, “Gattuso nel nome di Lippi”, “Italia all’ultimo ringhio” sono state le prime pagine dei giornali. Sacchi ha detto che ha “i giusti valori”; Lippi ha detto che ci si rivede. Garlando ha scritto un editoriale in cui Gattuso viene paragonato praticamente a un necromante "in grado di risvegliare l'animo della Nazionale".

Sembra la comunicazione di istituzioni che cercano di convincere l’Italia che no: non è come credete, non è stata una scelta disperata. Non disperata come sembra. C’è una spaccatura, tra come gli addetti ai lavori stanno commentando l’arrivo di Gattuso e come sembrano averlo preso i tifosi. Una nomina che sembra cancellare qualsiasi criterio di merito per uno posto di lavoro così importante (il CT è una specie di capo religioso). Cosa avrebbe fatto Gattuso per meritarsi la panchina della Nazionale Italiana, se non essere stato un calciatore molto forte della Nazionale italiana? Un'altra concessione ai campioni del 2006 che, volendo diventare allenatori, hanno avuto tutte le possibilità per provare e fallire. Hanno rappresentato una sorta di casta aristocratica in questi anni, in cui due degli allenatori più originali sono dovuti emigrare per avere una panchina (De Zerbi e Farioli).

Sembra del tutto secondario come giocherà l’Italia di Gattuso, e del resto è difficile farsi troppe idee guardando alla sua già lunga carriera. Ha fatto la difesa a 3 o a 4, ha giocato con possesso e riaggressione o difesa bassa e transizioni. Si è sempre infilato in situazioni intricate, forse per assecondare questo suo amore per il caos, e quando è arrivato ha cercato soprattutto di fare le cose semplici. All’inizio sistema tutto su un 4-3-3 con un baricentro medio, e poi pian piano prova ad aggiungere complessità e ambizione al suo gioco. Gli piace gestire la palla e mettere in campo i giocatori tecnici. Chissà se funzionerà, con un gruppo traumatizzato, su cui Spalletti ha già provato tutto lo spettro degli approcci: prima solo bastone, all’Europeo, e poi solo carota, post-europeo. Prima 4-3-3 e gioco fluido, dopo 3-5-1-1 e gioco rigido. Non ne ha funzionato nemmeno uno.

Questo, oggi, pare l’ultimo dei problemi.

Nella scelta di Gattuso convergono due grandi idiosincrasie del calcio italiano. Da una parte la nostalgia del nostro passato glorioso, di un tempo in cui gli Azzurri erano ancora grandi. Gattuso ci rievoca con la sua sola presenza quel mondo perduto, e così ci rassicura. Lo agitiamo come un “amuleto magico”, come un “santino di sé stesso”, ha scritto Daniele Manusia. Speriamo forse - assecondando un’illusione, un pensiero magico - che gli trasmetta una sorta di istinto vincente per imposizione delle mani. D’altra parte Gattuso soddisfa la nostra mania per gli allenatori caporali, motivatori sangue e sudore che con la loro semplice presenza negano una dimensione concettuale del calcio. Un tipo di allenatore che contiene in controluce la nostra rinuncia a progettare. La federazione italiana non può costruire o ragionare sul lungo periodo come hanno fatto altri movimenti calcistici in crisi. Può saltare solo da un’emergenza all’altra guidata da uomini forti, comandanti da tempesta. Eppure, in queste retromarce verso il passato, mentre cerchiamo rassicurazioni in realtà ci prendiamo grossi rischi - come ha scritto qui Dario Saltari.

Queste considerazioni prescindono da come potrà andare Gattuso sulla panchina della Nazionale. Il calcio si rivela spesso imprevedibile e decisioni che sembrano auto-distruttive si rivelano azzeccate, talvolta persino geniali. Noi possiamo limitarci a notare che non sembra esserci uno schema razionale e coerente dietro la scelta di Gattuso: ex grande calciatore, persona carismatica, leale, onesta, simpatica, passionale, generosa. Nel mezzo, però, anche un allenatore.

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