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Michele Pelacci

Siamo stati nella bolla dell’Eurolega femminile

A Schio si è ritrovato il meglio del basket femminile.

Mancano una dozzina di secondi alla sirena finale. Giorgia Sottana porta palla oltre la metà campo per il possesso più importante della stagione del Famila Schio e scambia con Natalie Achonwa, che domina da inizio partita. L’idea è di forzare un cambio sul pick and roll centrale: mancano solo cinque secondi, ma finalmente, grazie a un secondo blocco di Achonwa, Reisingerova cambia marcatura e prende Sottana, lasciando Eldebrink sotto canestro contro Achonwa. Tra le due c’è una differenza di una ventina di centimetri e altrettanti chili, quindi Sottana legge il mismatch e lascia lavorare l’ala grande delle Minnesota Lynx ora in forza alla squadra veneta.

 

Maria Araujo e Chelsea Gray provano ad aiutare Eldebrink come possono, ma spalle a canestro Achonwa fa quello che vuole. Con un palleggio prende il centro dell’area, usa il piede sinistro come perno e poi stacca a due piedi. Il gancio parte da un’altezza impensabile per le avversarie in maglia rossa.

 

Un metro e mezzo di tiro morbido. I pochi presenti al Palasport Livio Romare trattengono il respiro. Secondo ferro. Poi primo ferro. Infine, fuori. Schio è eliminata.

 

 

Ma riavvolgiamo il nastro. Quello che ho appena descritto è stato l’atto finale del girone C di EuroLeague Women, la più importante competizione continentale di basket femminile. Ne fanno parte 16 squadre, di cui Schio è l’unica italiana. Funziona un po’ come la Champions League di calcio maschile, per capirci: c’è un ranking per nazioni; ci si qualifica piazzandosi nel proprio campionato nazionale; dopo i gironi si giocano quarti, semifinali e finalissima.

 

Al contrario di tanti eventi sportivi più mediatizzati, l’Eurolega femminile ha deciso di far giocare ciascun girone in due bolle. Le prime tre partite del girone C si sono giocate a Girona, le rimanenti tre a Schio, ai piedi delle Prealpi vicentine. Ekaterinburg e Riga erano già sicure rispettivamente del primo e dell’ultimo posto, Girona e Schio invece si dovevano giocare la qualificazione. In Spagna era finita 85-81, quindi Schio doveva vincere di almeno cinque punti. Era sopra di tre lunghezze prima dell’ultimo possesso: se il canestro di Achonwa fosse entrato, Schio si sarebbe qualificata. «Perdere fa schifo» ha scritto su Instagram il giorno dopo Giorgia Sottana. «Se poi perdi vincendo, ancora di più».

 

Welcome to the bubble

Solo un attraversamento pedonale divide il Palaromare dall’hotel in cui alloggiano squadre e addetti ai lavori. Piove a dirotto e tutte le giocatrici hanno un cappuccio in testa, ma non è difficile distinguere Breanna Stewart: qualche ciocca bionda s’intravede mentre sale lo scivolo di fronte al palazzetto dello sport. Sullo sfondo la vetta innevata del monte Summano e insegne alte mezzo metro raffiguranti un canguro, mascotte del Famila Schio, che indicano la strada del palazzetto.

 

Le giocatrici di Ekaterinburg attraversano la strada proprio mentre, per la prima volta in quelle zone, cerco un parcheggio. Non solo Stewart: l’andatura sonnecchiante di Brittney Griner è riconoscibilissima, così come la sagoma di Emma Meesseman. I pochi giornalisti presenti vorrebbero fare mille domande alle protagoniste, ma la FIBA ha imposto regole estremamente rigide per ridurre il possibile contagio. Nonostante l’obbligo di presentare un test rapido antigenico con esito negativo, non ci si può avvicinare a nessuna giocatrice o a nessun dirigente. «Neanche se vado a fare quattro chiacchiere con quei due là?» chiedo al segretario di Schio indicando la tribuna di fronte, dove due uomini parlano distrattamente tra loro. Permesso non accordato: quei due là, mi fa sapere, sono pezzi grossi di Ekaterinburg e FIBA.

 

Con un collega proviamo a scendere gli scalini che separano l’area riservata ai giornalisti, quella più lontana dal campo e a fianco delle telecamere, per vedere più da vicino il riscaldamento di Ekaterinburg prima della partita contro Girona. Le prime a entrare sul parquet sono Courtney Vandersloot e Allie Quigley, il backcourt titolare. Vandersloot è la prima a fare il lavoro sporco (raccogliere la palla dal fondo della retina, passarla), mentre Stewart se la ride con Maria Vadeeva a bordocampo lanciando rulli di gomma per distendere la muscolatura.

 

Lo staff di Ekaterinburg sorveglia le operazioni. L’unica donna non-giocatrice è la responsabile della comunicazione del club. Hanno tutti giacca e cravatta, rigorosamente arancione chiaro, il colore prevalente di quasi tutte le squadre sportive di quella zona della Russia. Jonquel Jones si mette a ballare quando parte Walker Texas Ranger di DaBaby, mentre a Griner manca solo il drink in mano. È divertente in tutto ciò che fa: quando deve dare il cinque alle compagne più minute, alza il braccio più in alto che può, costringendole a saltare.

 

Gli altoparlanti del Palaromare sparano Crazy in Love di Beyoncé come ultima canzone prima della palla a due e Jonquel Jones non si fa scappare l’occasione di ondeggiare a ritmo della musica. Nell’altra metà campo Laia Palau, la giocatrice con più presenze di sempre nella Nazionale spagnola, scalda i polpastrelli palleggiando vorticosamente alternando le mani. Poco dopo l’inizio della partita ci viene ricordato che non è questo il posto previsto per i giornalisti: dobbiamo tornare in piccionaia, altrimenti i delegati FIBA si arrabbiano.

 

Straniamento 

Schio non è esattamente Los Angeles, e lo si legge in faccia alle giocatrici che si danno il cambio per la sessione di tiro mattutina. Pioggia, nebbia e l’impossibilità di far grandi spostamenti se non dall’albergo al palazzetto e viceversa rendono il grigiore uno stato d’animo. Entro per la prima volta nel palazzetto da un ingresso laterale, aprendo un portone di ferro che alcuni tecnici video mi hanno consigliato di usare come scorciatoia. Ed effettivamente, appena entrato, sono a due passi dal campo.

 

L’allora PalaCampagnola per gara-2 delle finali Scudetto 2014. Nel frattempo i banner che pendono dal soffitto sono diventati 35 (Credits: archivio familabasket.it).

 

Manca mezz’ora all’inizio di Riga-Girona e a pochi metri da quel portone la tre volte All-Star Chelsea Gray sta provando la mano dalla media distanza. Eppure, la prima cosa che si nota è il silenzio. Sulla gradinata alla mia sinistra, in cima alla quale c’è la postazione dei giornalisti, è steso un telone a righe bianche e arancioni con la scritta “Forza Famila!” per coprire i seggiolini vuoti.

 

Di recente Zach Lowe ha detto di non esser stato a neanche una partita dal vivo dall’inizio della pandemia «in parte perché non ne vedo l’utilità». È un ragionamento legato a tanti aspetti della discrepanza tra come si vedevano le partite in loco pre-pandemia e come si vedranno dopo. Mentre ero lì, in quel luogo senz’anima ma pieno di giocatrici fortissime che facevano giocate fuori dal comune di fronte a nessuno, mi sono chiesto se anche il mondo della pallacanestro femminile non sia entrato nel mondo dell’iperreale. È particolarmente alienante fare un ragionamento del genere per questo mondo, perché al termine di tante partite di Serie A1 capita che le giocatrici vengano sugli spalti a salutare i tifosi, o scambiare due chiacchiere col gruppetto di amici che sono venuti a vedere, o giocare col cagnolino che la famiglia ha portato ad assistere alla partita.

 

La cosa che più mi colpì quando vidi la mia prima partita di basket femminile (il 12 dicembre 2019, un Geas-Schio a Sesto San Giovanni) fu proprio il clima sereno e rilassato, una sorta di sorriso collettivo che riempiva tutto il palazzetto. Nella bolla di Schio, invece, le uniche cose diventate familiari sono il suono della retina schiaffeggiata dalla palla e il rimbombare spettrale del chiacchiericcio che, in varie lingue, avviene in campo.

 

Solo nel finale di Schio-Girona, l’unica partita realmente competitiva, si è avvertito qualcosa nell’aria. Era come se il discorso qualificazione avesse riattivato tutti. Sugli spalti c’è qualche persona in più (buona parte dei roster di Ekaterinburg e Riga non voleva perdersi lo spettacolo, anche perché cos’altro avrebbero potuto fare?), le panchine alzano il tono di voce a ogni possesso, gli operatori della guardia medica vestiti di rosso tifano come hooligans e perfino i due poliziotti – che nelle cinque partite precedenti erano sempre stati relegati sullo sfondo – scendono dalle gradinate per mettersi all’ingresso degli spogliatoi, dove il coach di Girona è appena stato cacciato. Gli sono stati dati due falli tecnici, qualcuno dagli spalti ha urlato Sotto la doccia!”.

 

La partita, poi, è finita come avete già letto. Appena la traiettoria del pallone è diventata chiara a tutti, una squadra esplode di gioia, l’altra vorrebbe sparire. Giorgia Sottana è il volto della delusione. A fine partita definisce l’eliminazione «devastante».

 

Giorgia Sottana risponde alle domande dopo la partita contro Girona. Sul parquet, la team manager e dieci volte campione d’Italia con Schio Raffaella Masciadri.

 

L’Eurolega è già proiettata verso i quarti di finale. Nella parte alta del tabellone ci sono due sfide molto equilibrate: il derby spagnolo tra Girona e Perfumerias Avenida e un’eccitante sfida tra due delle squadre meglio allenate della competizione, il Lione di Marine Johannès e il Sopron di Megan Walker (le due peraltro giocano assieme per le New York Liberty). La parte bassa del tabellone, invece, prevede il Derby Intercontinentale tra il Fenerbahce di Cecilia Zandalasini e il Galatasaray di Angel McCoughtry.

 

C’è ancora qualche incognita sull’ultimo accoppiamento: nel gruppo A il Belediyespor ha saltato svariate partite causa pandemia e non è chiaro chi, tra il Kursk di Arike Ogunbowale e il Nadezhda di Monique Billings, sfiderà Ekaterinburg ai quarti. Il Fener è forse l’unica squadra le cui cinque migliori giocatrici (Iagupova, Zandalasini, McBride, Stokes, Sabally) non temono il confronto con la corazzata russa che, anche nella bolla di Schio, ha spazzato via la concorrenza grazie alle sue superstar provenienti direttamente dalla WNBA. Già, ma perché una squadra del genere viene dalle rigide latitudini della Russia continentale?

 

Basket & geopolitica

Nei primi Anni Duemila, quando Sue Bird e Diana Taurasi entrarono in WNBA, gli zeri sui contratti erano ancora meno di quelli attuali. Se siete abituati a sportivi che firmano rinnovi contrattuali a dodici cifre, vi farà specie sapere che in WNBA un supermax oggi vale poco più di 200.000 dollari, o che il salary cap è fissato poco più di un milione. «45mila dollari? Davvero?» ricorda di essersi chiesta Diana Taurasi nel 2004. «È questo che guadagnerò dopo quattro anni passati a giocare nel college più prestigioso per il basket? I custodi del palazzetto faranno più soldi di me». Così, quando un agente propone a Taurasi e Bird di giocare per molti più soldi in Russia, le due trovano l’offerta allettante.

 

I mesi a Mosca, però, sono un calvario. Taurasi giura che non tornerà mai più a giocare in palestre fredde per allenatori che a malapena conoscono l’inglese. Tutto cambierà però quando una ex spia del KGB, Shabtai von Kalmanovich, offre loro un ricco contratto per giocare allo Spartak Mosca. Lauren Jackson, un’altra straordinaria giocatrice di pallacanestro ingaggiata da Shabtai, dirà che ai tempi dello Spartak viveva in una casa perfetta, con «una piscina, cinque bagni, una spa, un salotto gigantesco. Poi guardi fuori dalla finestra e vedi una centrale nucleare. Era tutto così russo. Bellissimo».

 

Di Shabtai mi parla un membro dello staff di Schio quando gli chiedo di Ekaterinburg, nel tentativo di inquadrare una figura ben precisa, che da decenni a questa parte domina l’Eurolega femminile: quella del magnate russo che investe una quindicina di milioni d’euro l’anno per creare squadre fortissime. Incomprensibilmente, dal nostro punto di vista, perché il ritorno economico rasenta lo zero.

 

Sponsorizzato dalla Ural Mining and Metallurgical Company (UMMC) del miliardario Iskander Makhmudov, Ekaterinburg ha sede nell’omonima città, a quasi 2.000 chilometri a est di Mosca. È la quarta area metropolitana della Russia per abitanti, ma non è immediato pensare che lì, nella parte di Siberia più vicina al Kazakistan, giochi una delle squadre di basket femminile più forti degli ultimi vent’anni. 

 

Makhmudov fa – senza mezzi termini – sportwashing, cioè lavare la non limpidissima immagine pubblica della sua azienda attraverso lo sport. Secondo Forbes ha speso un centinaio di milioni di euro per costruire la Shayba Arena, palazzetto del ghiaccio inaugurato per le Olimpiadi invernali di Sochi 2014. Un inusuale comunicato del 2019 intitolato “Vent’anni di filantropia” indica la squadra femminile di basket come una delle attività in cui UMMC investe per rendere migliore la regione di Ekaterinburg. Sul sito personale di Makhmudov, il suo investimento nella squadra è riportato nella sezione “Charities”, posto tra un’iniziativa sulla salvaguardia della tigre siberiana e la notizia dell’apertura di un enorme museo di veicoli militari.

 

Anche Diana Taurasi ha giocato a Ekaterinburg. Anzi, una stagione, siccome in Europa guadagnava quindici volte di più rispetto allo stipendio WNBA, Taurasi decise di “perdere un giro” e non aiutare le Phoenix Mercury nella difesa del titolo. Nella foto (del New York Times), The White Mamba posa davanti a una gigantografia che omaggia “i nostri abili lavoratori”.

 

A Ekaterinburg giocano le aliene

Chi sceglie i giocatori per Makhmudov possiede – oltre all’indispensabile portafoglio gonfio – un certo gusto per il basket. «Probabilmente sì, sono una delle migliori squadre di sempre, paragonabile solo allo Spartak di Bird, Taurasi e Lauren Jackson» mi dice via mail Paul Nilsen, il giornalista più rispettato nel mondo del basket femminile.

 

Effettivamente il roster con cui Ekaterinburg sta affrontando questa Eurolega non ha eguali: l’MVP delle ultime Finals WNBA Breanna Stewart parte in quintetto con altre quattro All-Star (Courtney Vandersloot, Allie Quigley, Emma Meesseman e Jonquel Jones), dalla panchina si alzano Brittney Griner, Alba Torrens e Maria Vadeeva, tre che sarebbero le punta di diamante di tante altre squadre.

 

Nelle ultime stagioni, Courtney Vandersloot ha rotto la WNBA. Dopo aver sostanzialmente messo Gonzaga University sulla mappa del college basket femminile (anche grazie a un coach che di guardie se ne intende), Vandersloot è diventata la miglior passatrice della lega. È suo il sia il record di assist in una stagione (300, più di 9 a partita), che quello di assist in una singola partita con 18.

 

Allie Quigley è compagna di Vandersloot nel backcourt delle Chicago Sky, in quello di Ekaterinburg e nella vita, visto che le due si sono sposate nel 2018. Quigley è arrivata a essere una tiratrice mortifera grazie ad una commovente storia personale, vincendo per due volte la gara del tiro da tre punti e andando vicinissima a chiudere la stagione WNBA col famoso 50-40-90 nel 2019.

 

Emma Meesseman invece quando fu scelta al Draft WNBA con la 19^ chiamata nel 2013, stava dormendo dall’altra parte del globo. Le sembrava un mondo così lontano, l’America: la famiglia voleva che studiasse e, nonostante giocasse già ad alto livello in Francia, non si aspettava certo di venire citata da LeBron James in un tweet qualche anno dopo.

 

Meesseman si è consacrata ai playoff del 2019. Dopo aver eliminato Las Vegas con medie da capogiro (21.3 punti, 6.8 rimbalzi, 3.3 assist tirando col 59.3% dal campo e 64.7% dall’arco), l’ala grande ha sopperito all’assenza di Elena Delle Donne – problemi alla schiena – con una serie che le è valsa il titolo di MVP delle Finals. «È una persona speciale», assicura Paul Nilsen, che la vide per la prima volta ad un Europeo Under 16 a Napoli, nel 2009. «Oltre ad essere una giocatrice incredibile, è un’ambasciatrice grandiosa del movimento cestistico belga e femminile». Stupendo tutti, infatti, la Nazionale belga – anche grazie a Kim Mestdagh di Schio – si è qualificata per la prima volta alle Olimpiadi. L’evoluzione di Meesseman dalla timida teenager con un udito deficitario a mega-stella delle Washington Mystics e della Nazionale belga ha sorpreso lei stessa: «Tutto ciò che avevo in testa per la mia carriera… è andato al contrario. Ma mi va bene così».

 

La strada che ha condotto Jonquel Jones in Russia, invece, assomiglia a quella percorsa all’epoca da Bird e Taurasi, ovvero quella dei passaporti ottenuti grazie a fantasiosi alberi genealogici. Allora come oggi, il numero di giocatrici non-comunitarie che possono giocare in Eurolega è limitato e Shabtai riuscì a sfruttare le origini ebraiche della famiglia Bird per fornire a Sue un passaporto israeliano. Infatti se Taurasi aveva già un documento italiano (suo padre Mario nacque in Italia), Bird non aveva alcuna familiarità con il vecchio continente.

 

In maniera simile Jonquel Jones, nativa di Freeport, Bahamas, è riuscita ad ottenere il passaporto bosniaco in modi piuttosto misteriosi. Il presidente della federazione cestistica delle Bahamas, Charles “Softly” Robins, ha parlato di «una possibilità che le aprirà molte porte in campionati molto remunerativi in Europa». Vandersloot e Quigley hanno passaporto ungherese, per esempio.

 

Quando Jones non vince la classifica dei rimbalzi e delle stoppate in WNBA è perché viene battuta da Brittney Griner, colei che le dà il cambio nel ruolo di centro a Ekaterinburg. Griner è una personalità all’estremo opposto della composta Jones: durante le Olimpiadi di Rio 2016 disse di poter battere that little man in uno contro uno (quel little man era DeMarcus Cousins); ha tantissimi tatuaggi; adora – passione ereditata dal padre – scorrazzare nella natura sulla sua jeep e non di rado è coinvolta in risse sul parquet. Soprattutto, Griner è una giocatrice senza senso e contro Girona ha catturato cinque rimbalzi offensivi nel solo primo tempo.

 

Eppure, la riserva più forte potrebbe essere un’altra. Alba Torrens è una delle migliori giocatrici europee degli ultimi vent’anni. MVP di EuroBasket 2017, cinque volte campionessa in Eurolega, mai andata in WNBA solo perché non vuole perdersi neanche una partita con la Nazionale spagnola. Torrens è un’ala di uno e novanta in grado di fare qualsiasi cosa su un campo da basket, compresi passaggi del genere:

 

 

 

È adorata da chiunque, avversarie comprese. Tra le giocatrici presenti a Schio, Maria Araujo di Girona ricorda con emozione quando fu Torrens a premiarla in un torneo giovanile, mentre Martina Crippa del Famila l’ha vista per la prima volta all’Europeo Under 15: «Già schiacciava, da lì la seguo sempre».

 

Il mondo di Stewie

E se tutto questo non basta, senza mai inserire le marce alte Breanna Stewart è la più letale giocatrice di basket del pianeta, nonché probabilmente il volto del basket femminile a livello mondiale. In quattro anni con Geno Auriemma a University of Connecticut ha vinto quattro titoli NCAA e per quattro volte è stata la Most Outstanding Player della March Madness. Se nel 2018 ha vinto ogni cosa, tra premi individuali e di squadra con le Seattle Storm e con la nazionale (Mondiale di Tenerife e MVP della competizione compresi) è nell’aprile 2019 che è arrivata la svolta della sua carriera.

 

A Sopron, in Ungheria, si giocano le Final Four di Eurolega. Stewie e la Dynamo Kursk hanno appena distrutto l’USK Praga in semifinale con 32 punti e in finale la attendono Meesseman, Griner, Vandersloot e altre sue attuali compagne di squadra. Ekaterinburg è fortissima e va avanti in doppia cifra prima dell’intervallo. La situazione è disperata per il Kursk e coach Mondelo non concede a “Stewie” neanche un minuto di riposo. Mancano trenta secondi alla pausa lunga quando riceve in ala. Palleggio, arresto, tiro: atterrando, si rompe il tallone d’Achille. Si accascia subito dal dolore, coprendosi la bocca per non urlare. «In un attimo passai dal mio momento più alto della mia carriera al più basso. La realtà mi colpì in faccia duramente» avrebbe detto in seguito.

 

Il recupero è difficilissimo. Salta tutta la stagione WNBA 2019 e, dopo l’operazione pagata dal club, deve sborsare di tasca sua tutte le spese per la riabilitazione. Sceglie un Airbnb a Los Angeles, professionisti di primo livello la seguono in qualunque attività faccia e, quasi un anno intero dopo, torna sul parquet. A febbraio 2020 fa a malapena in tempo ad allacciarsi le scarpe e giocare le ultime partite del girone con Ekaterinburg che l’Eurolega chiude anticipatamente la stagione a causa della pandemia.

 

La WNBA, invece, una stagione riesce a organizzarla. Nella Wubble di Brandenton, in Florida, Stewart gioca più di mezz’ora a sera e sembra non esser mai stata lontana dal campo. Ai playoff Seattle smantella Minnesota in tre partite e la finale contro Las Vegas è attesissima. Sono le due migliori squadre della lega ed è l’inizio di una rivalità che, con ogni probabilità, segnerà i prossimi anni, quella tra Breanna Stewart contro A’ja Wilson.

Il primo capitolo della saga è stato vinto da “Stewie”, che ha vinto il premio di MVP delle finali dopo aver sfiorato, in gara-1, il record storico di punti in una partita alle Finals (38).

 

In più, Stewart è un’atleta che non ha mai avuto remore nell’esprimere le proprie idee su tantissime tematiche diverse. Nel 2017 pubblicò su The Players’ Tribune una lettera in cui rivelò di esser stata vittima di abusi sessuali da bambina. Si unì alla folla per le strade di Los Angeles nel protestare contro l’ordine esecutivo firmato dal presidente Trump rinominato “Muslim ban”. È stata una delle giocatrici che si è espressa ad alta voce per la giustizia sociale e l’importanza del voto alle elezioni americane di novembre 2020 (e per i ballottaggi in Georgia: tutta la WNBA ha avuto un ruolo fondamentale nella vittoria di Raphael Warnock contro Kelly Loeffler). Anche per questo è stata – con altri quattro activist athletes – nominata sportiva dell’anno da Sports Illustrated.

 

Megan Rapinoe ha scritto due righe sulla stessa rivista americana per celebrare la sua stagione, dentro e fuori dal campo: «Quando giochi, o vivi, o fai qualunque cosa con un obiettivo più alto, al di fuori di te, oltre a vincere partite ed essere la migliore in campo… beh c’è qualcosa di speciale in questo. È un superpotere in più».

 

Stewart non ha particolare interesse a spostare le montagne a Schio. Quando la vedo per la prima volta, entra nel palazzetto un’ora e mezza esatta prima della palla a due. L’andatura è caracollante, regge il borsone con il braccio sinistro, mentre nella mano destra tiene un contenitore verde. Su Instagram ha appena ringraziato l’organizzazione di Schio per averle fatto trovare in stanza qualche specialità italiana come formaggi e vino. Come ha detto nel suo podcast “Stewie’s world”, prodotto con la Uninterrupted di Maverick Carter e LeBron James, non riesce a pensare di non giocare a basket per scelta. «Quando tante persone negli Stati Uniti non hanno più un impiego, mi sento fortunata a poter lavorare».

 

Esco per l’ultima volta dall’hotel e vedo di nuovo quella scritta sulla porta, “la Manchester d’Italia”. È un accostamento su cui gli scledensi puntano molto: nell’Ottocento l’industriale Alessandro Rossi fece diventare Schio una delle capitali europee della lana, proprio come la città inglese. Ne resto un po’ sorpreso, siccome nell’immaginario comune Manchester è sinonimo di tempo infame e niente-da-vedere. Facendo due più due, effettivamente, penso che sì, il paragone è perfetto. Certo, ogni tanto a Schio giocano le aliene.

 

 

 

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Michele Pelacci nasce a Parma nell’anno della doppietta Giro-Tour di Pantani. Scrive di ciclismo per Alvento e traccia percorsi per Komoot. Ritiene la Milano-Sanremo una corsa perfetta.