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Foto di Chris Elise/NBAE via Getty Images
NBA Lorenzo Bottini 20 novembre 2019 8'

Dwight Howard: Reborn

La rinascita del centro dei Los Angeles Lakers è una delle storie più imprevedibili della stagione.

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“I bleached my hair for every time I could’ve died

but I survived.” 

Kanye West – On God

 

«Now this is going to be FUN». Così titolava la copia di Sports Illustrated che potevate trovare presso la vostra edicola di fiducia nell’ottobre del 2012 (se la volete ora per incorniciarla, la trovate qui), sulla copertina della quale le due figure eccessivamente esaltate di Steve Nash e Dwight Howard erano pronte a disegnare la rinascita della franchigia gialloviola. 

 

Ora, se siete avidi appassionati di NBA e di Los Angeles Lakers nello specifico sapete bene che quella promessa di divertimento è stata più disattesa del finale di Lost. Anzi, dall’uscita di quel pezzo firmato da Lee Jenkins (che ora lavora per gli L.A. Clippers) i Lakers non sono riusciti neanche a vincere una partita di playoff, perdendo con un secco 4 a 0 l’unico turno giocato proprio quell’anno contro i San Antonio Spurs. Un’esperienza conclusa da Dwight Howard con un’espulsione per proteste dopo una battaglia in post con Aron Baynes.

 

È stata la sua ultima partita di una stagione disastrosa nella Città degli Angeli, visto che quell’estate ha firmato da free agent un quadriennale al massimo salariale con Houston per giocare insieme a James Harden. La loro intesa però negli anni si è sgretolata come le ginocchia e la schiena di Superman, che dopo tre anni ha deciso di uscire dal contratto per firmare con Atlanta, la squadra della sua città natale. Un ritorno ad Itaca più complicato del previsto, che ha innescato una peripezia infernale attraverso le piazze meno attraenti dell’NBA: una discesa agli inferi tra le panchine e le infermerie di Charlotte, Washington e Memphis, fino a finire tristemente ai confini di uno sport che aveva dominato.

 

Una seconda possibilità
All’inizio di questa stagione in molti scommettevano in un Howard fuori dalla lega, ormai superato dall’evoluzione del gioco, rallentato dai costanti problemi fisici e appiedato dalla sua natura poco incline al sacrificio e alla competizione. Invece, per uno scherzo del destino, la sfortuna di un uomo è la fortuna di un altro: quando DeMarcus Cousins si è rotto il legamento crociato anteriore in una partitella estiva, i Lakers si sono ritrovati costretti a trovare un rimpiazzo, un corpo da spendere nei momenti in cui JaVale McGee è in difficoltà aerobica e per risparmiare a Anthony Davis di giocare stabilmente da 5. La scelta ricade proprio sul figliol prodigo, che sconfigge nei provini Joakim Noah e torna a Los Angeles sei anni dopo quell’infausto epilogo dei playoff.

 

Un ritorno che ha l’iconografia della rinascita dalle ceneri, una resurrezione scenografica quanto un disco di Kanye West; solo che l’altro nativo di Atlanta si è affidato a un King più terreno, materico, che invece del pane spezza i tacos al martedì. Uno che è abituato a resuscitare i morti, anche più dell’altro.

 

LeBron James ha costruito una carriera nel rendere i giocatori intorno a sé presentabili ad alti livelli, sostituendo per molti suoi compagni i biglietti di sola andata per la Cina in voli per le Finals. Howard quindi è solo l’ultimo di una lunga lista. Per molti versi, però, è anche il più improbabile, nonché il più affascinante. Non per le qualità intrinseche del giocatore – che per almeno un lustro ha rappresentato la faccia sorridente e supereroistica della Lega – ma per la sua parabola discendente che sembrava averlo portato già molto lontano dal basket che conta. 

 

Invece, appena ricevuta la chiamata da L.A., Dwight si è fatto trovare pronto, tirato come una corda di violino e con i dieci chili d’ordinanza persi durante l’off-season. Ma è soprattutto l’aspetto mentale ad aver stupito maggiormente in questo scorcio di stagione: se fisicamente Howard, al netto dei cronici problemi alla schiena, è sempre stato un androide forgiato con il materiale alieno trovato su qualche asteroide di passaggio, stupisce l’intensità e la concentrazione con la quale si è inserito in un contesto complicato come i Lakers.

 

Nuovo Dwight, Nuovo ruolo

Howard ha dimostrato di essere pronto a giocare minuti importanti in una squadra alla caccia del titolo, calandosi perfettamente nel ruolo del lungo dinamico in grado di impattare sui due lati del campo preservando Anthony Davis dai minuti da 5 in vista dei playoff. 

 

Nella filosofia difensiva “No Roller Behind” di Frank Vogel, impostata sul mantenere il più possibile il lungo a difesa del pitturato evitando di cambiare in ogni situazione di blocco, Howard può esaltarsi nella protezione del ferro. Il difensore del rollante in questa situazione deve impedire che il portatore di palla abbia una autostrada aperta fino al ferro, ma in qualsiasi momento quest’ultimo chiude il palleggio, sia per trovare un pocket pass al rollante o per tentare un tiro, il lungo deve rimanere nel pitturato. Howard arretra verso il canestro mantenendo il palleggiatore di fronte a sé ed evitando che il rollante gli sfili dietro la schiena. È una strategia necessaria visto che spesso i Lakers schierano in campo due lunghi di ruolo, con Anthony Davis da 4, e che permette di avere costantemente una presenza fisica al ferro. Inoltre, se ben eseguita, permette agli esterni sul lato debole di rimanere sui propri uomini, concedendo quindi meno triple aperte. Non è quindi un caso se Los Angeles è quarta per percentuale concessa da tre (31.9%) ed allo stesso tempo difende ad alto livello il pitturato (56% concesso).

 

Anche se è passato quasi un decennio da quando Roy Hibbert a Indiana imitava la Muraglia Cinese erigendosi come il perfetto rim protector di una delle difese più efficienti di sempre, la NBA nel frattempo si è evoluta verso concetti di pace and space che rendono obsoleti i lunghi poco mobili ancorati sotto canestro. I concetti di Vogel, però, si sono confermati vincenti: il tre volte Difensore dell’Anno è ancora un fattore quando si tratta di intimidire i tentativi avversari (-6% al ferro con 4.2 tiri contestati a partita) e ruotare per trovare la stoppata in aiuto (una e mezza a partita). Potendo muoversi in spazi ridotti e sempre a ridosso del ferro, non deve rincorrere giocatori più veloci di lui in mare aperto, ma rimane nel suo, evitando di strafare.

L’impatto di Howard è stato semplificato dalla filosofia difensiva di Vogel ma il tre volte Difensore dell’anno ci ha messo molto del suo.

 

Ma Dwight non è semplicemente un verticalista. Sta dimostrando infatti un’ottima tecnica difensiva quando coinvolto nei giochi a due, allineando le anche per contenere la penetrazione e allo stesso tempo usando le braccia e le mani per fare volume ed evitare facili scarichi in area. La difesa del pick and roll è un lavoro complesso di equilibrio e movimento di piedi, e Dwight in questi ultimi anni ha preso delle lezioni serali di tango. La rapidità con la quale riesce a negare una comoda soluzione dal palleggio del portatore di palla e immediatamente dopo droppare per alterare il tiro del lungo avversario è una qualità che non pensavamo essere più associabile a Howard, anche a causa di quei problemi alla schiena che sembrano essere solo un brutto ricordo.

 

Ora vola per il campo come Superman, e quando entra lui la squadra con il record migliore della lega fa un ulteriore salto in avanti. Dwight ha il miglior NetRtg dei Lakers con un rotondo +14.3 punti per 100 possessi quando lui è in campo e il secondo miglior differenziale tra quando è sul parquet e quando invece siede in panchina (+9) dietro solo a LeBron. Se McGee sembra sempre giocare su un tappeto elastico aumentando l’entropia intorno a sé (con risultati alterni), Howard incredibilmente porta calma e tranquillità dalla panchina facendo cose semplici ed efficaci. 

 

Howard ha riscoperto se stesso come un figlio di papà che torna da un Sunday Service, abbracciando una vocazione francescana che lo ha portato a liberarsi di ogni orpello della sua vita precedente. Ad esempio i possessi in post. Quelli che rappresentavano la parte principale del possessi in attacco di Howard sono stati spazzati via, sostituiti da azioni più in linea con il suo rinnovato ruolo. In una squadra dove la palla va nelle mani di LeBron e Davis, Howard deve adattarsi e sfruttare la gravità che provocano le due superstar in campo. Si è trasformato in un lungo “rim to rim”, che corre in transizione provando a battere in velocità l’avversario diretto, e in un abbonato del dunker spot, dove può banchettare tra le rotazioni avversarie e i rimbalzi dal lato debole. In soli 20 minuti a partita Howard cattura più di due rimbalzi in attacco (3.6 su 36 minuti), convertendoli poi in schiacciate esplosive che riportano indietro le lancette del tempo agli anni della Florida. 

 

La mobilità esibita in difesa è funzionale al nuovo ruolo da rollante che si lancia verso il ferro, risucchiando la prima linea di difesa per aprire il campo agli esterni losangelini. La sua figura scultorea crea dei blocchi granitici sui quali si inchiodano i difensori e si liberano i compagni, generando soluzioni sia sulla palla che lontano da essa. I suoi blocchi creano 4.8 punti a partita, gli stessi di AD ma giocando quasi 15 minuti in meno. E i suoi tagli senza la palla negli spazi lasciati liberi dai raddoppi dimostrano una capacità di lettura sorprendente. 

 

 

Howard ha imparato a giocare dietro la difesa ed a sfruttare negli spazi creati dalla presenza in campo di LeBron e AD per lanciarsi verso il ferro. 

 

Gli ultimi anni di Howard hanno ricalcato il percorso che ognuno di noi compie dalla quinta elementare alla seconda media, quando la maestra chiama a casa per specificare che sei bravo ma non ti applichi. Il nuovo Dwight, invece, risponde a quello che dovrebbe fare una superstar dopo il suo prime, ovvero semplificare al massimo il proprio gioco e diventare un giocatore di ruolo élite. Una strada già indicata da Andre Iguodala e Marc Gasol e che dovrebbe diventare il blueprint da seguire per Carmelo Anthony a Portland.

 

Use This Gospel

Per abbracciare questo cambiamento è necessario mettere da parte il proprio ego, tingersi i capelli ed accettare anche le più piccole cose come un dono. Quando Kyle Kuzma è tornato a disposizione di Vogel, il coach ha cominciato a cavalcare i quintetti con Anthony Davis da 5 e appunto il prodotto di Utah da 4, soluzione prima esplorata poco per la mancanza di profondità sugli esterni. Una piccola rivoluzione che ha ridotto i minuti in campo di Dwight, che ora entra più non come cambio di McGee ma ad inizio secondo quarto, quando Vogel torna alle due torri.

 

Quella che per molti giocatori NBA avrebbe il timbro della bocciatura, per Dwight è solo un ulteriore gradino da scalare nella piramide della serenità interiore. In settimana ha risposto a David McMenamin di ESPN come farebbe Kanye da Letterman, sottolineando l’importanza della meditazione nella sua quotidianità. Qualche giorno prima aveva difeso Kentavious Caldwell-Pope su Instagram, invitando chi è senza peccato a scagliare la prima pietra.

 

https://twitter.com/BleacherReport/status/1196509243161096194?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1196509243161096194&ref_url=https%3A%2F%2Fbleacherreport.com%2Fnba

 

La nuova veste zen di Howard non ha vacillato neanche quando ha incontrato Kobe Bryant allo Staples Center, colui il quale lo aveva bullizzato durante il suo primo soggiorno a Los Angeles, quando si sono viste per la prima volta delle crepe su un atleta che sembrava indistruttibile. Lo ha abbracciato come per mondare le colpe di un passato che ormai esiste solo sulle copertine di Sports Illustrated, e quando gli è stato chiesto se ci fossero ancora tensioni tra di loro, Dwight ha predicato che ora non importa più. È in una nuova era, una nuova alba. Contano solo le vibrazioni positive.

 

Come con Kanye, è difficile dire quanto questa nuova, escatologica trasformazione sia davvero una folgorazione sulla via di Damasco. Sicuramente però una stagione intera a questi livelli aiuterà Dwight a cancellare gli ultimi terribili cinque anni, a rafforzare la sua candidatura alla Hall of Fame ed a restituire al grande pubblico un vecchio amico che sembrava essersi perso per strada. Poi gli rimarrà solo un titolo NBA da conquistare, prima di aprire un negozio di Poke Bowl a Calabasas o ritirarsi in un ranch in Wyoming. 

 

 

Tags : dwight howardlebron jameslos angeles lakers

Lorenzo Bottini nasce nel 1989 a Roma. Si laurea in Storia del cinema interessandosi soprattutto dei rapporti con i nuovi media. Folgorato sulla via di Detroit dai due Wallace, ritiene lo sport uno dei pochi modi rimasti per creare modelli comunitari.

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